«Chi sta piangendo là fuori? Stepan, lo senti anche tu? In una notte così buia, sembra davvero il lamento di qualcuno!»
— «Sarà soltanto il vento che sibila tra gli alberi, Katyusha. Non possono esserci lacrime in una notte del genere…»
Non resistetti. Senza nemmeno afferrare la sciarpa corsi fuori, sul portico. La pioggia d’autunno mi colpiva il volto come aghi sottili, ma io continuavo a scrutare l’oscurità.
Poi, di nuovo quel suono. Non era vento: era un pianto, umano, flebile, spezzato.
Sull’ultimo gradino, avvolto in una sciarpa consunta, c’era un fagotto. Dentro, un bambino di circa tre anni, gli occhi grandi e fissi nel vuoto. Non fece un gesto quando gli sfiorai la guancia.
Stepan mi raggiunse in silenzio. Senza dire nulla raccolse il piccolo e lo portò dentro.
— «È un segno del cielo,» mormorò, posando il bollitore sul fuoco. «Resterà con noi.»
Il mattino seguente andammo all’ospedale del distretto. Il dottor Semyon Palych ci accolse con un sospiro pesante:
— «È cieco, quasi certamente dalla nascita. Non parla, ma reagisce ai suoni. Il futuro… è incerto. Ekaterina Sergeyevna, ci sono tanti bambini così negli orfanotrofi…»
— «No,» risposi piano ma con decisione. «Io non voglio saperne.»
Con l’aiuto di Nina, una lontana parente di mia madre che lavorava al consiglio del villaggio, sistemammo le carte come un’adozione. Gli demmo il nome di Ilya, in memoria del nonno di Stepan.
Quella sera tornammo a casa in tre: una vera famiglia.
— «E ora? Come ce la caveremo?» balbettò Stepan, stringendo il piccolo tra le braccia.
— «Impareremo lungo la strada,» risposi, pur senza esserne sicura.
Lasciai la scuola per occuparmi di lui. Non vedeva i pericoli: rischiava di cadere dal portico, di urtare la stufa. Ogni giorno era una sfida.
Stepan lavorava nei campi fino allo sfinimento, eppure ogni sera costruiva qualcosa per Ilya: corrimano lungo i muri, corde nel giardino perché potesse orientarsi.
— «Guarda, Katyusha, sorride,» disse un giorno, con gli occhi lucidi. «Sente le mie mani.»
— «Ti riconosce dal tocco,» sussurrai.
Il villaggio si divise: alcuni ci sostenevano con cibo e affetto, altri mormoravano alle nostre spalle:
— «Perché tenerlo? Sono giovani, possono avere figli sani.»
Mi faceva rabbia. Ma Stepan, più saggio, rispondeva:
— «Non comprendono. Anche noi non sapevamo nulla, prima di Ilyusha.»
Con l’inverno arrivarono le prime parole, timide ma chiare:
— «Ma-ma.»
Rimasi immobile con un cucchiaio in mano, le lacrime agli occhi. In quell’istante capii che non ero più soltanto moglie o insegnante: ero madre.
La sera, dopo averlo messo a letto, leggevo manuali e vecchi libri per capire come educare un bambino cieco. Gli facevo toccare gli oggetti, nominavo le superfici, ascoltavamo insieme i suoni del villaggio.
— «Non perdere la speranza,» mi incoraggiò Baba Dunya, porgendomi un secchio di latte. «I bambini ciechi hanno orecchie e mani più fini. Ti stupirà.»
— «Non l’ho persa,» risposi. «Non so come fare, ma lo amiamo. Questo basta.»
— «Ed è tutto ciò che serve,» concluse lei. «L’amore guarisce.»
Con la primavera Ilya camminava dietro di me, aggrappato al mio grembiule, riconosceva Stepan dal rumore dei passi e rideva con i bambini del vicinato.
— «Vedi, Katyusha,» mi sussurrò Stepan abbracciandomi, «non siamo stati noi a trovarlo. È lui che ha trovato noi.»
[…]
Il mio mondo non è oscurità, come credono gli altri. È un mosaico di suoni, odori, tocchi.
Ricordo il calore delle mani di mia madre, il mormorio di un ruscello, la ruvidità delle dita di mio padre.
Non ho mai visto la luce, ma ho imparato a guardare con le mani, con le orecchie, con il cuore. La mia vita è una sinfonia di sensazioni.
Ho imparato l’alfabeto a memoria, ho inventato storie dal fruscio della pioggia o dal cigolio di una porta.
Quando tentarono di portarmi via, capii che la cecità espone anche al pericolo. Ma avevo chi vegliava su di me.
Mio padre costruì una stanza speciale, mia madre mi insegnò a esplorare il mondo.
Ora condivido le mie storie con gli altri e aiuto chi, come me, non vede.
Ho una famiglia, una casa colma d’amore, un universo che per me ha più colori di quello di molti vedenti.
E se qualcuno mi chiede se vorrei poter guardare come gli altri, rispondo sempre:
«Chi ha detto che io vedo meno?»