«Allontanata dalla festa di compleanno per via del suo vestito consumato, poco dopo fu proprio lei la persona davanti alla quale tutti avrebbero voluto inchinarsi.»

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Marina stava per compiere quindici anni e nel suo armadio c’era un solo vestito: un grigio-lilla ormai sbiadito, appartenuto anni prima alla zia Valja di Jaroslavl’. Il tessuto era liso, il colletto spiegazzato, ma sua madre ci aveva messo amore: aveva ricucito l’orlo, stirato con cura le pieghe e, accarezzandole la guancia, l’aveva rassicurata:

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— Fidati, andrà bene.

E in effetti l’abito resse. Ma fuori l’inverno di febbraio era crudele, e al liceo n.18 dettavano legge ben altre regole: da Zara in su, con sneakers fluorescenti considerate il simbolo del momento. Marina, stretta nel suo soprabito logoro, camminava verso la fermata dell’autobus cercando solo di arrivare a destinazione senza inciampare nelle buche e, soprattutto, senza cedere alle lacrime.

La festa di compleanno di Roma Kochetov era l’evento di cui tutti parlavano: sala “Hawaii”, videoproiettore, PlayStation, tavoli pieni di cibo. Nella chat di classe rimbalzava l’invito: “Vestitevi colorati, così risalta meglio”. Marina sospirò, sistemando alla meglio il cerotto che teneva insieme il suo tacco rovinato, e andò avanti.

Appena entrata, fu accolta dall’aroma di candele profumate e da un vago sentore dolciastro. Ai ganci, piumini griffati uno accanto all’altro. Marina tolse il soprabito, lisciò il colletto del vestito e fece un passo nella sala.

— Guardate un po’, la regina del vintage! — rise con malizia Vika Levandovskaja, mentre i suoi occhi la scrutavano dall’alto in basso.

Roma, in imbarazzo, reggeva un vassoio che quasi gli scivolava di mano. — C-ciao… entra pure, — balbettò.

Vika, senza perdersi d’animo, estrasse il telefono e scattò un paio di foto. — Ragazze, ecco un vestito d’altri tempi! —

Il volto di Marina si incendiò di vergogna. Avrebbe voluto scomparire.

— Non dovevi… — mormorò.

— E che farai? — ribatté Vika, tirando il tessuto. — Ti credi davvero originale?

In quel momento dentro Marina qualcosa si spezzò. Non rispose. Si girò e, tra le risate che le colpivano la schiena, uscì.

Fuori, la neve turbinava furiosa. Le dita cominciavano a intorpidirsi, il vestito le sbatteva contro le gambe come se volesse confortarla.

Poco più in là, un vecchio edificio in mattoni rossi — un tempo tipografia, ora rifugio di artisti — fumava da una finestra al secondo piano. Marina si fermò: il fumo diventava più denso, ma intorno non c’era nessuno. Solo il cigolio di un lampione.

Senza pensarci, corse alla porta. — Ehi! C’è qualcuno? — gridò. Nessuna risposta. Entrò. L’aria sapeva di plastica bruciata e vernice. Dal quadro elettrico partivano scintille. Marina non esitò: si tolse il soprabito e lo gettò sopra il fuoco, premendo con forza.

Due ragazzi scesero trafelati dalle scale. — Che succede?!

— Incendio! Chiamate i pompieri! — urlò.

Dall’alto una voce gridò: — Le bombole di gas sono in magazzino!

Marina, con il volto coperto dal cappotto, trascinò via i contenitori mentre altri spalancavano le finestre. Dopo pochi minuti arrivarono i vigili del fuoco. L’edificio era salvo.

— Chi ha dato l’allarme? — chiese il tenente.

— Lei, — indicarono i presenti. — Senza di lei sarebbe tutto distrutto.

Marina, annerita dalla fuliggine, tremava di stanchezza. “Un ottimo intervento”, disse uno dei pompieri scuotendo la testa.

Quella notte tornò a casa a piedi. Sua madre la accolse preoccupata, le lavò le mani sporche, le avvolse le spalle in un vecchio accappatoio. — Dormi, mia piccola eroina.

Il mattino dopo il telefono non smise di squillare. Messaggi, scuse, ammirazione. Un link mostrava una foto sul giornale locale: “Una ragazza salva studio artistico dall’esplosione”. In primo piano, Marina, con il vestito deriso la sera prima.

Verso mezzogiorno Vika si presentò a casa sua, imbarazzata, con un pacco in mano. Dentro c’era un abito celeste, nuovo, semplice. — Non è un regalo, è un debito. Ti chiedo scusa.

Marina lo prese tra le mani: era come se avesse due vite cucite insieme, quella bruciata e quella nuova.

Quella sera mise accanto i due abiti: il vecchio grigio-lilla, simbolo di ciò che era stata, e quello celeste, promessa di ciò che avrebbe potuto diventare. Decise che non si sarebbe mai più vergognata di sé.

Il giorno dopo, a scuola, il silenzio rispettoso sostituì le risate. Roma, arrossendo, le offrì una scatola di biscotti.

— Abbiamo rimandato la festa. Senza di te non aveva senso.

Marina sorrise. — Stavolta ci sarò. E ho anche più di un vestito.

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