Rimase di sasso quando scorse la sua ex alla guida di un SUV di lusso.

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Anton tamburellava sul volante, i polpastrelli che picchiettavano un ritmo nervoso. La fila di pedoni sembrava non finire mai; attraversavano come un fiume lento e ostinato. Sbuffò, mordendosi una bestemmia tra i denti.

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— Ma quando si svuota ‘sta strada? — borbottò. — Questa città è un museo a cielo aperto… di gente senza macchina.

Immobilizzato nel traffico, lasciò vagare lo sguardo. Alla corsia accanto scivolò un SUV di alta gamma, lucido come appena uscito da uno showroom: carrozzeria senza un graffio, cromature che lanciavano lame di luce.

Al volante c’era una donna.

— Ma guarda… pure una donna al comando — ghignò. — Chissà quanto le è costato… o chi.

Proprio allora, la guidatrice si sfilò gli occhiali, scostò una ciocca e si specchiò nello retrovisore. Il cuore di Anton fece un salto.

Quel viso lo conosceva meglio delle sue tasche.

Era Lera. La sua ex moglie.

— Non può essere… — sussurrò, come se parlare forte potesse infrangere l’illusione. — Come diamine ha messo le mani su un’auto del genere?

I ricordi lo investirono senza preavviso. Al divorzio, s’era preoccupato che lei non restasse con niente. Niente soldi, niente casa, neppure la patente. E adesso? Lì, al volante di un SUV scintillante, mentre lui arrancava nella sua carcassa di utilitaria.

Forse aveva tenuto da parte qualcosa? Una rendita segreta? Un colpo di fortuna?

La mente corse agli inizi. Lera, con i capelli in disordine e le dita macchiate di vernice, che colorava i muri della sua vecchia fattoria. Lui, a cui quei murales non interessavano per nulla, che fingeva entusiasmo per piacerle.

“Solo vandalismo,” pensava. “A chi servono quelle macchie?”

Però a parole la incensava. Gli bastava il magnetismo che lei emanava. Dopo qualche mese il flirt prese forma; Lera era acuta, mite, capace di contraddirti con rispetto. Per oltre un anno lui recitò la parte dell’intenditore, poi decise: era la donna da sposare. Proposta da manuale: tetto dell’ufficio, fiori, ghirlande, ginocchio a terra e anello luccicante.

Nozze in hotel elegante, e il primo ripensamento già al banchetto. Gli amici di Lera — rumorosi, eccentrici — stonavano con il suo mondo di colleghi incravattati. Si sentì piccolo davanti al loro giudizio immaginario.

— La prima cosa che farò sarà bandirli da casa — si promise. — È mia moglie adesso. Quel circo fuori dalla porta.

Lera accettò sorprendentemente senza alzare la voce, chiedendo solo di poterli vedere altrove.

— Anton, non posso tagliare i ponti con chi non ti piace — disse piano. — Anche a me non vanno giù certi tuoi amici, ma non ti metto il divieto.

— Non fare paragoni — la troncò. — I miei sono persone serie. L’élite.

Lei sapeva che non era vero. Tacque.

Le restrizioni non finirono lì. Non sopportava il suo odore di solvente, le macchie sui vestiti, il caos creativo. Quella libertà che un tempo lo aveva stregato, ora gli sembrava disordine da mettere in riga. Tra frecciatine e pressioni, le spezzò le mani: Lera smise di dipingere.

— L’arte la guardi al museo — sentenziava. — Non si imbrattano muri nei vicoli. La gente è stufa di giustificare le tue stranezze.

— Non è un passatempo, è il mio lavoro — provò a difendersi. — Neanche tu hai una laurea, eppure…

— Non sei un’artista. Sei solo una che scarabocchia — chiuse lui, gelido.

Quelle parole le rimasero addosso come spine. Per giorni non parlò. Un mattino, album, pennelli e barattoli sparirono. Tornava a casa presto, profumata di una lozione leggera invece che di olio di lino.

Anton si sentì sollevato.

— Brava ragazza — le disse portandola a cena, convinto di aver vinto.

Era splendida, abito bordeaux e un taglio nuovo.

— Guarda che coppia facciamo — gongolò davanti allo specchio. — Ora sì che sembri mia moglie. Adesso cose serie: cucina, casa, manualità…

Lera non rispose. La donna nello specchio non le apparteneva. In quell’istante capì che doveva ritrovarsi.

Provò, sbagliò, riprovò. Poi inciampò nella fotografia. L’occhio che aveva allenato sui muri divenne inquadratura; la ricerca della luce, linguaggio. Le sue immagini respiravano. Cominciarono ad arrivare richieste: eventi, ritratti, piccole mostre. Nei ritagli di tempo vagava per la città a catturare volti, animali, angoli dimenticati.

Anton si irritava. Per lui era tempo perso. Peggio: i suoi conoscenti cominciavano ad apprezzarla.

— Talento? — sbuffava. — Oggi chiunque scatta col telefono.

I sentimenti si scolorirono. Entrò in scena un’altra donna: impeccabile, precisa, trucco perfetto, lusso sobrio, zero sorprese.

Lera scoprì del divorzio dalla notifica del tribunale. Anton non vedeva l’ora: l’avvocato aveva tessuto la rete, lei restava a mani vuote.

— Tre giorni e lasci casa — disse, freddo.

Lei annuì. Non pianse. Non si voltò.

Lui non ebbe tempo di pensarci: la nuova compagna lo trascinava tra vernissage e vetrine. Scarpe, abiti, cosmetici: serviva sempre “stare all’altezza”.

A volte, però, lo pungeva un’immagine: Lera che dipingeva in silenzio, controluce, alla finestra.

Adesso, a vederla al volante di quel SUV, la realtà non combaciava con i suoi conti. Come aveva fatto?

La curiosità lo guidò come una lenza. La seguì. Non verso il monolocale in cui credeva vivesse, ma fino a un quartiere di ville. Il cancello si aprì da solo. Un uomo in giacca elegante prese le chiavi e portò via il SUV; lei entrò.

Anton, sbigottito, varcò l’ingresso. Nella hall, Lera parlava con due giovani; quando lo videro, scivolarono via.

— Non pensavo di rivederti qui — disse lei avvicinandosi. — È invidia o semplice curiosità? Dai, ammettilo: credevi avessi imboscato del denaro, vero?

Sorrise, scrollando le spalle.

— Vieni. Ti faccio vedere.

Lo portò in una sala ampia. Arrivarono due bicchieri senza che nessuno chiedesse.

— Pensi che lavori qui? Sbagli. È casa mia. Quando hanno iniziato a pagarmi bene le foto, non ho perso il treno. Alcune opere si vendono a cifre che non immagineresti. Ho capito che oltre all’occhio avevo anche testa per gli affari.

Fece un gesto intorno.

— Qui lavoro con i migliori. Produciamo campagne, servizi, mostre, corsi. E sai? Ti devo pure un grazie: mi hai mostrato con precisione chi non voglio essere.

Anton restò muto, bruciato.

— Volevi ridurmi, togliermi l’anima. Io ho scelto la mia strada.

Si alzò.

— Per vecchi tempi non ti faccio pagare la visita. La porta la conosci.

Lo lasciò tra pareti punteggiate di sue foto firmate. Anton sentì la bile salire.

A casa lo attendeva un colpo di coda. La nuova compagna, valigia pronta.

— Anton, io vado — disse, netta. — Sei carino, sì. Ma non sei alla mia altezza. Addio.

Un bacio sulla guancia, una scia di profumo, la porta che si chiude.

— Andatevene tutti! — urlò lui, assestando un pugno al muro.

Non aveva mai assaggiato un’umiliazione così completa.

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