Il clima era finalmente dalla sua parte: caldo, limpido, con quel sole che invita a rimettere ordine anche nei pensieri. Sima decise di approfittarne per far prendere aria ai suoi “cuscini” e alla sua “coperta”. I cuscini, in realtà, erano semplici sacchetti di carta imbottiti di segatura; la coperta, invece, un vecchio arazzo da parete con un cervo intrecciato nel disegno, scolorito ma ancora fiero. Lo stese con attenzione su una corda legata tra due alberi e, poco distante, sistemò una panca di legno rivestita di finta pelle rossa. Sopra vi allineò i suoi cuscini artigianali, come fossero un piccolo salotto all’aperto.
Serafima viveva per strada da più di un anno. Il suo chiodo fisso era raccogliere abbastanza denaro per rifare i documenti smarriti e tornare “a casa”, in una delle repubbliche del sud: un luogo dove esistevano ancora la famiglia, i ricordi e l’idea di una vita normale. Nel frattempo, era costretta a rifugiarsi in una vecchia baracca di guardaboschi abbandonata, che un tempo stava in mezzo a una foresta fitta. La foresta, però, non c’era più: al suo posto si spalancava una discarica enorme. All’inizio l’odore era appena un velo, poi diventò una presenza costante. I mucchi di rifiuti crescevano a vista d’occhio, non di giorno in giorno, ma quasi di ora in ora: macerie, mobili spaccati, vestiti scartati, pentole, piatti. E, tra quelle cose buttate come inutili, Sima aveva recuperato un armadietto, un pouf sfondato e persino una cassapanca piena di abiti ancora indossabili.
Con il tempo cominciarono ad arrivare furgoni dei supermercati: scaricavano casse di prodotti scaduti. Dopo una selezione scrupolosa, a volte saltavano fuori verdure e frutta ancora dignitose, perfino surgelati che, con un po’ di fortuna, si potevano mangiare. L’acqua, però, era un tormento: la prendeva da un ruscello sporco e la filtrava con stracci e carbone raccolto lì vicino. La legna, invece, non mancava: tronchi spezzati e assi buttate ovunque, abbastanza per tenere in vita la stufa. Le giornate si spegnevano tutte uguali e mettere via anche solo qualche monetina era raro. Qualche spicciolo nelle tasche dei vestiti capitava di rado; trovare un portafoglio, invece, era come vincere alla lotteria.
Una notte fu svegliata dal rumore di un’auto che si avvicinava. Non era un evento insolito: molti venivano a scaricare la spazzatura al buio, per non farsi vedere. Ma quella volta… c’era qualcosa di diverso. L’auto era grande, costosa, quasi un SUV. Alla luna piena sembrava una bestia lucida, pronta a divorare strada.
Un uomo scese lentamente, aprì il bagagliaio e ne tirò fuori un rotolo enorme. Lo trascinò più in profondità, tra i cumuli.
«Carta catramata? Magari ci riparo il tetto… presto iniziano le piogge», pensò Sima, e per un istante si ritrovò perfino a fare il tifo per lo sconosciuto: “Su, lascia e sparisci… in fretta”.
L’uomo depositò il rotolo in una conca tra i rifiuti, si guardò intorno come se stesse decidendo il da farsi, poi fece un gesto secco con la mano e tornò alla macchina. Due minuti dopo, il motore ruggì e l’auto si inghiottì nel buio.
«Finalmente», sospirò Sima. Si cambiò in fretta, infilò gli stivali di gomma enormi e uscì. Il cielo iniziava a schiarire, e nell’aria c’era ancora un odore leggero di bosco, come un ricordo che non voleva morire. Le tornò in mente una radura oltre la collinetta dove, a volte, spuntavano funghi: al mattino avrebbe controllato.
Quando si avvicinò al punto dove l’uomo aveva lasciato il rotolo, si aspettava di trovare teli spessi o materiale da copertura. Invece, per terra c’era un tappeto arrotolato con cura. Non uno qualunque: un pezzo pesante, elegante, di quelli che un tempo finivano nelle case dei ricchi.
«Accidenti… stile Bukhara, credo. Bello, robusto. Peccato: sul tetto non serve a niente», mormorò, delusa. Poi, quasi subito, le venne un’idea che le scaldò il petto: «Però… piegato in due sarebbe meglio di quei sacchi di segatura. Un materasso vero, almeno per finta.»
Si precipitò verso il rotolo. Provò a sollevarlo: troppo pesante. Allora afferrò il bordo e iniziò a srotolarlo con cautela. E in quell’istante lo sentì.
Un gemito.
Non dall’aria, non da lontano. Da dentro.
Sima, che in un anno di strada aveva visto scene capaci di togliere il sonno a chiunque, tremò come non le era mai successo. Le ginocchia le cedettero per un secondo. Si avvicinò, la voce strozzata:
«Chi c’è lì dentro?»
Silenzio. Poi, ancora, un lamento. E una voce femminile, sottilissima, quasi cancellata:
«…Sono io… Marija Filippovna…»
Con uno strappo, Sima tirò più forte. Il tappeto si aprì di colpo e una donnina minuta rotolò fuori, provando a girarsi, gemendo dal dolore.
«Resista! Le do una mano!» gridò Sima, gettandosi accanto a lei.
Quando il tappeto fu completamente disteso, a terra c’era una donna magra, vestita con sobrietà ma in modo dignitoso. Un livido scuro le macchiava la tempia. Guardandosi intorno, confusa e incredula, sussurrò:
«Mi ha portata… qui? In discarica? Così… davvero così…»
Sima non disse nulla. La aiutò ad alzarsi e la accompagnò, passo dopo passo, fino alla baracca. La fece sedere, poi andò a cambiarsi con abiti puliti. Solo allora, come se il corpo avesse capito di essere fuori pericolo, Marija Filippovna cominciò a piangere in silenzio.
«Quindi… sono viva…» singhiozzò. «Voleva seppellirmi viva… e per giunta ha rovinato il suo tappeto preferito…»
Sima mise il bollitore sul fuoco, prese un pugno di erbe secche dalla credenza e preparò un tè forte, bollente. Appoggiò la tazza davanti all’ospite.
«Io sono Serafima Egorovna», disse piano. «Ero insegnante di lingua e letteratura russa.»
Marija la scrutò, sorpresa dal taglio corto e dai vestiti maschili.
«Ma… sei una ragazza?»
«Sì», sospirò Sima. «È solo che la vita… mi ha spostato da tutte le parti. Sono venuta in capitale per lavorare come istitutrice. Alla stazione mi hanno ripulita: borsa, soldi, documenti. Tutto.»
«E la polizia?» chiese l’altra, con quell’autorità naturale di chi è abituato a essere ascoltato.
«Ci sono andata. Mi hanno detto: ambasciata, pratiche, tasse… e costa. Io non avevo niente. E così… mi sono ritrovata qui.»
Marija la osservò ancora, e dietro il dolore comparve un lampo di compassione.
«Non esiste davvero nessun aiuto?»
Sima scosse la testa. Poi la guardò dritta, finalmente:
«Ora mi dica lei: come ha fatto a finire dentro quel tappeto?»
Alla domanda, Marija ebbe un brivido e le lacrime ripresero a scendere.
«È così che va la vita…» mormorò. «Come si arriva a certe cose…»
Sima si morse la lingua: “Perché gliel’ho chiesto…”.
Marija si asciugò il viso, si raddrizzò con fatica e il suo sguardo si fece duro, quasi altezzoso:
«E tu perché vorresti aiutarmi? Sai almeno chi sono? Appena esco di qui, farò un tale scandalo che se lo ricorderanno a lungo. E tu… tu guardati. Si può vivere così?»
Sima abbassò gli occhi, come se si vergognasse non solo degli stracci, ma della baracca stessa, che fino a un attimo prima le era sembrata il suo piccolo mondo.
Marija finì il tè, inspirò a fondo e disse, come se parlasse a qualcuno che non era lì:
«Va bene… ci arrivo io, da lui…»
E agitò un pugno in aria, minaccioso, come se l’offensore fosse già davanti.
Fuori, l’alba si apriva lenta. I primi raggi entrarono dalla finestra e accesero nell’aria le particelle di polvere, minuscole stelle.
«Sima… tu che vivi qui, conosci la strada per la statale?» chiese Marija, alzandosi piano.
«Certo.»
«Allora mi accompagni.» Non era una richiesta: era un ordine.
Uscì e rabbrividì. Indossava solo un tailleur leggero.
«Prenda almeno una giacca», suggerì Sima.
Marija arricciò il naso: «Non congelerò. Portami alla strada e basta.»
Camminarono fianco a fianco. Marija si appoggiava al braccio di Sima, ma continuava a brontolare, indignata davanti allo scempio:
«Che hanno fatto qui… hanno tagliato tutto e poi abbandonato. Nessuna nuova piantumazione. Sfruttare e scappare. Una vergogna.»
Arrivate alla statale, Marija si fermò, le fece un cenno secco e la lasciò andare.
«Da qui me la cavo. E tu… vedremo di aiutarti.»
Sima tornò indietro lentamente, con un pensiero che le pulsava in testa:
“Cammina come una regina. Voce ferma. O è una dirigente, o una donna abituata al comando. Se davvero mi aiuta… le dovrò la vita.”
Rientrata, riprese le faccende: accese la stufa, mise di nuovo l’acqua sul fuoco, tirò fuori un po’ di farina dal ripostiglio per fare focaccine. Versò acqua bollente su quell’impasto granuloso, aggiunse sale, lo stese con una bottiglia e iniziò a friggere su una vecchia teglia.
“Verranno buone”, pensò, quando iniziarono a dorarsi.
Proprio allora la porta della baracca si spalancò. Sulla soglia c’era Marija Filippovna, pallida, tremante, una mano serrata sul fianco.
«Sima… aiutami…»
Serafima la afferrò e la fece sedere. Marija si rannicchiò sulla panca, gemendo:
«Fa male… fa male… Io non posso stare al freddo, non posso digiunare! E quegli autisti… nessuno si ferma. Uno solo. Gli dico “portami a Starodubnilovskij” e lui mi fa: “E come paghi?” Come se io… io fossi nessuno!»
Sima le porse mezza focaccia ancora calda.
Marija la guardò sospettosa: «Questa viene dal cibo scaduto?»
«No. È farina buttata. A volte è infestata, la setaccio e la scotto con acqua bollente. Viene quasi come fatta in casa. E… sì: è buona.»
Marija masticò, trattenendo un commento. Poi sbuffò:
«Mi sorprendi. È una cosa che non vedevo da una vita. E spero di non rivederla mai più.»
«Quasi novant’anni, vero?» azzardò Sima.
Marija la fulminò con uno sguardo: «Quasi. E allora? Da qui non si arriva in città. E a casa… casa per me non esiste. Solo quello scellerato che mi ha scaricata come un sacco di sabbia.»
Sima stava per rispondere quando, dalla finestra, vide un SUV noto. Si fermò vicino ai cumuli, come se cercasse qualcosa. Il cuore le fece un salto: era lo stesso uomo.
«Zia Maša… zitta», sussurrò. «È tornato.»
Marija alzò un sopracciglio, ma Sima la trascinò giù, verso la cantina, coprì l’apertura con un pannello di compensato e restò immobile, ad ascoltare.
Qualcuno si muoveva fuori. Passi tra i rifiuti. Poi, dritti verso la baracca.
Un colpo alla porta.
Sima inspirò e aprì. Davanti a lei c’era un uomo alto, massiccio, in abiti eleganti, con gli occhi di chi considera tutto il mondo inferiore.
«Buongiorno», disse, senza calore. «Vivi qui?»
«Più o meno.»
«Anche di notte?» insistette. «Hai visto qualcosa di strano? Hai trovato… qualcosa?»
Sima fece un’espressione vuota, come se stesse parlando del tempo.
«Che cosa avrebbe perso?»
L’uomo si grattò la nuca. «Perso… sì. Diciamo così.»
«Quindi è stato qui stanotte?»
«Sì.»
«E non ha notato nulla?»
«No. Solo che i cani non abbaiavano come al solito. Per il resto, tranquillo.»
Lui la fissò, lungo, come cercando crepe nella sua voce. Poi si voltò e tornò all’auto, lanciando un’ultima occhiata alla baracca. Sima lo seguì con lo sguardo finché non scomparve. Solo allora sollevò il pannello.
Marija uscì gemendo, ma con lo sguardo acceso di furia.
«Incredibile… è tornato a riprendermi!» sibilò. «Che farabutto! Ma tu, Simočka… tu mi hai salvata due volte.»
Sima non resistette:
«Chi è, per lei?»
Marija serrò le labbra: «Il genero. E non un genero qualunque: un mostro. Mia figlia è morta e lui ora dà la caccia a me per la mia parte. Ma non avrà un centesimo. Né lui né la sua nuova “fidanzatina”.»
Parlava con la rabbia di chi ha passato una vita a comandare ma ora si ritrova braccata.
«Ho lasciato tutto a mio nipote. A quell’ingordo… niente. Ha già azienda, casa, auto. Eppure non gli basta: vuole anche cancellarmi.»
Sima ascoltava, stordita. Lei, abituata a contare monete, sentiva improvvisamente parlare di ricchezze come di un campo di battaglia.
Marija, come se le leggesse i pensieri, aggiunse:
«Io e mio marito abbiamo costruito un’impresa vera. Appalti, immobili, perfino all’estero. Senza mio nipote, quel demonio avrebbe dissipato tutto.»
Sima annuì piano.
«E adesso cosa facciamo?» chiese infine.
Marija la guardò negli occhi, e per un secondo l’arroganza lasciò spazio alla necessità.
«Dobbiamo arrivare da Oleg. Ma una come te… la sicurezza ti fermerà.»
Sima sorrise, per la prima volta con decisione:
«Allora cambiamo carte. Lei si mette i miei vestiti. Io indosso i suoi e vado al posto suo.»
Marija non protestò. Si svestì in fretta, infilò una gonna lunga e un maglione informe. Sima indossò il tailleur e, dalla cassapanca, tirò fuori un paio di scarpe troppo grandi.
«Se avessi i tacchi giusti, potresti andare a una festa», commentò Marija, annuendo, quasi compiaciuta.
«Qualcosa si trova», rispose Sima, stringendo i lacci e prendendo un foglietto che Marija stava già scrivendo con grafia ferma:
“Oleg mi riconoscerà. Che venga subito. Poi sistemiamo quel Gleb.”
Prima di uscire, Sima la abbracciò.
«Chiuda a chiave. Se sente qualcuno… giù in cantina. E non esca finché non torno.»
Marija, per la prima volta, sorrise davvero: «Agli ordini, comandante.»
Sima si incamminò verso la statale. Le auto sfrecciavano senza guardarla. Poi, dietro di lei, uno stridio di freni.
«Ti serve un passaggio? In città?» chiese un giovane al volante.
Sima si voltò e, riconoscendo quell’accento morbido, gli parlò nella sua lingua madre:
«Sei un conterraneo?»
Il ragazzo sorrise: «Certo. Come sei finita qui?»
«È una lunga storia», sospirò, porgendogli il biglietto. «Ma devo arrivare a questo indirizzo. Mi aiuti?»
Lui lesse e fischiò: «È lontano… ma aiuto volentieri una conterranea.»
Sima salì e si infilò le scarpe con cautela.
«Mi sono venute grandi… per quello camminavo scalza», ammise.
Lui rise appena e partì.
Durante il tragitto, Sima raccontò tutto: la baracca, il tappeto, la donna, l’uomo tornato a cercarla. Azis — così si chiamava — ascoltò in silenzio, con un’attenzione che scaldava.
Quando arrivarono davanti alla villa, Azis fischiò di nuovo:
«Perbacco. Qui si vive… bene.»
«Non sono amici», disse Sima. «Sono l’unica possibilità.»
Premette il citofono. Una voce femminile rispose: «Chi è?»
«Mi manda Serafima. Ho una lettera da Marija Filippovna.»
Il cancello si aprì. Un giovane alto, con gli occhiali, uscì quasi correndo.
«Dov’è mia nonna? Perché non chiama?» chiese, ansimando.
«È viva», disse Sima. «Ma è in pericolo. Più in fretta la portate via, meglio è.»
Il ragazzo — Oleg — annuì senza fare domande: corse al garage, mise in moto e si lanciò sulla statale.
Quando la discarica apparve in lontananza, Sima vide un filo di fumo salire dal tetto della baracca. Le si gelò il sangue.
«Più veloce… quella è lei.»
E poi tutto accadde in un lampo: il fuoco che crepitava, il tetto che iniziava a cedere, Oleg che correva verso l’ingresso gridando il nome della nonna. Un boato secco. La stufa crollò e il tetto collassò dentro, divorato dalle fiamme.
Sima crollò in ginocchio, le mani sul volto. Una pioggia sottile, fredda, cominciò a cadere, inutile contro quel rogo. Oleg restò immobile, come se stesse salutando qualcuno da lontano.
Sima piangeva. Per Marija. Per quella baracca miserabile diventata cenere. Per tutto ciò che le era rimasto e che stava sparendo davanti ai suoi occhi.
Poi, tra il crepitio e la pioggia, si sentì una voce debole… ma viva:
«Sima! Serafima! Presto… aprite!»
Corsero verso il suono. Veniva da dietro la palizzata, tra cespugli e radici. Lì, nascosta da una lamiera vecchia, c’era un’uscita secondaria: un passaggio segreto. La spostarono e videro il volto sporco ma presente di Marija Filippovna, seduta su scalette di legno, sfinita ma in piedi con la sola forza della volontà.
«Oležek… nipote mio… non piangere!» disse con voce roca. «Quel bastardo non ha ottenuto nulla.»
Si scoprì che Gleb era tornato. Aveva cosparso la baracca di benzina e appiccato il fuoco. Marija l’aveva visto da una fessura ed era scesa appena in tempo in cantina; quando il pavimento aveva ceduto, era scivolata nel passaggio che conosceva da anni, usato un tempo per ripararsi da un temporale. Un’altra volta, quella via nascosta le aveva salvato la vita.
Sima non riusciva a smettere di piangere. Non aveva provato emozioni così violente nemmeno quando aveva perso tutto: denaro, documenti, speranza.
Marija le prese le mani.
«Non piangere, piccola. Vieni con noi. Ora… sei sotto la mia protezione. Finché respiro, nessuno ti lascia più sola.»
A casa di Oleg, Marija si rimise subito in ordine, fece una doccia, poi compose numeri su numeri. Un’ora dopo era già tornata “lei”: padrona della stanza, del telefono e del destino.
«Oležek, domani alle dieci al consolato sarà tutto pronto», annunciò soddisfatta. «Tu accompagni Sima. Ma prima va sistemata come si deve: non si rifanno i documenti con il tailleur preso in prestito e scarpe che ballano ai piedi.»
Oleg sorrise, incredulo: «Nonna… come se niente fosse. Sempre uguale.»
La sera passò tra negozi, parrucchieri e mani esperte. Quando Sima si guardò allo specchio, quasi non si riconobbe: pulita, curata, con un’aria nuova, come se qualcuno le avesse restituito il diritto di esistere.
«Partenza alle nove», ricordò Oleg prima di lasciarla riposare. «Dormi tranquilla. Qui sei al sicuro.»
Lei si sdraiò, sospesa tra sogno e realtà. Un pensiero le attraversò il cuore:
“Se tornerò a casa, dovrò ringraziarli per ogni giorno che mi ridanno.”
Passarono due settimane. Le rilasciarono un passaporto provvisorio e un visto. Ma prima di partire, le chiesero di restare come testimone nel processo contro Gleb. Sima accettò senza esitare.
In tribunale, quando Gleb vide Marija viva e intatta e riconobbe in Sima la “stracciona” che credeva sparita, il suo volto si deformò. Abbassò gli occhi, come un animale braccato.
La testimonianza fu decisiva. La condanna fu la più severa possibile.
Dopo il processo, a casa di Marija organizzarono una festa. Risate, brindisi, quel tipo di gioia che arriva solo quando un incubo finisce davvero. A un certo punto, Oleg tese la mano a Sima:
«Balli con me?»
Lei annuì. Lui danzava con naturalezza, e lei lo seguì come se camminasse su un filo di luce.
«Ho proposto alla nonna di riposare in Francia, nel suo chalet preferito», disse. «Verresti anche tu?»
Sima sorrise: «Te l’ha chiesto la nonna?»
«No. Lo voglio io. Perché con te… sto bene. E mi piacerebbe che questa storia non finisse qui.»
Lei rimase in silenzio un attimo.
«Io volevo tornare dai miei genitori. Mi aspettano da tanto.»
«Allora ci andiamo insieme», disse lui, deciso. «Conosco la tua famiglia. E poi… magari ci sposiamo lì. E dopo partiamo. Francia, se vuoi. La nonna ha una casa.»
Sima lo guardò negli occhi e, per la prima volta dopo anni, sentì accendersi qualcosa di vero dentro di sé: non solo amore, ma pace. Quella pace che vale quanto l’amore, perché nasce dopo la paura.
Un mese dopo, in una città lontana del sud, tra fisarmoniche e tamburi, si celebrò un matrimonio rumoroso e felice, come una festa antica. I vicini riempirono la strada di auguri. Dopo la cerimonia, gli sposi partirono per un viaggio, ma prima passarono da Marija Filippovna per salutarla.
E le portarono un dono. Proprio lui: il tappeto di Bukhara da cui era cominciato tutto.