Sono rientrata dal turno stremata e ho fatto appena in tempo ad appoggiare la borsa che mio figlio mi è piombato addosso, aggrappandosi al mio collo come se avesse paura che sparissi. Mi ha stretto così forte da farmi male, poi il suo corpo ha iniziato a tremare e le lacrime sono uscite tutte insieme.
«Mamma… io con la nonna non ci voglio più stare.»
In quel momento ho sentito il sangue diventare ghiaccio. Non era un capriccio, non era la solita crisi da stanchezza. Era panico vero. E l’ho capito pochi minuti dopo, quando ho iniziato a rimettere insieme i pezzi.
L’ho cresciuto da sola. Suo padre se n’è andato quando aveva meno di un anno, lasciandomi in mano un bambino piccolissimo e una vita da ricostruire. Da allora ho fatto di tutto: doppi turni, lavoretti extra, notti in bianco e conti tirati fino all’ultimo centesimo. La nostra famiglia era fatta di due persone e tanta fatica.
Mia madre, quando riusciva, mi dava una mano. Senza di lei sarei crollata più di una volta. Solo che ultimamente… qualcosa non tornava. A volte si perdeva nei discorsi, si interrompeva a metà frase come se avesse sentito altro. Dimenticava cose semplici, importanti. Io, per non spaventarmi, mi dicevo che era l’età, che era stanca, che aveva bisogno di riposo. E quando non poteva venire lei, cercavo una tata, anche se era un lusso che non mi potevo permettere davvero.
Un giorno mio figlio mi aveva guardata serio, troppo serio per la sua età:
«Mamma, non potresti smettere di lavorare?»
Gli avevo sorriso, passandogli una mano tra i capelli.
«Magari, amore. Ma servono i soldi per l’affitto, per mangiare… e anche per i tuoi giochi. Perché me lo chiedi?»
Lui aveva scrollato le spalle, come se stesse buttando lì una curiosità.
«Così… per sapere.»
Io non ci avevo visto niente. Me ne vergogno ancora.
Qualche sera dopo, però, appena sono rientrata, mi è corso incontro e mi si è aggrappato addosso come il primo giorno. Solo che quella volta è scoppiato a piangere senza fermarsi.
«Ti prego… non lasciarmi più con la nonna.»
«Ma perché? Ti ha rimproverato? Ti annoi?»
Scosse la testa, gli occhi rossi, lucidi di paura.
«Fa… fa cose strane. Io ho paura.»
Mi sono abbassata alla sua altezza, cercando di non tremare.
«Che cosa è successo? Dimmi tutto.»
Lui ha abbassato lo sguardo. La voce gli usciva a pezzi.
«Mi ha fatto male… Mamma, non farla tornare. Ti prego.»
Ho chiamato subito mia madre. Al telefono sembrava tranquilla, quasi infastidita. Mi ha detto che era tutto normale, che avevano giocato, che mio figlio “si inventava storie”. Eppure, davanti a me, quel bambino aveva uno sguardo che non avevo mai visto: come se avesse visto qualcosa che non avrebbe dovuto vedere.
Il giorno dopo ho preso un permesso. Ho finto di uscire per lavorare, ho chiuso la porta come sempre e poi sono rientrata piano, con il cuore che mi martellava nelle orecchie. Mi sono nascosta nell’armadio della camera, trattenendo il respiro come in un brutto film.
All’inizio sembrava tutto normale: voci basse, passi, un silenzio quasi ordinario. Poi, all’improvviso, ho sentito mio figlio lamentarsi. Ho spiato da una fessura.
Mia madre gli aveva afferrato il polso. Non era una presa per guidarlo, non era un gesto affettuoso: era una stretta dura. Gli ha torto il braccio e ho visto la smorfia di dolore sul viso di mio figlio. Poi ha aperto una valigia che non avevo notato e ne ha tirato fuori una cordicella, come se fosse la cosa più normale del mondo.
Il bambino ha provato a chiamarmi.
Lei si è avvicinata e gli ha tappato la bocca con la mano.
Io, nell’armadio, stavo impazzendo. Volevo uscire, urlare, correre. Ma la paura mi inchiodava: paura di peggiorare tutto, paura che lei gli facesse ancora più male.
E poi l’ho sentita dire una frase che mi ha svuotata.
Ha alzato gli occhi verso il soffitto e ha sussurrato, come se stesse parlando con qualcuno:
«Avete visto? Ho fatto come mi avete detto.»
È rimasta immobile, in ascolto di un interlocutore invisibile. Poi ha riso. Un riso basso, spezzato, che non le apparteneva.
«No… non se ne andrà. È nostro.»
In quel momento non ci ho visto più. Ho spalancato l’armadio come se stessi rompendo una prigione.
«Mamma! Che cosa stai facendo?!»
Lei si è voltata lentamente, con gli occhi lucidi, febbrili, come se non mi vedesse davvero.
«Me lo dicono le voci…» ha sussurrato.
Mi si è seccata la gola.
«Quali voci?»
«Sono qui. Sempre con me.» E mentre lo diceva, le si è formato un sorriso storto. Subito dopo ha iniziato a piangere e, un attimo più tardi, a ridere. Senza motivo, senza controllo, come se dentro di lei si stessero accendendo e spegnendo interruttori impazziti.
Sono corsa da mio figlio, gli ho sciolto le mani con dita che non riuscivo a far stare ferme e l’ho stretto contro il petto, forte, forte, come se potessi cancellare tutto stringendolo abbastanza.
Mia madre è rimasta lì, a mormorare parole al vuoto.
Quella stessa giornata l’ho portata dal medico. Non era più una scelta, non era più “forse”, non era più “starà solo attraversando un periodo difficile”. Dopo visite, esami, colloqui, è arrivata la diagnosi che mi ha fatto crollare: schizofrenia.
Mi sono sentita terrorizzata e a pezzi. Perché quella non era solo “una persona pericolosa”: era mia madre. La donna che mi aveva cresciuta, protetta, difesa quando ero piccola. E ora, senza volerlo e senza capirlo, poteva fare del male a mio figlio.
In un colpo solo mi sono ritrovata a piangere per due cose opposte: per la madre che stavo perdendo… e per il bambino che dovevo salvare.
