«Fece salire in auto una sconosciuta sotto il diluvio. Una settimana dopo rimase scioccato: il suo volto era finito al telegiornale.»

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La notte sembrava una lastra di ferro: gelida, sferzata da raffiche che piegavano gli alberi, e una pioggia così fitta da trasformare l’asfalto in un unico specchio scuro. Il cielo, ingoiato da nuvole pesanti, pareva aver nascosto la luna apposta, lasciando la strada in balia del buio e dell’acqua. Il vento del nord strappava le ultime foglie ingiallite e le scagliava contro i rari passanti, come se volesse rispedirli di forza a casa. La provinciale che usciva dalla città era quasi deserta: solo qualche fascio di fari lontani tradiva il passaggio di altre auto in quell’oceano di notte.
Ivan Morozov stringeva il volante della sua vecchia e fedele Volga del ’95, con le dita ormai quasi insensibili. Il freddo filtrava attraverso le suole sottili e gli risaliva lungo le gambe come un brivido metallico. L’auto, un tempo orgoglio di suo padre, scricchiolava a ogni buca; il riscaldamento, ultimo baluardo contro il gelo, aveva deciso di abbandonarli all’improvviso.
«Maledizione…» sbottò fra i denti, avvicinando le spalle, come se potesse scaldarsi così. Voleva solo tornare a casa, buttarsi sotto una coperta, sentire le risate delle sue bambine, il profumo della cena, il calore delle braccia di sua moglie. Abbracciarla e, almeno per qualche ora, dimenticare che fuori dalle finestre non c’erano soltanto pioggia e vento, ma anche quel peso sordo che la vita gli aveva messo addosso.
Fu in quel momento che, nel cono dei fari, apparve una figura sul ciglio della strada.
Una donna.
Sottile, quasi evanescente, sembrava fatta della stessa oscurità che la circondava. Il cappotto inzuppato le si appiccicava addosso, i capelli bagnati alle guance, gli occhi che nel riflesso dei fari brillavano di paura, ma anche di ostinata determinazione. Alzò una mano, non con il gesto distratto di chi chiede un passaggio, ma come chi afferra l’ultimo gancio prima di cadere.
Ivan frenò, mise la freccia e accostò, sentendo le gomme scivolare un poco sulla ghiaia.
«Grazie!» disse lei, appena lui scese. La voce le tremava, ma era chiara. «Lei… lei è il mio angelo.»
Ivan le aprì lo sportello del passeggero senza esitazione.
«Su, salga. Fuori si gela. Con un tempo così non girano nemmeno gli orsi… e invece ci trovo una signora in cappotto.»
Lei si ritrasse di un passo. «No, davvero, non voglio disturbarla. La mia macchina si è spenta poco dopo la curva. Ho provato a chiamare il carro attrezzi, ma qui il telefono non prende. Pensavo che magari…»
Ivan controllò il suo vecchio Nokia: schermo vuoto. «Zero tacche. Qui non arriva neanche una magia, figuriamoci il segnale. Ma posso accompagnarla al prossimo distributore: un tetto, un telefono, magari un tè caldo.»
La donna strinse la borsa al petto come se lì dentro ci fosse tutto ciò che aveva. Ivan abbassò il tono:
«Mia madre ha pressappoco la sua età. Se le capitasse qualcosa del genere, vorrei che qualcuno si fermasse. Mi lasci fare: sto solo dando una mano a una persona in difficoltà.»
Quella naturalezza le smontò le difese. Fece un cenno con il capo e salì in macchina, cercando di non bagnare troppo i sedili.
Per rompere il gelo, Ivan iniziò a parlare. Le raccontò di Ženja, la maggiore, nata con il comando nel sangue; di Daša, tutta fantasia e colori; di Liza, la piccolina, già furba come una volpe. Parlò di sua moglie e del quarto figlio in arrivo: speravano in un maschietto, da chiamare Aleksej come il nonno. Sorrise, ma con un’ombra negli occhi:
«Il lavoro va a singhiozzo: stipendi che arrivano quando vogliono, il capo sempre in ferie, le bollette no. Però resistiamo. Abbiamo sempre resistito.»
Non era una lamentela, solo un modo diretto per dire che la vita colpisce, ma resta comunque degna di essere vissuta.
Arrivati al distributore, la donna si presentò: «Valentina Pavlovna.» Poi tirò fuori il portafoglio. «Mi dica quanto le devo per il disturbo.»
Ivan scoppiò a ridere. «Neanche un rublo. Io e mia moglie abbiamo una nostra piccola usanza: la chiamiamo “Catena della bontà”. Aiuti chi puoi e in cambio chiedi solo che, un giorno, quella persona faccia lo stesso con qualcun altro. Così la gentilezza non si ferma, ma si allarga.»
Valentina lo fissò in silenzio per qualche secondo, come se stesse valutando il peso di quelle parole. Poi annuì lentamente. «Va bene. Continuerò io.»
Chiamò il carro attrezzi dal telefono del distributore e poi entrò nel piccolo bar, ancora tremante. Una cameriera con il viso stanco ma dolce e un pancione che non lasciava dubbi le andò subito incontro:
«Accidenti, è zuppa! Le porto subito un asciugamano e il tè più forte che abbiamo.»
Al tè si aggiunsero una coperta asciutta, due asciugamani, una fetta di torta e un’attenzione premurosa a cui, nel mondo di oggi, molti hanno smesso di credere.
Quando arrivò il momento di pagare, la cameriera mormorò: «Duecentocinquanta.»
Valentina appoggiò sul bancone mille rubli.
«È troppo…» fece la ragazza, sorpresa.
«Un attimo.»
Mentre la giovane cercava il resto, Valentina infilò sotto la teiera altri duemila rubli e un biglietto, scritto con grafia decisa:
«Anche a me, un tempo, qualcuno ha teso la mano. Non mi deve niente. Solo questo: non interrompa la Catena.»
Quando la cameriera tornò, scoprì i soldi e lesse il foglietto. Le si riempirono gli occhi di lacrime. Non era solo sollievo per il denaro—era la gratitudine di chi, all’improvviso, scopre che nel mondo non esiste soltanto durezza, ma anche una gentilezza concreta e silenziosa.
Quella sera, a casa sua, si addormentarono tutti ammassati sul divano: il marito con la barba incolta e una cicatrice sopra il sopracciglio; le tre bambine ammonticchiate intorno a lui—una con un libro che le scivolava dalle mani, una con i pastelli ancora stretti fra le dita, la più piccola abbracciata al suo coniglio di stoffa. La donna si chinò e posò un bacio sulla fronte dell’uomo.
«Ti amo, Vanja Morozov…» sussurrò.
I giorni passarono.
Una sera, Ivan stava guardando il telegiornale accanto alla moglie, quando all’improvviso sullo schermo apparve il suo viso.
La voce del giornalista riempì il salotto:
«La storia di un automobilista che non ha tirato dritto sta commuovendo il Paese. Valentina Pavlovna, chef famosa e proprietaria di una catena di ristoranti, ha raccontato in rete come uno sconosciuto, alla guida di una vecchia auto d’epoca, l’abbia soccorsa in una notte di tempesta. Ha deciso di aprire una raccolta fondi per la famiglia Morozov, impegnandosi a raddoppiare ogni donazione.»
Centomila. Poi duecentomila. Poi trecentottantamila. Le cifre salivano di ora in ora. Arrivavano offerte da Murmansk a Vladivostok, dai villaggi sperduti alle grandi città.
«Anch’io, una volta, sono rimasto fermo sul ciglio di una strada. Adesso tocca a me aiutare,» scrivevano in tanti.
Un mese più tardi, in ospedale, Ivan teneva fra le braccia il neonato. Al suo fianco c’era Valentina, in tailleur, lo sguardo caldo e un sorriso che diceva tutto senza bisogno di parole.
«Se non vi dispiace,» chiese piano, «mi piacerebbe essere la madrina.»
Ivan la fissò, commosso, e poi annuì:
«A una condizione sola: mi prometta che non spezzerà la Catena.»
Lei posò una mano sul piccolo e lo giurò.
E la Catena proseguì.
Perché la bontà non è una risorsa che si consuma: nasce da un gesto, e da lì in poi non fa altro che moltiplicarsi.

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