Il proprietario del ristorante, mettendo mano per sbaglio al portafoglio della giovane lavapiatti, pescò una fotografia logora… e in un istante il viso gli si fece di gesso.
Sin da bambina, Lida aveva avuto la certezza che la sua strada non assomigliasse a quella di nessun altro. Un episodio terribile, sepolto nel passato, le aveva inciso addosso un marchio che non sbiadiva: il fuoco. Da piccola era scampata a un incendio che le aveva sfigurato il volto e rubato a sua madre ogni possibilità di pace. Da allora ogni giorno era stata una salita. Il destino non aveva avuto pietà; eppure Lida, pur ferita e terrorizzata dallo sguardo degli altri, aveva continuato a voler vivere.
Il suo aspetto era diventato insieme condanna e scudo. Sapeva che pochi sanno guardare oltre la pelle, e così si era convinta che l’amore non l’avrebbe mai toccata. Ironia crudele: il suo corpo stava bene, avrebbe potuto dare la vita; a volte le pareva un dispetto del cielo. Più di una volta aveva pensato che avrebbe barattato quel dono con l’assenza di cicatrici. Sua madre, però, aveva speso ogni briciolo di sé per lei.
«Non aver paura, Lidočka, andrà tutto bene» mormorava, lisciandole i capelli. «Troveremo un chirurgo. Tornerai bella, te lo prometto.»
Non era una promessa vuota. Ci credeva davvero. Medico di professione, lavorava senza sosta, accantonava monete e rinunciava al necessario. Non si lamentava, non piangeva. Visitava i pazienti anche quando le mancava il fiato: voleva quel miracolo per sua figlia.
«Mamma, ti prego, basta» la scongiurava Lida. «Ti stai spegnendo. Io me la caverò. Forse è perfino meglio così: uomini come papà non mi capiteranno più.» Quel padre che le aveva voltato le spalle nel momento peggiore.
La madre non accettava l’idea del rancore. Conservava l’immagine del ragazzo di un tempo: attento, innamorato. Dopo l’incidente era sparito, senza un biglietto, come inghiottito dalla terra.
«Non parlare così, Lida» la correggeva con dolcezza. «Non sappiamo cosa gli sia accaduto. Era un uomo buono. Io lo amo ancora, e non ho mai rimpianto di averti messa al mondo.»
Sul comodino teneva una fotografia: una ragazza dai lunghi capelli intrecciati e grandi occhi grigi, accanto a un giovane magro dai capelli scuri. Era lui, il padre che Lida aveva imparato a detestare in silenzio.
«Lo so, mamma: dirai che in quella foto ci sono anch’io, invisibile nel tuo grembo. Che lui mi aspettava con gioia…» pensava Lida, e quel pensiero la feriva più del bruciore delle cicatrici. Sapere che non aveva avuto la forza di restare.
La speranza, però, la madre non l’aveva mai posata. Il tempo, invece, non fu gentile. La fibrosi polmonare, conseguenza delle ustioni, avanzò senza rumore. Non lo confessò mai a Lida.
Quando la madre morì, Lida trovò la verità raccolta in un diario consunto, pieno di paure, preghiere e segreti. Una frase la trafisse:
«Lida crede che Vitya ci abbia abbandonate. Mi lacera. Forse c’era un altro motivo. Aveva un figlio, Artemka, nel villaggio vicino. Forse ha ricominciato altrove. Non posso dirglielo: ogni bambina deve credere di essere stata amata. E lui ci amava.»
Quel quaderno fu l’ultimo dono di sua madre. Lida capì che donna straordinaria fosse stata: ogni giorno un atto di resistenza, ogni silenzio un gesto d’amore. Aveva retto finché Lida non fosse diventata grande.
Dopo il funerale comparve zia Ženja, l’amica di sempre, e le porse il diario. «Tua madre voleva proteggerti. Ma certe verità, alla fine, liberano. Ricorda: su di me potrai contare.»
Ženja provò a riempire il vuoto, ma nessuno può rimpiazzare una madre. Lida visse a lungo come stordita, divorata dal rimorso di non aver capito in tempo la gravità della situazione.
«È colpa mia» singhiozzava tra le braccia della zia. «Lavorava per me. Avrei tenuto questo volto per sempre, se solo fosse rimasta.»
«Sciocchezze» la calmava la zia. «Tua madre diceva che senza di te non avrebbe avuto la forza di andare avanti. Quando avrai dei figli, capirai.»
Col passare dei mesi, Lida prese della madre la dolcezza e quella forza quieta. Restava, però, sola. Custodiva la fotografia come unico filo col passato. A volte la fissava e si chiedeva: «E se, da qualche parte, stessero ancora insieme?»
Lavorava come lavapiatti in un ristorante. Il personale la compativa, certi clienti la deridevano. «In sala non può stare, spaventerebbe la clientela» sussurravano. C’erano giorni in cui reagiva, altri in cui ingoiava. Nelle pause parlava con la foto, immaginando che sua madre l’ascoltasse.
Erano passati due anni dalla sua morte, ma il dolore non scoloriva. Di notte Lida si svegliava in lacrime, certa di aver udito i passi della madre; poi il silenzio le ricordava la verità.
Fra i colleghi, quello che sopportava meno era Artem Viktorovič: giovane, benestante, arrogante. Aveva ereditato il locale dopo un periodo all’estero e rovesciava addosso ai dipendenti le sue frustrazioni. «Siete tutti ladri e incapaci!» abbaiava. Non conosceva nemmeno i loro nomi; pretendeva e basta. In realtà, il ristorante si reggeva su Irina Vladimirovna, minuta, gentile, la vera anima della casa. Inga, la madre di Artem, lo sapeva, ma non interveniva.
Una mattina, Marina — lavapiatti anche lei, due figli a casa — sussurrò: «Artem è convinto che manchino soldi. Vuole perquisirci. Tieni pronta la borsa.»
«Un’altra umiliazione» sospirò Lida.
Artem controllò prima Marina, poi Lida. Ma quando aprì il suo portafoglio e vide la fotografia, restò di pietra. «Chi c’è in questa foto?» chiese, con una voce che Lida non gli aveva mai sentito.
«I miei genitori» rispose fredda. «E non hanno rubato niente.»
Artem richiuse il portafoglio di scatto. «Basta così. Non manca nulla.» E si allontanò di corsa.
Quella sera, rientrando a casa, Lida sentì qualcuno bisbigliare nel corridoio: «Lidočka, c’è il tuo principe!» Alzò gli occhi, credendo a uno scherzo. Davanti alla porta, pallido, c’era Artem.
«Lidia, posso parlarti? Devo chiederti scusa…» Le pareti del suo appartamento, con le crepe che raccontavano la vita di sua madre, sembravano ascoltare.
«Quella foto…» iniziò lui. «L’uomo accanto a tua madre… è identico al mio. A me hanno sempre detto che è morto in un incidente. Io… non capisco.»
Il mondo di Lida vacillò. Inga Timofeevna, gran signora, intrecciata con la sua storia? «Sarà una somiglianza» provò a dirsi. Ma parlarono a lungo. Artem confessò di essere stato lui a prendere il denaro e di aver accusato gli altri per vergogna. «Nessuno ti contraddiceva perché ti temeva» osservò Lida. «Sono stato uno sciocco» ammise lui.
Quella sera cambiò il corso delle cose. Andarono da Irina Vladimirovna, che li accolse come se aspettasse da anni quel momento. «È ora che sappiate» disse soltanto.
Irina raccontò che, molti anni prima, aveva avuto un figlio da Viktor, il padre di Lida. Dopo il parto, la moglie di Viktor — Inga — aveva perso il suo bambino. Qualcuno aveva orchestrato uno scambio inconfessabile: i neonati erano stati invertiti. Artem era cresciuto nella famiglia ricca, ignaro delle sue origini. «Avevo paura di distruggere una casa» spiegò Irina. «Poi Viktor è morto facendo da scudo a me e a Lida. Mio marito, accecato dalla gelosia, aveva appiccato l’incendio. Nessuno seppe mai la verità.»
Artem capì: la donna che lo aveva cresciuto era, in realtà, sua zia; Irina era la madre biologica. «Non dire nulla a Inga» la pregò Irina. «Ti ama davvero. Lasciale la sua felicità.» Artem promise. E decise di cambiare.
Sei mesi dopo, Irina divenne direttrice del ristorante. Artem, che da ragazzo smontava e rimontava qualsiasi cosa, aprì una bottega di restauro di auto d’epoca: il talento di suo padre, trasmesso per vie misteriose, gli scorreva nelle mani.
Anche la vita di Lida prese un’altra piega. Artem finanziò un intervento in una clinica specializzata. Quando uscì dalla sala operatoria, lo specchio restituiva un volto nuovo. Era la bellezza che sua madre aveva sognato per lei.
«E adesso che sei stupenda, perché dovrei starti ancora vicino?» scherzò Vova, il guardiano timido che la amava da sempre. «Perché mi volevi già prima, quando non piacevo a nessuno» ridacchiò lei, stringendolo forte.
Poco dopo scoprirono che Lida era incinta. Solo Vova lo sapeva; ogni sera posava una mano sul suo ventre e parlava a bassa voce al bambino. Un giorno, vedendo un fotografo con una coppia di sposi, Lida sussurrò: «Facciamoci ritrarre anche noi.» Quell’immagine divenne un talismano: un giorno l’avrebbe mostrata alla figlia dicendo «Eccoli i tuoi genitori, innamorati e sereni.»
Marina, che sognava da sempre i fornelli, grazie all’aiuto di Artem seguì un corso di cucina e cambiò mestiere.
Quando nacque la bambina, ogni sera Lida le raccontava dei nonni che la guardavano dall’alto. La piccola rideva come se capisse davvero. Una notte Lida sognò i suoi genitori, mano nella mano. Li abbracciò: «Perdonatemi per aver dubitato.» Si svegliò in lacrime.
«È stato un bel sogno» la rassicurò Vova. «Chi amiamo ci sente, anche da lontano.»
E così, tra le braccia dell’uomo che l’aveva vista oltre le apparenze, Lida contemplò la loro bambina addormentata. Una famiglia ferita trovava finalmente pace, e davanti a loro si apriva un futuro pieno di luce.