Il vecchio stava sistemando con mani tremanti la tomba del figlio quando il cane, senza alcun preavviso, si mise a graffiare la terra con una furia selvaggia. Scavava ostinato, ringhiando a bassa voce come se avesse scovato un segreto rimasto sepolto per anni. Quando dal terreno emerse ciò che non avrebbe mai dovuto riaffiorare, l’anziano impallidì: quella rivelazione non solo avrebbe mutato per sempre il ricordo del figlio, ma avrebbe anche stravolto la storia dell’intero villaggio.

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Fëdor Petrovič desiderava da tempo rivedere la tomba del figlio. La salute malferma l’aveva tenuto lontano per mesi, ma quella mattina si svegliò con un filo di energia in più. La vernice per la recinzione era già pronta, i pennelli ripuliti, gli attrezzi allineati sul tavolo. Dopo una colazione frugale si vestì con calma, deciso a portare a termine un dovere rimandato fin troppo.

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Due mesi prima aveva notato che l’inferriata attorno alla sepoltura di Saša stava cedendo: il cancelletto pendeva da un solo cardine, il ferro fioriva di ruggine. Dieci anni erano passati da quel giorno tremendo, e il tempo non fa sconti.

Saša, però, non era figlio loro di sangue. Lui e la moglie non avevano potuto avere bambini e, dopo vent’anni insieme, ebbero il coraggio di accogliere un orfano. Al collegio trovarono un bimbo di cinque anni, esile, acquattato in un angolo, lo sguardo basso e triste. Il cuore di Fëdor ebbe un sussulto.

— Perché sta sempre da solo? — domandò alla direttrice.
— Saša è “speciale”. La madre non voleva lasciarlo: lui urlava, la stringeva. Ma alla fine l’ha abbandonato. Da quel giorno non sorride più.

Non esitarono. Lo portarono a passeggio, sulle giostre, a prendere il gelato. Lui accettava senza protestare, ma lo sguardo rimaneva spento. Ci volle un anno perché crollasse quel muro: una sera si aggrappò alla giacca di Fëdor e, con voce quasi impercettibile, chiese:

— Non mi lascerete, vero?
— Mai. Te lo prometto.

Da allora fu davvero loro figlio. Cresceva diligente, rispettoso, studioso. Entrò all’accademia militare e diventò l’orgoglio del villaggio. In vacanza non cercava svago: aiutava in tutto, ovunque servisse. Tutti ammiravano il legame tra lui e i genitori adottivi.

Poi vennero il servizio, l’ansia, il congedo per motivi di salute. Infine la malattia, rapida e spietata. Saša se ne andò troppo presto, e poco dopo anche la madre lo seguì. A Fëdor rimase soltanto il cane, Bujan, fedele compagno ormai imbiancato.

Quella mattina il vecchio lo guardò e disse:
— È ora di andare da Sašen’ka.

Il cane scodinzolò, come se avesse capito. S’incamminarono lungo la strada polverosa verso il cimitero.

Lì accadde l’impensabile. Mentre Fëdor raccoglieva rami spezzati, Bujan cominciò a scavare furiosamente vicino alla recinzione. Ringhiava piano, poi riportò alla luce un lembo di cartone ancora umido di terra. Con le mani tremanti, Fëdor estrasse una scatola. Dentro, fra pochi stracci, c’era una neonata viva, con un respiro corto e faticoso, troppo debole persino per piangere.

— Dio mio… — sussurrò, stringendola al petto.

Corse da Olga Sergeevna, l’ex infermiera del paese. Lei prese la bambina, la scaldò, chiamò soccorsi. Arrivarono l’ambulanza e la polizia. In poche ore tutto il villaggio seppe del miracolo e del coraggio del vecchio.

Il giorno dopo bussò alla porta di Fëdor un uomo distinto, che si presentò come Herman: era il nonno della piccola. Posò sul tavolo una scatola di viveri e una busta gonfia. Con voce spezzata spiegò che la figlia era morta di parto e che il genero, sperando nell’eredità, aveva tentato di sbarazzarsi della neonata. Arrestato, non avrebbe più fatto del male a nessuno.

— Per me lei è l’ultimo legame con mia figlia — disse Herman. — Le sarò grato per sempre.

Grazie a quel denaro Fëdor poté non solo sistemare la recinzione, ma anche erigere un monumento degno al figlio e alla moglie. Ogni giorno tornava al cimitero con Bujan e parlava con loro come se fossero lì, a un passo.

Un pomeriggio limpido si sedette sulla panchina accanto alle tombe, guardò i marmi lucidi e, con un sorriso quieto, mormorò:
— Adesso è tutto a posto, miei cari. Posso finalmente riposare.

Quella sera Bujan rientrò da solo, guaendo piano come per spiegare l’inspiegabile. I vicini corsero al cimitero e trovarono Fëdor Petrovič addormentato per sempre, il volto sereno.

I funerali li organizzò Herman. Il cane, però, non lasciò mai il villaggio. Continuò a vegliare quelle tombe finché, due anni dopo, si sdraiò accanto al padrone e non si rialzò più. Lo seppellirono lì, fra chi aveva amato, chiudendo un cerchio di fedeltà e d’amore che nessuno dimenticò.

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