Clara continuava a far girare il cucchiaino nella tazza, anche se il tè aveva già perso ogni calore. Fuori dalla finestra, la città sembrava dipinta con una mano stanca: grigi, nebbia e una pioggia sottile che scivolava sul vetro, sfocando i profili dei palazzi come se qualcuno li stesse cancellando. Le giornate, quando Mark era fuori, avevano sempre lo stesso passo pesante: trascinate.
Con un respiro lungo, spinse via la tazza e tornò al portatile sul tavolo della cucina. La schermata della piattaforma freelance era familiare, quasi confortante. Una notifica brillava: “Logo per boutique online”. Clara accennò un sorriso, piccolo ma vero. In quel momento smetteva di sentirsi solo la donna incastrata tra pappe, lavatrici e cene da organizzare: tornava a essere Clara, la designer che sapeva trasformare un’idea in qualcosa che faceva battere il cuore a un cliente. E, da qualche tempo, i suoi guadagni avevano persino superato quelli di Mark.
Aprì il programma di grafica e si lasciò trascinare dal ritmo del lavoro: linee, palette, bozze che nascevano una dopo l’altra. Le dita correvano sulla tastiera, la mente era nitida, sorprendentemente leggera. Intanto il pomeriggio si spegneva, la pioggia aumentava di intensità. Poi, il clic della serratura.
— Sono rientrato — disse Mark dal corridoio, con una voce che suonava stanca e irritata insieme.
Clara minimizzò la schermata del progetto e lasciò in vista una pagina di ricette, come faceva sempre. — Ciao. Com’è andata?
Lui entrò trascinando i piedi, buttò le chiavi sul bancone e si lasciò cadere sulla sedia. — Il solito. Tutto sulle mie spalle. Se non ci fossi io, quell’azienda domani chiude.
Clara non commentò. Conosceva quella storia a memoria: Mark, responsabile vendite in una ditta di materiali edili, detestava il lavoro ma lo venerava come fosse l’unica cosa che li tenesse in piedi. “Stabilità”, ripeteva. Come un mantra.
— Che si mangia? — chiese senza neppure guardarla.
— Polpette con patate. Mancano pochi minuti.
Mark fece una smorfia. — Ancora polpette? Non potevi inventarti qualcosa di… diverso?
La frase le salì addosso come un’onda calda, un bruciore in gola. Aveva passato l’intera giornata a far quadrare ogni cosa: Danny, la casa, la spesa, le consegne. E ora doveva anche sentirsi in colpa per il menù?
— Se non ti va bene, puoi cucinare tu — uscì, più tagliente di quanto avesse previsto.
Mark alzò lo sguardo di scatto. — Ehi, perché sei aggressiva? Ho solo espresso un’opinione.
— Perché sono esausta — rispose lei, senza addolcirla. — Sono stata tutto il giorno da sola con Danny.
Lui sbuffò. — Eh certo… la fatica di stare a casa.
Clara serrò i pugni sotto il tavolo. Quel muro tra loro non era più un’ombra: era una costruzione solida, aggiungeva mattoni ogni giorno. Per Mark lei era rimasta la donna in vestaglia, quella che “non lavora”, quella che “spende” e “si lamenta”. Non la professionista che consegnava progetti all’alba e teneva in piedi i conti della famiglia.
— Lasciamo perdere — tagliò corto lui, alzandosi. — Dov’è Danny?
— In cameretta. Gioca.
Mark sparì nel corridoio. Clara restò immobile un istante, fissando la pioggia che non accennava a fermarsi, sentendosi addosso la stessa umidità: non sulle mani, ma dentro.
Qualche giorno dopo, nella loro casa comparve Julia.
Mark l’aveva conosciuta per lavoro: cliente, proprietaria di uno studio di interior design. E a lui era bastato poco per farsi catturare. Julia aveva quella sicurezza che riempiva gli spazi, un’energia che sembrava sempre sul punto di diventare successo. Ai suoi occhi, rappresentava tutto ciò che Clara “non era più”.
Una sera Mark entrò con lei, come se fosse la cosa più naturale del mondo.
— Clara, lei è Julia. Julia, mia moglie.
Julia le porse una mano perfetta, unghie curate, sorriso da copertina. — Piacere. Ho sentito parlare tanto di te.
Clara sentì un brivido, sottile e sgradevole. Tanto, cosa? — Il piacere è mio — rispose, lanciando un’occhiata a Mark che lui evitò con naturalezza.
Quella sera Mark e Julia parlarono senza sosta di progetti, clienti, idee. Ridevano di battute che sembravano codici tra “addetti ai lavori”. Clara, nel frattempo, faceva da comparsa: preparò il tè, sparecchiò, controllò Danny, mise a posto. A un certo punto capì di sentirsi ospite a casa propria.
E Julia non fu un episodio. Tornò. Spesso. Ogni volta un po’ più a suo agio, ogni volta Mark un po’ più attratto dalla sua orbita.
Quando una notte Julia se ne andò, Clara non riuscì più a trattenersi.
— Che cos’è tra voi?
Mark spalancò gli occhi, troppo teatrali per essere veri. — Cosa? Ma niente. Siamo amici.
Clara rise, ma senza gioia. — Amici? Ti ho visto, Mark. Vedo come la guardi.
Lui rimase zitto, a lungo. Poi, con tono piatto, come se stesse leggendo un elenco: — Sono stanco, Clara. Stanco di tutto. Di te che sei sempre scontenta. Sempre a protestare. Sei diventata… noiosa.
Quelle parole la colpirono in pieno, come un colpo secco allo stomaco.
— E quindi? — chiese, con una voce che non riconosceva.
Mark abbassò lo sguardo. — Non lo so. Forse… forse ci serve una pausa.
In quel momento Clara capì che non era una semplice crepa. Era già crollato tutto, solo che nessuno aveva avuto il coraggio di guardare le macerie.
Il giorno dopo Mark rientrò tardi. Clara lo aspettava in salotto, con una luce bassa e un’aria densa come piombo. Lui entrò, posò le chiavi, schivò i suoi occhi.
— Dobbiamo parlare — mormorò, tirando fuori una cartellina. — Sono i documenti per il divorzio.
Clara non fece una piega. Ma dentro, come un’eco, le frasi si ripetevano e graffiavano.
Mark continuò, come se recitasse la parte che si era allenato a dire: — Sono sfinito. La routine, i problemi… tu. Mi sento in gabbia. Tu non cambi. Non fai nulla. Non lavori, non cresci. Alla fine tocca sempre a me.
Poi arrivò la lama, pulita e crudele:
— Sto con un’altra. Con Julia. Con lei è più semplice. Mi capisce. Mi fa sentire vivo. La amo. Voglio stare con lei.
Clara chiuse gli occhi per un secondo. Così breve che sembrò un battito. Era la fine, senza appello.
Quando li riaprì, la voce le uscì sorprendentemente chiara. — Va bene, Mark. Firmo.
Lui rimase interdetto. Si aspettava una scena: urla, pianti, suppliche. Non quella calma.
— Non… non combatterai?
— Per cosa? Hai scelto. Io non trattengo chi non vuole restare.
Si alzò e andò verso un vecchio comò. Ne tirò fuori un fascicolo spesso, legato con un nastro, e lo posò sul tavolo accanto ai documenti.
— Tieni. Ti farà capire parecchie cose.
Mark aggrottò la fronte. — Cos’è?
— Apri.
Dentro c’erano estratti conto, contratti, schermate della piattaforma freelance, ricevute e bonifici. All’inizio piccoli importi: un logo, un banner, un pacchetto social. Poi cifre sempre più alte: progetti completi di branding, siti, consulenze ricorrenti. E, mese dopo mese, un risparmio sul conto di Clara che cresceva fino a superare lo stipendio di Mark. Di molto.
Lui impallidì. — Che… che significa?
Clara lo fissò senza tremare. — Significa che negli ultimi due anni ho guadagnato più di te. E ho pagato, in silenzio, un sacco di cose che tu davi per scontate.
Gli indicò una sezione a parte: preventivi, fatture, scontrini di ferramenta, contatti con un’impresa. — Stavo organizzando una ristrutturazione. Volevo farti una sorpresa per il nostro anniversario.
Poi tirò fuori delle brochure: corsi avanzati, specializzazioni. — Dicevi di sentirti fermo. Volevo darti la possibilità di aggiornarti, di imparare, di cambiare davvero.
Mark rimase muto, intrappolato davanti a una prova che demoliva il personaggio che si era raccontato: quello dell’uomo che “porta tutto sulle spalle”.
— E poi — aggiunse Clara, con una calma che aveva qualcosa di definitivo — mettevo da parte per un viaggio. Venezia. La tua città-sogno.
Si chinò leggermente, come per chiudere un libro.
— Ma adesso ci andrò io. Con nostro figlio. E sarà bellissimo lo stesso.
Mark si passò le mani sul viso. — Perché me lo stai mostrando?
— Perché tu sappia chi sono — disse lei. — Non sono un peso. Non sono quella donna inerme che ti sei inventato. So prendermi cura di me. E di Danny.
Poi prese la penna e firmò, una pagina dopo l’altra, con un tratto netto.
— Adesso prendi le tue cose — disse, indicando la porta. — E vai.
Mark restò immobile. Poi si mosse, lento, come se ogni passo fosse più pesante del precedente. Sulla soglia si voltò, con una voce incrinata. — Clara… mi dispiace.
Lei non rispose. Rimase vicino alla finestra. Le luci della città tremavano dietro la pioggia, e per la prima volta non le sembrarono tristi. La porta si chiuse. E con quel suono qualcosa le scivolò via dalle spalle: un peso antico, che non le apparteneva più.
La “leggerezza” promessa da Julia durò poco. Finita l’euforia del segreto, arrivarono le crepe: Mark divenne distratto, inefficiente, perse il lavoro. Le bollette si accumularono. Julia, che non aveva mai amato la fragilità, trasformò il disprezzo in abitudine. E la loro storia, invece di salvarlo, lo fece affondare.
Una sera, da solo, chiamò Clara.
— Sono io.
— Ti ascolto — rispose lei. La voce era calma, quasi professionale.
— Ho sbagliato tutto — disse, con il fiato corto. — Voglio tornare.
Dall’altra parte calò un silenzio lungo, pieno.
— Tornare dove, Mark? — disse lei alla fine. — Non c’è più un posto per te qui. Io vivo nel presente. Tu non ne fai parte.
— Ma ti amo…
— No — rispose Clara, dolce ma ferma. — Ami l’idea che avevi di me. La realtà ti ha fatto paura. Puoi vedere Danny quando vuoi. Ma tra noi è finita. Addio.
Chiuse la chiamata. Mark restò nel buio, con il rumore del suo fallimento che gli rimbombava nelle orecchie.
Qualche settimana dopo, scorrendo i social con le dita pesanti, inciampò in una foto: Clara su un ponte a Venezia, sorriso aperto, vento tra i capelli. Con una mano reggeva la macchina fotografica, con l’altra teneva Danny, che rideva guardandola come si guarda una casa sicura.
Il dolore, questa volta, fu fisico.
In quella sola immagine c’era tutto: ciò che aveva buttato via, ciò che non avrebbe più potuto riavere. Clara era felice. Si era costruita la vita che meritava. E in quella vita non c’era più spazio per lui. Aveva scelto la scorciatoia e aveva perso l’unica cosa che valeva davvero la pena proteggere.
