Un flebile pianto di un bambino ruppe il silenzio ovattato della foresta. Anja si fermò di colpo, tendendo l’orecchio con il cuore che le batteva forte nel petto.
«Forse ho immaginato,» mormorò sottovoce, ma subito quel suono tornò, più nitido e insistente.
Il cesto che portava per raccogliere erbe, già mezzo pieno di menta e iperico, sembrò farsi più pesante tra le sue mani. L’aria era calda e impregnata del profumo estivo, tra aghi di pino riscaldati dal sole e fragoline selvatiche. Anja avanzò con cautela verso la fonte del pianto, facendo scorrere via le alte gramigne.
«C’è qualcuno?» chiese con voce incerta, tremando leggermente.
Il pianto si fece più distinto. Accelerò il passo, inciampando nelle radici contorte. Il suo vestito chiaro si impigliava tra i rovi, la treccia ormai disfatta cadeva sulle spalle, ma a lei non importava.
Il bosco si aprì su una piccola radura baciata dal sole. Sotto un vecchio rovere, nascosti tra le grandi foglie di bardana, c’erano due bambini seduti.
Il maschietto, dal volto pallido e i capelli appiccicati alla fronte sudata, teneva stretta la sorellina più piccola — una bambina con i capelli rossicci, vestita con un abitino sporco.
«Oh cielo,» esclamò Anja, lasciando cadere il cesto a terra.
Sentendo i suoi passi, il bambino sollevò lo sguardo, gli occhi pieni di paura. Abbracciò ancora più forte la sorella e si fece indietro di un passo.
«Non abbiate timore,» disse lei, avvicinandosi lentamente e inginocchiandosi davanti a loro. «Non voglio farvi del male.»
La bambina singhiozzava e si rifugiava nella spalla del fratello, le manine tremavano visibilmente.
«Da dove venite? Dove sono i vostri genitori?» domandò Anja dolcemente.
Il bimbo rimase in silenzio, guardandosi attorno con diffidenza. Anja notò che i loro vestiti erano strappati e sporchi di terra secca.
«Io mi chiamo Anja. E voi?» provò a rompere il ghiaccio.
Il bambino si leccò le labbra screpolate e, quasi bisbigliando, disse: «Sasša.»
«E tua sorella?»
«Maša.»
Anja scrutò la radura intorno a loro, ma non vide nessun adulto. Solo il ronzio degli insetti e formiche laboriose che trasportavano piccoli rami verso un’enorme formicaia.
«Avete fame?» chiese, intuendo che i piccoli dovevano essere rimasti lì per molto tempo.
Sasša annuì esitante.
«Volete tornare a casa?»
«Non abbiamo una casa,» rispose con voce bassa.
Un dolore le trafisse il petto. Anja si morse il labbro per non lasciar scappare le lacrime.
«Conosco un posto dove potrete mangiare e riposare. Venite con me?»
Per la prima volta, Maša alzò gli occhi verso di lei, e nei suoi verdi occhi brillò una speranza timida.
«Là è pericoloso?» chiese Sasša.
«Per niente,» sorrise Anja. «Ci sono meli nel giardino e latte fresco. Nessuno vi farà del male.»
Allungò la mano; dopo un attimo di esitazione, il bambino gliela strinse. La sua manina era piccola e calda.
Il cammino di ritorno fu più lungo del previsto. Anja portava in braccio Maša, leggera come una piuma, mentre Sasša camminava accanto, aggrappato all’orlo del suo vestito, inciampando dalla stanchezza ma senza chiedere aiuto.
Quando arrivarono al villaggio, il sole stava già tramontando. Incontrarono Ivan Timofeevič, il vicino dall’altra parte della strada, un uomo burbero ma dal cuore gentile.
«E chi sono questi?» chiese vedendo i bambini.
«Li ho trovati nel bosco,» rispose Anja. «Erano affamati e spaventati.»
Ivan Timofeevič si grattò la barba grigia.
«E i genitori?»
«Non lo so. Dicono di non avere una casa.»
L’uomo guardò i piccoli in silenzio.
«È chiaro, Anjutka. Vedo tuo padre in te.»
«Cosa facciamo, zio Vanja?» chiese lei incerta.
«Prima di tutto, dategli da mangiare e lavateli. Poi penseremo al resto.»
Porse la sua mano rugosa a Sasša:
«Allora, campione, vuoi arrivare a piedi o ti porto in braccio?»
Dopo un attimo, il bambino posò la mano nella sua.
La casa li accolse nell’oscurità e nell’abbandono. Anja accese in fretta la luce e li fece sedere a tavola. In cucina c’era solo una pagnotta vecchia e un po’ di latte: l’ultimo fino alla paga di domani.
«Mangiate,» disse tagliando il pane in fette sottili.
I bambini mangiarono lentamente, come se avessero paura di finire il cibo. Maša guardava ancora intorno con timore, mentre Sasša osservava ogni gesto di Anja.
«Domani faremo le frittelle,» promise accarezzandole i capelli aggrovigliati.
Dopo il pasto, Anja riscaldò l’acqua e li lavò in una vecchia tinozza. Non aveva vestiti adatti per bambini, così li avvolse nelle sue magliette.
Sasša, in una maglietta bianca lunga quasi fino alle ginocchia, aveva un’aria buffa; Maša era stretta in una morbida camicia da notte.
Li mise a dormire nel suo letto, poi si sedette accanto a loro. Fuori il cielo si faceva scuro e il canto dei grilli si diffondeva nell’aria calda della sera.
«Resteremo qui per sempre?» chiese Sasša assonnato.
Anja gli accarezzò i capelli.
«Se lo volete.»
«E non ci cacceranno?»
«Nessuno vi caccerà. Questa è la vostra casa ora.»
Maša, ormai addormentata, dormiva stretta a Sasša, che combatteva contro il sonno ma alla fine cedette.
«Dormi, piccolo,» sussurrò Anja. «Io resterò qui con voi.»
Quando i bambini si addormentarono, uscì silenziosa sulla veranda e scoppiò a piangere. Per la paura, per l’incertezza, per il peso improvviso della responsabilità.
Eppure dentro di lei sbocciava una nuova, strana felicità.