Parte 1
Una semplice donna delle pulizie, senza nessuno a cui affidare la figlia, si era rassegnata a portarla con sé al lavoro. Non avrebbe mai immaginato che la reazione del suo datore di lavoro – un milionario riservato – avrebbe cambiato per sempre il destino di entrambe.
Claudia si svegliò alle 5:30, come ogni giorno. Le ossa le facevano male, le palpebre erano pesanti per le poche ore di sonno, ma non poteva permettersi nemmeno un minuto in più a letto.
La vecchia sveglia sul comodino aveva smesso di funzionare da tempo, ma da quando suo marito era morto, quattro anni prima, era come se dentro di lei si fosse installato un orologio invisibile che la tirava giù dal materasso a quell’ora esatta. Accanto, sulla branda stretta, Renata dormiva profondamente, abbracciata al suo peluche con un orecchio ormai penzolante.
Claudia la guardò per qualche istante prima di alzarsi. Ogni mattina provava la stessa fitta: quella bambina avrebbe meritato di dormire fino a tardi, ma non poteva lasciarla sola in casa. Anche quel giorno l’avrebbe dovuta portare con sé. Si mosse in fretta nella piccola casa che dividevano nel quartiere di San Pedro: muri scrostati, un’unica lampadina al soffitto, una stufa che partiva solo dopo vari tentativi.
Preparò una ciotola di avena con il latte per Renata, mentre per sé si limitò a un caffè nero, bevuto in silenzio per concedere alla bambina qualche minuto in più di sonno.
Con la tazza calda tra le mani, il pensiero corse subito alla villa del signor Leonardo. Ripassava già le frasi da usare per giustificare, ancora una volta, la presenza di Renata. Gliel’aveva già spiegato: non aveva nessuno che potesse tenerla, nessun asilo che potesse permettersi. Ma viveva con l’angoscia che, prima o poi, qualcuno le dicesse che così non si poteva andare avanti.
Aveva girato tutti gli asili della zona, anche i più economici, ma la retta restava fuori dalla sua portata. Nessun parente vicino, nessun’amica che potesse occuparsi della bambina. Quella era la realtà, e non c’erano alternative.
Alle 6:15 si chinò su Renata e la svegliò con un bacio sulla fronte. La bimba aprì gli occhi, ancora gonfi di sonno, si stiracchiò e fece la solita domanda di ogni mattina:
«Mamma, oggi vai a lavorare?»
Claudia le sorrise e rispose di sì, aggiungendo che sarebbe venuta anche lei, come al solito.
Renata annuì soddisfatta: quella casa enorme le piaceva. Per lei era un castello. Anche se non poteva toccare quasi nulla, il solo fatto di trovarsi lì la faceva sentire felice.
Mentre la vestiva, Claudia ripeté per l’ennesima volta le solite raccomandazioni, quasi fossero una preghiera:
«Niente urla, non toccare niente senza chiedere, non correre nei corridoi e non entrare mai nello studio del signor Leonardo. È davvero importante che tu ti comporti bene, amore mio. Ho bisogno di questo lavoro.»
Alle 7 in punto uscirono di casa. Percorsero quattro isolati fino alla fermata dell’autobus. Claudia portava sulle spalle uno zaino e una borsa con un po’ di cibo; Renata, con il suo zainetto rosa pieno di giochini e un quaderno per disegnare, salì sul bus stringendole la mano, mentre la madre la sistemava vicino al finestrino.
Il tragitto durò una quarantina di minuti. Renata restò incollata al vetro, seguendo con lo sguardo auto, passanti e cani randagi, intervallando il silenzio con mille domande. Claudia, quando poteva, rispondeva; altre volte taceva, non perché non volesse, ma perché non trovava le parole.
Quando scesero nel quartiere Lomas del Encino, sembrò davvero di entrare in un altro mondo: strade larghe, alberi perfettamente potati, cancelli automatici, giardinieri in uniforme al lavoro.
La villa dove lavorava Claudia si trovava all’angolo di una via tranquilla, protetta da un massiccio cancello nero. Per entrare, bisognava chiamare all’interfono.
La guardia, il signor José, le conosceva ormai bene. Quando vide Renata, accennò un sorriso e aprì subito il cancello. Claudia lo salutò in fretta e imboccò il vialetto. La villa dominava il terreno: due piani, grandi vetrate, un giardino che sembrava più grande dell’intera loro strada. Nonostante fossero due anni che lavorava lì, Claudia provava ancora un certo imbarazzo ogni volta che varcava quella soglia.
Dentro era tutto lucido, ordinatissimo, profumato di legno e cera. Il signor Leonardo, di solito, non compariva mai troppo presto. Claudia conosceva a memoria la sua routine: verso le 8 si muoveva al piano di sopra, attorno alle 9 scendeva per la colazione, poi tornava nello studio o usciva per riunioni. C’erano giornate in cui non lo vedeva proprio: comunicavano tramite il maggiordomo o Marta, la cuoca. Quella mattina pensò che sarebbe andata allo stesso modo.
Entrarono dalla porta di servizio. Claudia fece sedere Renata in un angolo della cucina, dove potesse tenerla d’occhio, le mise davanti fogli e matite colorate e la bambina si immerse subito nei disegni. Lei iniziò il giro delle pulizie dalla sala da pranzo: lavò i piatti della colazione, spazzò, passò lo straccio, sistemò i cuscini delle sedie e spolverò la credenza con le bottiglie.
Alle 8:15 sentì passi sulle scale. Il cuore le saltò in gola: era raro che lui scendesse così presto.
Leonardo apparve in salotto con una camicia bianca sbottonata sul collo, la fronte lievemente aggrottata. I capelli appena in disordine, una cartella sotto braccio. Claudia si immobilizzò, lo straccio ancora in mano. Lui andò dritto verso la cucina. Varcata la soglia, si bloccò: sul pavimento, seduta tranquilla, c’era Renata, tutta concentrata sul suo disegno.
Claudia avvertì lo stomaco chiudersi. Si affrettò a spiegare, la voce roca, che non aveva nessuno con cui lasciare la bambina, che sarebbe stata lì solo poche ore e che prometteva che non avrebbe disturbato. Leonardo non rispose subito. Si piegò sulle ginocchia per guardare il foglio: una casa enorme, una bambina in giardino e un sole gigante in un angolo.
Renata alzò lo sguardo, lo vide e, senza un briciolo di timidezza, disse:
«Questa è la sua casa, signore. E questa sono io che gioco.»
Leonardo sbatté le palpebre, spiazzato. Rimase in silenzio per qualche secondo, poi si tirò su, si sistemò la camicia e – cosa che Claudia non gli aveva mai visto fare – accennò un sorriso. Non pieno, ma appena accennato, come se qualcosa dentro si fosse incrinato.
«Va bene», disse soltanto, e uscì dalla cucina.
Claudia restò lì, interdetta. Non si era mai comportato così. Il signor Leonardo non era maleducato, ma certo non caloroso: sempre serio, distaccato, essenziale. Quel mezzo sorriso era qualcosa di totalmente nuovo. Riprese a pulire con il cuore in tumulto, continuando a controllare Renata con la coda dell’occhio.
La bambina, invece, continuava a colorare come se niente fosse.
Alle 9 lui tornò giù. Claudia si preparò a un rimprovero tardivo, ma non arrivò. Leonardo si sedette al tavolo da pranzo e chiese un caffè. Poi chiamò Renata: le chiese il nome, cosa le piacesse fare. Lei rispose sicura, come se lo conoscesse da sempre: adorava disegnare, correre e mangiare pane dolce. Leonardo lasciò sfuggire una risata breve, bassa, ma vera.
Claudia intuì che qualcosa stava cambiando e non sapeva se esserne sollevata o preoccuparsi. Il resto della mattinata fu diverso dagli altri giorni. Leonardo rimase in casa più a lungo del solito.
Uscì in giardino per alcune telefonate e, prima di rientrare, domandò a Claudia se Renata potesse giocare sull’erba. Lei, sorpresa, rispose che sì, se non creava problemi. Lui scosse la testa: «No, anzi. Mi fa piacere vederla lì.»
Claudia lo fissò, senza fiato.
Mentre spazzava il vialetto, vedeva la figlia correre vicino alle siepi e ridacchiare, e Leonardo seduto su una panchina che la osservava con un’espressione mai vista prima.
L’uomo che, da quando aveva perso la moglie tre anni prima, si muoveva come un’ombra, sembrava improvvisamente vivo. Claudia non sapeva come interpretare quella trasformazione, ma per la prima volta, dopo tanto tempo, ebbe la sensazione che qualcosa potesse davvero cambiare. E tutto era iniziato in una mattina qualunque.
Renata si mise seduta a gambe incrociate sul prato, strappando piccoli fiori e separando i petali per colore. Indossava una camicetta bianca con una vecchia macchia di succo d’arancia e la coda di cavallo che già si allentava. Mentre giocava, parlava da sola, inventando storie in cui un fiore era la mamma, uno il papà e gli altri i loro bambini.
Claudia la guardava dalla soglia della cucina, asciugandosi le mani con uno strofinaccio logoro. Aveva paura che potesse fare troppo rumore o sporcare qualcosa: non voleva offrire a Leonardo il minimo pretesto per vietarle di portarla ancora.
Dallo studio arrivava la sua voce in viva voce, il fruscio di pagine, il tono sicuro di chi è abituato a comandare.
Quando Renata iniziò a canticchiare piano, Claudia fece per richiamarla, ma prima che potesse muoversi, Leonardo uscì in giardino. Aveva il cellulare in mano e un’espressione stanca. Si fermò vedendola lì, seduta sull’erba, intenta a cantare sottovoce.
Claudia trattenne il respiro, pronta al rimprovero. Ma lui mise via il telefono e si avvicinò con calma. Si chinò all’altezza della bambina e le chiese che canzone fosse.
Renata lo guardò seria, ci pensò un attimo e disse il titolo di un cartone. Poi chiese se anche lui lo guardasse. Leonardo fece un mezzo sorriso: no, non lo guardava, ma le disse che gli piaceva la sua voce.
Claudia stentava a riconoscerlo. Era lo stesso uomo che fino a poco tempo prima attraversava le stanze ignorando tutti, staff compreso. Ora stava seduto sull’erba a parlare con una bambina di quattro anni di canzoncine e fiori.
Renata gli mostrò i fiorellini, spiegando che uno era la mamma, uno il papà e gli altri i bambini. Lui annuì, quasi prendendo sul serio quella fantasia, poi si rialzò. Ridacchiò quando lei aggiunse che alcuni petali scappavano dal giardino perché erano monelli.
Claudia sentì un nodo stringerle la gola. Non sapeva se fosse emozione, stupore o paura. Vedere quell’uomo ridere le sembrava un evento eccezionale.
Leonardo tenne lo sguardo su Renata ancora un attimo e le chiese se lì stesse bene. Lei rispose di sì, che quella casa era come un parco con il tetto, e che le sarebbe piaciuto viverci. Lui rimase serio un istante, poi sorrise di nuovo. Prima di rientrare, disse a Claudia che la bambina poteva restare in giardino quanto voleva, non dava alcun fastidio.
Claudia riuscì solo a mormorare un grazie. Lui tornò dentro come se nulla fosse, ma per lei niente era normale, quel giorno. Più tardi, mentre puliva il corridoio che portava alla biblioteca, si fermò di colpo. Dallo studio proveniva ancora una risata.
Non era fragorosa, ma limpida. Mai sentita prima.
Si avvicinò e sbirciò oltre la porta socchiusa: Leonardo era seduto alla scrivania e, davanti a lui, Renata, su una sedia troppo grande per lei, con un foglio in mano. Gli mostrava un disegno e lui la ascoltava, serio ma attento. A un certo punto lei disse qualcosa che Claudia non colse, ma sufficiente a farlo ridere ancora.
Claudia si ritrasse in punta di piedi. Non voleva spezzare quel momento. Non sapeva quanto sarebbe durata quella nuova versione del suo capo, ma si ripromise di non rovinare tutto.
Più tardi, mentre sistemava gli asciugamani nel bagno degli ospiti, Marta le si avvicinò sottovoce e commentò che non aveva mai visto il capo così. Da quando era morta la signora Daniela non rideva quasi più, parlava a monosillabi, teneva tutti a distanza. «E adesso quella piccola se l’è messo nel palmo della mano», mormorò, ancora incredula.
Claudia scrollò le spalle: non voleva illudersi. Non aveva idea di che cosa stesse davvero succedendo.
A pranzo arrivò un’altra sorpresa: Leonardo chiese un coperto in più. Claudia pensò a un ospite, ma era per Renata. La bambina si sedette al tavolo tutta fiera, come se fosse la cosa più normale del mondo. Chiese da bere e Marta le portò una bevanda all’ibisco. Leonardo la osservava in silenzio, divertito.
Le chiese se le piacessero i fagioli. Renata rispose di sì, ma raccontò che una volta ne aveva mangiati alcuni che sapevano di terra. Lui rise ancora.
Claudia rimase in cucina, dritta accanto ai fornelli, senza sapere se stava oltrepassando un limite. Leonardo la chiamò per nome – cosa che succedeva di rado – e le disse che, se voleva, poteva mangiare qualcosa anche lei. Claudia si affrettò a rispondere che non era necessario. In realtà aveva lo stomaco chiuso.
Quando arrivò il momento di tornare a casa, Renata corse nello studio per salutare Leonardo. Gli regalò un disegno: un uomo con la cravatta e una bambina che gli teneva la mano. Leonardo lo guardò a lungo, poi lo ripose con cura in un cassetto della scrivania. Non disse molto: le appoggiò solo una mano sulla testa e le disse di fare la brava.
Sul bus del ritorno, Renata chiese alla madre se l’indomani sarebbero tornate ancora in quella casa. Claudia non seppe cosa rispondere. Guardò fuori dal finestrino, gli occhi lucidi, il cuore pesante. Sentiva che da quella mattina qualcosa si era messo in moto, ma non sapeva se dovesse considerarlo una benedizione o un rischio. Aveva imparato sulla propria pelle che spesso le cose belle arrivano poco prima di un nuovo temporale.
Quella sera, dopo una cena semplice di riso e uova, mise a letto Renata. La bambina si addormentò in fretta, stretta al solito peluche. Claudia rimase seduta vicino a lei, a fissare il soffitto. Le tornavano in mente il sorriso di Leonardo, le sue risate inaspettate, il modo in cui guardava sua figlia.
Una parte di lei aveva paura. Ogni volta che la vita sembrava offrire uno spiraglio di luce, qualcosa era sempre arrivato a spegnerlo. Eppure non poteva negare di aver visto, negli occhi di quell’uomo, una crepa: una fenditura in un muro chiuso da anni.
Il fatto più incredibile era che proprio Renata, senza nemmeno accorgersene, aveva aperto quello spiraglio.
Da quel giorno il ritmo in casa cambiò. Nessuno lo dichiarò esplicitamente, ma Renata iniziò ad accompagnarla ogni mattina. La prima settimana fu come camminare su un lago ghiacciato: Claudia viveva nell’attesa di un «basta, non può più venire», di un richiamo improvviso.
Ma quel momento non arrivò.
Anzi, ogni giorno Leonardo le salutava entrambe con un cenno e un mezzo sorriso. A volte chiedeva cosa avesse mangiato Renata a colazione, altre si affacciava in giardino solo per guardarla giocare. Gesti piccoli, ma autentici.
Claudia oscillava tra sollievo e inquietudine. Non aveva mai intravisto quella tenerezza in lui.
Neppure gli altri rimanevano indifferenti. Marta, mentre pelavano patate fianco a fianco, le sussurrò che quella bambina aveva fatto quello che nessun adulto era riuscito a fare: restituire un po’ di gioia al loro capo.
Le giornate, lentamente, divennero meno pesanti. Claudia lavorava con il petto meno schiacciato, come se avesse guadagnato un filo d’aria in più.
Renata, nel frattempo, si appropriò di un angolo del giardino: una panchina, una scatolina con i pastelli, qualche foglio e un paio di giochi portati da casa. Restava lì per ore, tra canzoncine e storie inventate, trasformando sassi e foglie in bambini con lo zainetto.
Un pomeriggio, mentre Claudia passava lo straccio nel corridoio principale, Leonardo le venne incontro. Non per darle ordini, ma per parlare.
Le chiese come stesse Renata, se si ammalasse spesso, se mangiasse abbastanza. Claudia rispose con discrezione, sorpresa da tanto interesse. Leonardo incrociò le braccia e commentò che molti bambini non mangiano come dovrebbero non per mancanza di volontà, ma perché la vita non offre alternative.
Claudia lo guardò spiazzata. Non era abituata a sentirlo parlare così, con quella comprensione pacata. Poi lui annuì e se ne andò.
Col passare dei giorni, ogni volta che si incrociavano, lui aggiungeva una parola in più: un commento sul tempo, una domanda su Renata. Una volta le chiese persino se sapesse preparare le polpette al chipotle, perché gli ricordavano quelle di sua madre.
Claudia rispose di sì, che era stato uno dei primi piatti che aveva imparato da sposata. Leonardo disse che gli sarebbe piaciuto assaggiarle, prima o poi. E se ne andò.
Quelle parole le rimasero addosso per tutto il giorno.
Renata, senza sforzo, conquistava tutti. José un pomeriggio le portò un ghiacciolo alla fragola. Marta iniziò a metterle da parte un panino dolce dalla colazione. Dolores, l’anziana che sistemava i fiori, le insegnò a tagliare i gambi e a disporli nei vasi. La bambina non creava problemi, anzi rendeva l’aria più leggera.
Una mattina, mentre Leonardo parlava al telefono in giardino, Renata gli si avvicinò con il quaderno dei disegni stretto al petto. Claudia, che stava pulendo i vetri, la vide e istintivamente pensò di fermarla, ma restò dov’era.
Leonardo chiuse la chiamata e le chiese cosa stesse disegnando. Lei gli mostrò un albero carico di mele e spiegò che era l’albero del capo, perché lui comandava sulla casa.
Lui sorrise e replicò che non comandava poi così tanto, che lì dentro ognuno finiva per fare un po’ di testa sua. Renata rispose che era meglio così, perché se comandava troppo, la sua risata sarebbe scappata via.
Claudia, a qualche metro di distanza, ascoltava. Non capiva come una bambina potesse dire cose così grandi con tanta semplicità.
Leonardo smise di isolarsi come prima. Continuava a lavorare molto, ma si concedeva pause: passeggiava nel giardino, si sedeva sulla panchina dove giocava Renata. Un giorno le raccontò che anche lui, da piccolo, sporcava i pantaloni giocando con pietre e terra e che sua madre lo rimproverava.
Renata rise e disse che lei non aveva il papà, ma che la mamma non si arrabbiava quasi mai. A quelle parole, il volto di Leonardo si irrigidì. Non commentò. Le arruffò i capelli e rientrò in casa.
Quella notte Claudia faticò a prendere sonno. Ripensava a ciò che la bambina aveva detto e al modo in cui l’aveva detto. Era vero: Renata era cresciuta senza un padre, e per quanto lei si sforzasse, non poteva colmare del tutto quel vuoto. Ora sembrava che la bambina stesse cercando, senza saperlo, una figura maschile proprio in Leonardo.
L’idea la spaventava. Lei non apparteneva a quel mondo. Lavorava in quella casa, ma non ne faceva parte. Dipendeva da un uomo che viveva in una realtà lontanissima dalla sua.
Un pomeriggio, mentre puliva il bagno al secondo piano, Leonardo apparve sulla porta. La salutò e, dopo qualche istante, le chiese se Renata frequentasse l’asilo. Claudia rispose di no: non poteva permetterselo.
Lui non disse nulla. Fece un cenno con il capo e se ne andò.
Due giorni dopo, Marta arrivò in cucina con una cartellina e gliela porse. Dentro c’era il modulo d’iscrizione di una scuola materna privata. Leonardo aveva già parlato con la direttrice: per Renata c’era un posto, pagato in anticipo.
Claudia rimase senza parole. Avrebbe voluto ringraziarlo subito, ma quel giorno non trovò mai il momento adatto per parlarci da sola. Lo vide soltanto di sfuggita, sul balcone, al telefono. Non sapeva se sentirsi grata o in debito, felice o schiacciata dal peso di quel favore.
L’atmosfera in casa cambiò ancora. In cucina spuntò una seggiolina per Renata. José le montò un’altalena di fortuna su un ramo in fondo al giardino. Dolores le portò un quaderno nuovo pieno di figurine.
Quanto a Leonardo… non era diventato improvvisamente espansivo, ma non era più neppure la statua di ghiaccio di prima. Ogni tanto usciva solo per vedere cosa facesse la bambina. Un giorno si avvicinò con un gelato in mano e glielo porse, dicendo che doveva mangiarlo in fretta, altrimenti si sarebbe sciolto «come i problemi». Renata non capì la metafora, ma rise. Claudia, qualche passo indietro, non si perdeva nessuno dei suoi gesti.
Qualcosa, tra quelle pareti, stava nascendo. Non sapeva darle un nome, ma lo sentiva. E proprio questo la inquietava: i cambiamenti improvvisi spesso anticipano uno stravolgimento.
Però, per il momento, poteva solo andare avanti: lavorare, prendersi cura di sua figlia e osservare, con discrezione, come una bambina di quattro anni stesse riportando colore in una casa abituata al grigio.
A cominciare dall’uomo che, quasi senza accorgersene, aveva ricominciato a sorridere grazie a lei.
Parte 2
Quella mattina il cielo era coperto e l’aria pesante, come se stesse per scoppiare un temporale. Claudia uscì di casa tenendo Renata per mano, più silenziosa del solito. Non era un giorno qualsiasi.
All’alba aveva sognato suo marito, l’incidente, la telefonata, l’ospedale. Il dolore era riaffiorato netto, come se il tempo non fosse passato. Si era svegliata col petto stretto, ma non c’era spazio per le lacrime: la vita andava avanti, con o senza la sua voglia di seguirla.
Sul bus, Renata parlò meno del solito. Guardava fuori dal finestrino, semisveglia. Claudia le sistemò il golfino sulle spalle, tentando di alleggerire i pensieri, senza riuscirci davvero.
Alla villa di Leonardo si respirava un’aria diversa. Un silenzio strano, quasi formale. José le salutò senza il suo solito sorriso; anche Marta era insolitamente taciturna. Claudia sistemò Renata nel suo solito angolo di giardino con colori e quadernetto e iniziò a lavorare, ma con la mente altrove.
Mentre strofinava la cucina, le tornarono in mente le promesse che suo marito le faceva ridendo: «Un giorno avremo anche noi una casa con un giardino e finestre enormi.» Lei sorrideva, ma in cuor suo non ci aveva mai creduto davvero. Sembrava un sogno fuori dalla loro portata.
Verso mezzogiorno, mentre puliva il bagno al piano terra, vide Leonardo scendere le scale e fermarsi a guardarla. Non aveva la solita fretta, non stringeva fascicoli, non controllava l’orologio. Era lì, basta.
Claudia lo salutò con un cenno appena. Lui la fissò per qualche secondo e le chiese se potesse rubarle un minuto. Lei pensò subito a qualche problema di lavoro, ma annuì e lo seguì nello studio.
Leonardo si sedette su una poltrona e le indicò l’altra. Claudia si sedette, rigida, le mani sulle cosce, il cuore che batteva troppo in fretta. Per un po’ lui non disse nulla, guardando fuori dalla finestra. Poi, come se avesse finalmente preso una decisione, iniziò a parlare.
Disse che negli ultimi tempi aveva riflettuto molto, che la presenza di Renata aveva smosso ricordi che credeva di aver sepolto. Da anni non ne parlava con nessuno, ma cominciò a raccontare di Daniela, sua moglie: la diagnosi del tumore due anni dopo il matrimonio, le cure, le speranze che si affievolivano, le notti in bianco in ospedale, le corse da un medico all’altro. Raccontò del mattino in cui lei se n’era andata, nel letto di casa, senza scene, semplicemente smettendo di respirare.
Claudia sentì gli occhi bruciare. Non sapeva cosa dire, così rimase in silenzio, mordendosi il labbro. Leonardo fece un respiro profondo e continuò: da allora aveva chiuso tutto fuori. Sentimenti, persone, legami. Si era buttato nel lavoro fino a non sentire più niente. O almeno così credeva.
Fino al giorno in cui una bambina aveva occupato un angolo del suo giardino con un quaderno e dei fiori.
All’inizio lo colpiva solo quanto parlasse, con quella naturalezza disarmante. Poi, poco a poco, aveva iniziato a sentire qualcosa di diverso: un calore improvviso, una risata che gli saliva in gola senza che lui potesse soffocarla.
Claudia abbassò lo sguardo. Non sapeva se quell’ammissione fosse un peso o un regalo.
Leonardo la guardò negli occhi e disse che non le stava raccontando tutto questo per pietà, ma perché la capiva. Anche lui aveva perso. Anche lui sapeva cosa significasse sentirsi spezzato.
Questa volta Claudia non riuscì più a controllarsi. Le lacrime le scivolarono sulle guance. Allora, tra singhiozzi trattenuti, raccontò la sua storia: l’incidente, la chiamata della polizia, la corsa in ospedale, il riconoscimento del corpo. Parlò del vuoto che aveva inghiottito tutto, del terrore di crescere una bambina da sola, senza denaro né aiuto. Raccontò di quando aveva smesso di vivere e aveva iniziato solo a resistere.
Leonardo ascoltò senza interromperla, il volto teso, gli occhi fissi. Quando lei ebbe finito, calò un silenzio denso.
Lui si alzò e andò alla finestra. Guardando il giardino, disse che non si era reso conto del peso della sua solitudine finché non aveva sentito di nuovo ridere qualcuno in quella casa.
Claudia si asciugò le lacrime con la manica. Si sentiva nuda, ma allo stesso tempo un po’ più leggera, come se una parte del dolore fosse finalmente uscita.
In quel momento, sulla soglia apparve Renata, con un fiore stretto tra le dita, raccolto in giardino. Lo porse alla madre con un sorriso enorme, come se avesse intuito che lì dentro serviva qualcosa di bello. Claudia la strinse forte, senza parlare.
Leonardo le osservò, e per la prima volta Claudia non avvertì distanza tra quell’uomo e loro due.
Quella non fu una giornata di lavoro normale. Marta le disse di prendersi qualche minuto, José le portò un caffè senza che lei chiedesse. Nessuno fece domande, ma tutti capirono che qualcosa si era spostato.
Sul bus del ritorno, Claudia rimase in silenzio, con Renata addormentata tra le braccia. Il rumore della città arrivava attutito. Chiuse un attimo gli occhi e ripensò alle parole di Leonardo, a ciò che aveva provato, a quella strana vicinanza fatta di ferite simili.
A casa, Renata andò a letto senza cena, stremata. Claudia la coprì, le baciò la fronte e restò a guardarla dormire. Poi si sedette da sola nel soggiorno quasi buio e pensò al passato e a ciò che sarebbe potuto ancora succedere. Non si faceva illusioni, ma per la prima volta le sfiorò un pensiero nuovo: forse non tutto era irrimediabilmente perduto.
Fu di venerdì che il ritmo della casa cambiò in modo ancora più evidente. Il cielo era terso, una brezza tiepida entrava dalle finestre e, in lontananza, arrivava il suono di un jazz leggero dallo studio di Leonardo. Renata giocava in giardino con una palla di stoffa regalata da José. Claudia puliva i vetri, seguendo con lo sguardo le risate della bambina che rimbalzavano dall’altra parte del vetro.
Il campanello della porta principale suonò all’improvviso. Era insolito: di solito ci si annunciava in anticipo o si passava dall’ingresso di servizio. José andò ad aprire, poi tornò con un’espressione scura. Chiamò Marta, che si sfilò in fretta il grembiule e salì verso l’ingresso. Claudia, dal corridoio, osservava senza farsi notare.
Pochi istanti dopo, una voce femminile, sicura e squillante, riempì l’atrio:
«Adesso non mi fate nemmeno entrare?»
La donna che varcò la soglia non passava inosservata. Alta, impeccabile, sui trent’anni, i capelli raccolti con cura, un profumo costoso che sembrava occupare lo spazio prima ancora di lei. Indossava occhiali da sole che si tolse con lentezza, come se fosse abituata ad avere sempre qualcuno che la guardava.
Entrò come se la casa fosse ancora sua. In un certo senso, un tempo lo era stata: era Julieta, la sorella minore di Daniela.
Claudia non l’aveva mai vista dal vivo, ma non ebbe bisogno di presentazioni. Bastava il modo in cui valutava ogni cosa con lo sguardo, come se stesse giudicando non solo i mobili, ma anche le persone. Elegante, fredda, con un sorriso sottile che non raggiungeva gli occhi.
Leonardo scese le scale con passo calmo, ma lo sguardo duro.
«Non mi avevi detto che venivi, Julieta», disse, la voce tesa.
Lei gli andò incontro a braccia aperte, fingendo spontaneità:
«Oh, Leo, da quando ho bisogno di un invito per venire a vedere come stai?»
Gli stampò un bacio sulla guancia, che lui ricambiò appena. Era evidente che quella visita non gli facesse piacere.
Claudia si defilò, cercando di sparire, mentre nel salone l’aria diventava pesante. Julieta scrutò la casa, notando ogni dettaglio, commentando quanto fosse tutto uguale a prima, come se il tempo non fosse passato.
Poi, senza troppi giri di parole, chiese:
«E quella bambina che gira qui? Avete aperto un asilo?»
La risposta di Leonardo fu immediata, la voce ferma:
«È la figlia di Claudia. E non sono affari tuoi.»
Le sopracciglia di Julieta si sollevarono, colte di sorpresa da quel tono.
Claudia, che aveva ascoltato dalla cucina, sentì i muscoli delle spalle irrigidirsi. Più tardi, mentre ritirava i cuscini dal giardino, trovò Julieta seduta su una panchina, composta, ogni gesto misurato. La donna la osservò con attenzione, dall’alto in basso.
«Tu sei la madre della bambina», disse.
Claudia annuì. «Sì, signora.»
«È simpatica, molto vivace. Viene spesso qui, vero?»
«Quando non ho nessuno con cui lasciarla…»
Julieta sorrise appena:
«Che fortuna, per te, lavorare in un posto del genere.»
Claudia non rispose.
«Da quanto sei qui?»
«Da due anni.»
«E già così… in confidenza?»
Claudia si irrigidì appena. «Io faccio solo il mio lavoro.»
Julieta lasciò andare una risatina senza allegria:
«Ma certo. E pare che tu lo faccia alla perfezione.»
Lo scambio fu breve, ma bastò a Claudia per capire che quella donna non era venuta per una visita affettuosa. Osservava, giudicava, pesava ogni movimento. Sembrava in cerca di una crepa da allargare.
Quella sera, uscendo dalla porta laterale con Renata addormentata sulle spalle, José la fermò. Con voce bassa e seria le disse:
«Stai attenta a quella donna. Non sopporta nessuno che non consideri al suo livello.»
Claudia annuì, le labbra serrate. Non aveva bisogno di ulteriori avvertimenti: l’aveva già capito da sola.
E dentro di lei, accanto alla speranza che era nata in quei giorni, cominciò a crescere una nuova paura: che tutto ciò che stava iniziando a sbocciare in quella casa potesse essere spezzato da chi non era disposto a lasciare che le cose cambiassero.
