«È viva! La sento… sta ancora respirando!» gridò l’infermiera, con la voce rotta dall’emozione, proprio mentre i medici, ormai rassegnati, stavano per disattivare le apparecchiature.

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«Di nuovo con la faccia di chi ha dormito in un campo di patate, non in un letto?» scherzò Olga, abbozzando un sorriso mentre si sistemava il berretto bianco davanti allo specchio appannato. Il cambio turno nel reparto di degenza del piccolo ospedale distrettuale sembrava sempre una scenetta di teatro: infermiere stravolte che passavano il testimone alle colleghe appena arrivate, insieme a cartelle, pazienti e le ultime voci di corridoio.

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Accanto a lei, con la gamba accavallata, sedeva Alina. Lo sguardo le correva inquieto per la stanza, finché non si fermò sulla nuova ausiliaria, Marina, che in silenzio allineava i vestiti puliti sugli scaffali. «Guardala bene,» sussurrò ad Olga, chinandosi. «Capelli tirati, zero trucco… sembra pronta per un esame, non per un turno in ospedale.»

Olga alzò le spalle. «È venuta a lavorare, non a sfilare. Qui dentro di principesse non sappiamo che farcene.»

Alina fece una smorfia. «La difendi pure? Troppo taciturna, per i miei gusti. Con chi parla poco bisogna stare all’erta.»

Olga sorrise di sbieco. «Forse sei tu che trovi problemi anche dove non ci sono.»

Alina aggrottò le sopracciglia, un lampo di irritazione negli occhi. «Intorno a lei c’è troppo silenzio. Non mi torna.»

Marina, come se non avesse sentito nulla, continuò a piegare le camicie. Fuori il giorno calava e il corridoio si riempiva del solito ronzio serale.

«Stasera fanno la riunione per il caso della ragazza in rianimazione,» mormorò Alina. «Hai sentito? Stamattina i genitori hanno quasi litigato.»

«Non c’è da stupirsi,» sospirò Olga. «Tu avresti la forza di decidere sulla vita di qualcuno?»

Alina fissò il soffitto. «Credo di no. La morte mi fa paura.»

«Io temo l’indifferenza,» rispose Olga, appena sopra un sussurro.

Un richiamo spezzò il momento: «L’ausiliaria! Dov’è l’ausiliaria?!»

Marina lasciò tutto ed uscì di corsa, lasciandosi dietro un lieve odore di sapone e un’ombra d’inquietudine.

Un mese e mezzo prima, tutto era cominciato con il lamento di un’ambulanza. Marina, appena assunta, vide dalla finestra la folla raccolta all’ingresso. Lisa, studentessa brillante, era arrivata d’urgenza dopo un incidente in moto con il fidanzato, Nikita. Da quel giorno le vite di tutti rimasero sospese davanti a quella porta chiusa.

Nikita non mollava l’ospedale: scriveva il nome di Lisa sull’asfalto col gesso, implorava di poterla vedere. I genitori, distrutti, ce l’avevano con lui: «È stato lui a rovinarle la vita!»

Una sera, mentre Marina passava lo straccio in rianimazione, un filo di voce la gelò: «Nikita…» La ragazza immobile a letto aveva pronunciato quel nome. I monitor non segnarono nulla, ma Marina era certa di ciò che aveva sentito.

La paura diventò ostinazione.

Quando arrivò il professor Evgenij Parchomenko, luminare della rianimazione, la tensione salì. Il suo parere avrebbe pesato come una sentenza. Mentre i medici discutevano del distacco delle macchine, Marina irruppe nella sala riunioni:

«Non potete farlo! L’ho sentita, ha parlato!»

Gli sguardi scettici scivolarono su di lei. Boris Aleksandrovič, spazientito, fece calare il verdetto: licenziata. Marina uscì con le gambe molli, convinta di aver perso tutto: lavoro, reputazione, fiducia in sé.

Il destino, però, aveva altri piani. Il giorno dopo, alla sua porta bussò proprio Parchomenko. Portava una notizia che le riempì gli occhi di lacrime: Lisa si era svegliata. Gli strumenti non avevano registrato nulla perché alcune sonde erano allentate.

«Non ti sei sbagliata,» le disse calmo. «Hai salvato una vita.»

Da quel momento, tutto cambiò. Marina fu reintegrata; Parchomenko le propose di entrare nella sua clinica e, col tempo, anche nella sua vita. La diffidenza lasciò spazio al rispetto, e dal rispetto sbocciò un affetto profondo.

Anni dopo, con la piccola Varya che dormiva nella culla, Marina le accarezzava i capelli fini e pensava che la vita ci mette davanti a scelte dure, ma ci insegna anche il perdono. Senza perdono non c’è domani. Le parole più forti restano due: «grazie» e «ti perdono».

Fuori il sole brillava. E per la prima volta, da tanto tempo, Marina sentì davvero che tutto andava nel verso giusto.

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