Ivan stava appoggiato al muro, proprio all’uscita della metropolitana, cercando riparo da quella pioggerellina insistente che cadeva da ore. L’autunno aveva svuotato il mondo dei suoi colori: il vento strideva tra i palazzi, staccava gocce dagli ombrelli e le scagliava addosso ai passanti, che correvano curvi, lasciando dietro di sé soltanto pozzanghere e fretta. Tutto intorno sembrava cenere.
Lì vicino, davanti al sottopassaggio, una donna sedeva su una cassa di legno inzaccherata. Indossava un cappotto logoro che un tempo doveva essere blu, ora ridotto a un grigio stanco. Ai piedi portava stivali di gomma spaiati, uno dei quali con la tomaia strappata. Nelle mani tremanti stringeva una vecchia fisarmonica, tenuta però lucida con cura. E a un tratto iniziò a cantare.
La sua voce, limpida e profonda, tagliò in due il brusio della città. Non era un semplice motivo, ma un richiamo: una ninna nanna russa. La stessa che la madre di Ivan gli sussurrava da bambino, seduta sul bordo del letto, accarezzandogli i capelli prima del sonno. Il cuore gli si strinse, il respiro si fece corto. Una ferita dimenticata dentro di lui tornava a pulsare.
Sua madre era sparita quarantacinque anni prima, quando lui aveva solo sei anni. «Vado a prendere il pane», aveva detto. Non tornò più. Denunce, ricerche, lacrime: tutto inutile. Col tempo il dolore si era coperto di polvere, senza però guarire mai. E adesso, quella voce sembrava riportare indietro l’impossibile.
Ivan si avvicinò piano, per non spezzare l’incanto. La donna cantava a occhi chiusi, immersa nella melodia. Il volto, scavato dalle rughe, aveva qualcosa di familiare. Quando aprì gli occhi e lo guardò, il mondo tacque.
«Mamma?» sussurrò Ivan, improvvisamente bambino.
La donna sobbalzò, l’accordo si spense. Una lacrima le rigò la guancia. «Vanečka?» disse piano, con un filo di voce.
Ivan cadde in ginocchio sull’asfalto bagnato e la strinse forte, come un tempo. Per un istante sparirono pioggia, rumori, passanti: esistevano solo loro, due vite sospese che si ritrovavano.
Lei tremava. «Non ricordo… Mi sono svegliata in ospedale con un nome che non era il mio. Dissero amnesia, un colpo alla testa. Poi l’istituto, poi la strada. Questa canzone era tutto ciò che mi restava.»
Ivan la guardò con occhi pieni di lacrime. «Vieni con me. Non sarai più sola.»
E così fece. La portò a casa, le diede un letto, cure, calore. Lei pianse, ma di sollievo. Credeva di essere morta per tutti, invece aveva ancora un figlio.
Col passare delle settimane, però, emersero crepe sottili. Qualche volta lo chiamava con un altro nome, raccontava luoghi che non esistevano. Finché un giorno, davanti a un vecchio album di fotografie, Ivan le chiese: «Ti riconosci in questa donna? È mia madre.»
La donna sorrise con dolcezza. «Non sono io, Vanečka.»
Il mondo gli crollò addosso. «Ma la ninna nanna…»
«L’ho imparata da un’altra. Una sconosciuta che piangeva mentre la cantava. Non volevo spezzare la tua speranza. Anch’io ero sola. Tu mi hai dato una casa.»
Ivan tacque a lungo, poi la strinse di nuovo. «Non sei mia madre di sangue. Ma lo sei diventata nel cuore. Resta.»
E lei restò. Non per destino, non per obbligo, ma per scelta. Perché non sempre è il sangue a fare famiglia: a volte basta una voce, una canzone e un incontro inatteso a ridare senso alla vita.