Cercando di non far scricchiolare nemmeno una tavola, Elisaveta Andreevna Malinkina—ventisette anni—avanzava lungo il corridoio che conduceva alla stanza di Alisa, la quattordicenne figlia del padrone. Doveva solo dare un’occhiata, assicurarsi che dormisse; poi, finalmente, anche lei avrebbe potuto chiudere gli occhi per un paio d’ore.
Da due settimane Liza lavorava nella villa del miliardario Voropaev, subentrata alla sorella maggiore, Antonina, fermata da una malattia improvvisa in viaggio. Il posto era prezioso per tutta la famiglia: quella paga superava qualsiasi altra in zona, e Antonina aveva due figli da mantenere—Marina, quattordici anni, e il piccolo Vanechka, sei. Le mansioni erano semplici: tenere la casa in ordine e, soprattutto, non farsi notare. Con un’eccezione: quando Alexej Voropaev e la sua fidanzata, Angelika, erano fuori, Liza doveva dormire in villa. Alisa restava sola nelle notti silenziose, mentre le stanze del personale erano all’estremo opposto della tenuta.
Parte II
Mentre saliva i gradini, Liza colse un singhiozzo, sottile ma insistente. Guardò l’orologio: le tre del mattino.
«Strano… piange ancora. Non è normale», mormorò.
Spinta da un presentimento, bussò piano. Non era il capriccio di una ragazzina viziata, lo sentiva: se tra tanto lusso si piange così, dev’esserci una ferita vera. Nonostante le raccomandazioni di Antonina—«mai farti sorprendere dai padroni»—Liza abbassò la maniglia ed entrò.
— Che ci fai qui?! Chi ti ha dato il permesso?! Fuori, o chiamo la sicurezza! — urlò Alisa, scagliandole contro un cuscino.
Liza lo afferrò al volo e, senza pensarci, glielo rilanciò addosso: il bordo le urtò la testa.
— Come osi?! Lo dirò a papà, verrai licenziata! — sbottò la ragazza.
— Faccia pure, — replicò Liza, asciutta. — In questa casa non si chiude occhio: c’è sempre qualcuno che piange. Ah già, sei tu. Che succede stavolta? Papà non ti ha comprato la luna? Ti si è spezzata un’unghia?
Alisa scoppiò in lacrime più forte.
— Non capisci niente! Se sapessi quanto sto male…
— Certo, un dolore indicibile, — ribatté Liza, ironica. — A quattordici anni piangevo anch’io, ma perché tornavo a piedi da scuola. Tu almeno hai l’autista.
— E per questo dovresti piangere? — fece Alisa, spiazzata.
— Perché dopo la scuola si andava a nuotare, in autunno a raccogliere funghi, d’estate un gelato con gli amici. Tu invece? Non viene mai nessuno. Non hai con chi parlare.
Liza fece un mezzo passo verso la porta, quando la voce di Alisa la trattenne:
— Come si fa ad avere degli amici? Io… non ne ho. Nessuno.
— Nessuno proprio? — chiese Liza, incredula.
— Nessuno. Prima c’era la mamma, ma dopo il divorzio mi hanno spedita a studiare all’estero. Mi sono ammalata e papà mi ha riportata qui.
— E perché vivi con tuo padre e non con tua madre? — domandò Liza, con un nodo in gola.
— La mamma non vuole più vedermi. Ha un’altra famiglia, un marito e dei bambini piccoli.
— Te l’ha detto lei? — insistette Liza.
— No. Me lo ripete papà. Io… non la vedo da tanto.
— Tuo padre è un idiota, — sbottò Liza. — Solo un egoista può mettere certe cose nella testa di una figlia.
Le parole rimasero sospese nell’aria. Per un momento nessuna delle due parlò. Poi, nella cornice della porta, comparve la sagoma di un uomo sulla trentina.
