Vera stava in veranda con le gambe distese, piacevolmente indolenzite. In giardino aveva dato tutto: aveva rivoltato le aiuole, bagnato i filari, legato i pomodori ai tutori. Quel torpore felice le scorreva addosso come sole di luglio.
Da sotto la pezza annodata sul capo sfuggivano ciocche castane; le guance, pizzicate dall’aria fresca, s’erano fatte rosate. Chiuse gli occhi e respirò l’odore umido di terra e di erbe, assaporando il silenzio.
— Vera! — la chiamò una voce familiare.
Spalancò un occhio. Alla cancellata c’era Nadežda, la postina che conoscevano tutti.
Vera si alzò piano, sentendo tirare i muscoli. Raggiunse la rete.
— Che c’è, Nadjuš? Buone notizie?
— Niente anticipi — ghignò la donna. — C’è una raccomandata. Dalla capitale.
— Dalla capitale? Ma lì non conosco nessuno — si stupì.
— Firma qui e poi vedrai.
La curiosità vinse sulla stanchezza. Chi mai si ricordava di lei, laggiù, tra campi e orti?
Vera viveva sola. Il marito era morto cinque anni prima — il cancro non perdona — e figli non ne erano arrivati. Dopo la morte dei genitori aveva ereditato la vecchia casa di campagna; l’appartamento in città l’aveva venduto senza ripensamenti: solo tra fiori e quiete sentiva di respirare.
Sulla busta, un cognome estraneo e un indirizzo cittadino: una città che sembrava essersi dimenticata di lei.
«Sarà uno sbaglio», pensò, firmò la ricevuta e rientrò.
— Veruň, chi ti scrive? — chiese la postina allontanandosi.
— Ancora non lo so! — rispose Vera, aprendo la porta.
«Che bello rientrare», si disse, entrando in cucina.
— Allora, Jaša? Qui dentro si sta meglio che fuori, eh? — disse al gatto, disteso sul pavimento.
Lui alzò appena il muso, miagolò piano e tornò a dormire.
— E senza condizionatore — sorrise, sedendosi.
Senza esitare troppo, tagliò la busta e tirò fuori il foglio. La grafia minuta e serrata pareva un indovinello, ma pian piano riuscì a leggerla.
«Cara Vera,
sono Margherita. Ci siamo incontrate appena tre volte; l’ultima al funerale di mio cugino — tuo marito. Non parlammo quasi: me ne andai presto. Eppure il destino ha deciso di farci incrociare di nuovo. Non ho altri a cui rivolgermi.
Sono invalida dalla nascita: la gamba non mi regge più. Ora i medici mi hanno ricoverata; mi preparano a un’operazione, temono un tumore. Prima mi bastava il bastone, adesso solo la sedia a rotelle.
So che hai la tua vita, e comunque ti scrivo. Ho un appartamento in centro e una villa. Non voglio che finiscano in mani sbagliate. Vorrei lasciare tutto a te — se accetterai di occuparti di me finché servirà. Ti mando una raccomandata per sicurezza. Se puoi, vieni. Ti aspetto.»
C’erano l’indirizzo dell’ospedale e il numero del reparto.
— Curioso — mormorò Vera.
Un pensiero rapido, quasi vergognoso, le attraversò la mente: «Un’eredità… e quando toccherebbe a me?». Guardò il gatto.
— Possibile che non abbia nessun altro? — chiese a Jaša, che russava piano. — E io dovrei lasciare questa casa? Con te, s’intende. Non ti mollo.
Poi un’altra idea: «Forse potrei portarla qui. O almeno capire. Sarebbe un peccato sprecare del bene…».
La questione le frullò in testa per ore. Accese il portatile, controllò gli orari: cinque ore di treno fino alla capitale. Passò la notte a fare bilanci, pro e contro. All’alba si preparò: riempì la ciotola, lasciò scorte al gatto, mise due cambi in una valigia piccola e si avviò all’autostazione.
In ospedale, odore di detergenti e farmaci. Trovò subito il reparto. Nel letto, una donna dal viso scavato e le mani inerti fissava il vuoto. Margherita appariva sfinita.
— Grazie per essere venuta — sussurrò, con un sorriso stanco. — Temevo non arrivasse nessuno.
— Nella lettera non ti ho detto tutto — proseguì, indicando una sedia. — Se sei qui, preferisco parlarti chiaro.
— Calma, riposa — la frenò Vera. — Ho mangiato in viaggio, non mi manca nulla.
Margherita inspirò a fondo.
— Devo confessare una cosa. Come prima dell’ultimo giorno. Ho un peso addosso da anni.
Vera restò in silenzio. Quella fragilità le strinse il cuore.
— Non mi sono mai perdonata — bisbigliò. — Il ricordo mi rode.
Si fermò un istante, per non piangere.
— Dieci anni fa, a quarant’anni, sono rimasta incinta. L’uomo è sparito appena lo seppe. Io… ero felice lo stesso: finalmente un motivo per vivere. Ma la gravidanza fu durissima. La gamba peggiorava, i medici dicevano che dopo il parto avrei dovuto operarmi. Ero sola: i miei erano morti quando avevo quindici anni.
Dopo il cesareo camminavo con le stampelle. Un neonato era oltre le mie forze. Mi consigliarono l’istituto. Lo portai in orfanotrofio. Quando potevo andavo in taxi, lo guardavo da una finestra o lo tenevo dieci minuti in braccio. Le infermiere, mosse a pietà, chiudevano un occhio.
Poi l’operazione, una riabilitazione senza fine. Piangevo e non avevo nessuno. Un’infermiera, vedendo la mia rovina, mi disse che il piccolo era stato adottato. «Sei malata, sei sola», ripetevano. L’ho lasciato andare. Qualche volta passavo vicino alla sua nuova casa e lo spiavo da lontano… e ricominciavo a piangere. È stata la mia ferita segreta. Ora ho un cancro al quarto stadio. Metastasi.
Le parole caddero pesanti. Vera rimase immobile per non perderne una.
— Sapevi che io e Sergej non abbiamo avuto figli — disse piano. — Avremmo potuto crescerlo noi. Lo avremmo amato.
— Mi vergognavo, Vera — mormorò Margherita. — Ho vissuto nascosta, prigioniera della paura. Ti prego: voglio lasciare a te i miei beni. Quando mio figlio farà diciott’anni, gli darai tutto. Gli scriverò una lettera; la consegnerai tu. Che possa studiare e sappia che sua madre lo ha amato fino alla fine. Ti detterò l’indirizzo. Scegli parole buone: non ferirlo.
— Non agitarti — la rassicurò Vera. — L’appartamento sarà suo. A me il denaro non serve. E magari ti riprendi. Non ti seppelliamo prima del tempo, va bene?
Il giorno dopo Margherita firmò il testamento e scrisse la lettera al figlio. Voleva che la villa restasse a Vera. Una settimana più tardi se ne andò in silenzio, com’era vissuta: col suo dolore addosso.
Vera organizzò un funerale dignitoso. Portava in sé un peso muto: a ogni pensiero sull’eredità le saliva il nodo alla gola. Vendette la villa, tenne l’appartamento a reddito e accantonò tutto per il ragazzo. Anno dopo anno la somma crebbe, abbastanza per un avvio sereno.
La vita di Vera, intanto, cambiò poco. Continuò a vivere in campagna, affezionata alla casa con ostinazione quieta. Non si risposò: rimase fedele al marito.
Quando arrivò il momento di mantenere la promessa, partì per la città. Prima incontrò la famiglia adottiva del giovane. Raccontò ogni cosa: la storia di Margherita, la scelta dolorosa, il testamento. Spiegò che l’appartamento ora era suo.
Ascoltarono stupiti e commossi; proprio allora pensavano di cambiare casa.
— Saremo noi a parlargli, quando sarà il momento — promise la madre adottiva. — E la lettera lo aspetterà finché sarà pronto.
Vera consegnò il denaro: bastava per gli studi e per i primi passi nell’età adulta.
Poi andò al cimitero. Posò fiori freschi sulla tomba di Margherita e rimase lì, in silenzio.
— Ho fatto ciò che mi hai chiesto — sussurrò. — Riposa. Tuo figlio è amato, cresce nel calore di una famiglia. Puoi stare serena.
Si fece il segno della croce, si voltò e se ne andò. Per la prima volta dopo molto tempo sentì il cuore alleggerirsi. Come se quella promessa mantenuta avesse rimesso a posto qualcosa non solo nella vita degli altri, ma anche dentro di lei.