«Ti ho già detto che quel secondo appartamento lo venderò io, punto. Quindi, tesoro, smettila di protestare e cedimelo spontaneamente… oppure te ne farò amaramente pentire.»

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«Ho trovato un acquirente. Per il tuo monolocale.»

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La frase cadde sul tavolo della cucina insieme a una cartellina di plastica sottile e un po’ sciupata. Il tonfo fu discreto, ma aveva qualcosa di definitivo, come lo sparo di partenza di una gara. Larisa non ebbe alcuno scatto visibile. Il coltello con cui stava tagliando con cura un croccante gambo di sedano si fermò a mezz’aria. Alzò lo sguardo. Denis era appoggiato al mobile, di lato, con le braccia incrociate. Sulle labbra quel sorriso compiaciuto e spavaldo di chi è convinto di aver appena risolto brillantemente un problema per tutti.

«Hai trovato un compratore per il mio appartamento?» ripeté lei. La voce era perfettamente piatta, priva di reale domanda. Non cercava conferma; stava solo sottolineando l’assurdità. «E senza nemmeno dirmelo?»

Denis scrollò le spalle con aria annoiata, come se fosse stata la domanda più stupida della giornata.

«E che ti dovevo dire? L’uomo di casa sono io, decido io. Lo faccio per il bene di tutti, Larisa. Ci offrono un ottimo prezzo, quasi niente trattative. Investiamo nella mia attività, in un anno raddoppiamo, forse triplichiamo. Ci compriamo una casa, una macchina decente invece di quel rottame. Anche tu volevi una vita migliore, no? Ecco l’occasione. L’ho trovata io, per noi.»

Parlava come se le stesse proponendo una vacanza ai Caraibi. Come se fosse un dono. Nella sua testa, non esisteva un confine chiaro tra “nostro” e “tuo”: tutto ciò che apparteneva a lei automaticamente diventava “di famiglia”. Ciò che era suo, invece, restava rigorosamente suo.

Larisa posò il coltello sul tagliere. Con cura, con la lama rivolta verso fuori. Si asciugò le mani sul canovaccio, ogni gesto esageratamente lento, misurato.

«Io non ho alcuna intenzione di vendere l’appartamento, Denis.»

All’inizio lui non afferrò il senso. Il sorriso gli rimase incollato al volto per un secondo di troppo, poi si deformò in una smorfia di irritazione.

«Come sarebbe? Non hai capito? Ho già preso accordi. La gente sta aspettando.»

«Il fatto che tu abbia preso accordi è un tuo problema,» rispose lei con la stessa calma, fissandolo negli occhi. «Quell’appartamento è il mio reddito e la mia sicurezza. L’ho ereditato da mia nonna e non è in vendita. Men che meno per un’altra delle tue “attività”, che è già la terza in cinque anni.»

Quell’ultima stoccata lo colpì in pieno. Il suo viso si irrigidì, la posa svogliata sparì; si raddrizzò, d’un tratto più massiccio, più minaccioso. Fece un passo verso di lei.

«Ma che stai dicendo? Non ti fidi di me, è questo? Io mi sbatto, rischio, lavoro per la famiglia, e tu stai lì, aggrappata alla catapecchia di tua nonna, a mettermi i bastoni tra le ruote?»

«Sto dicendo che il mio appartamento non diventerà la chip di scambio per i tuoi giochetti,» scandì Larisa. Quella calma glaciale lo faceva infuriare ancora di più. Lui si aspettava urla, pianti, una scena con piatti che volano. Invece davanti si trovava un muro liscio, freddo, impenetrabile.

Allora sbottò. Non gridò: la voce gli uscì bassa, strozzata, carica di veleno.

«Ho detto che il tuo secondo appartamento lo venderò, e così sarà. Quindi, cara mia, chiudi quella bocca e intestamelo con le buone. O te ne pentirai.»

Le si parò davanti, addosso, con una minaccia limpida che gli bruciava negli occhi. In quell’istante non somigliava affatto a un marito. Era un invasore venuto a prendersi ciò che non gli apparteneva.

Larisa lo fissò a lungo, fredda, attenta. Non vedeva solo la rabbia—vedevo la paura sotto: il terrore di fallire ancora una volta. Ed era proprio quella paura a renderlo davvero pericoloso.

Tacque qualche secondo, lasciandolo crogiolare in quella che lui scambiava per vittoria. Poi inclinò appena il capo.

«Va bene. Lo intestirò.»

Denis tirò un respiro soddisfatto, le spalle che si rilassavano. Stava già allungando la mano per darle una pacca da padrone benevolo, quando lei continuò, e le parole successive gelarono l’aria della cucina.

«Ma non a te. A mia madre. Domani.»

Gli passò accanto, prese il telefono dal tavolo. Le dita scivolarono rapide sullo schermo.

«E rifaremo anche il contratto d’affitto di quell’appartamento. Così potrai cercare i soldi per la tua attività da un’altra parte. Questa conversazione è chiusa.»

Si portò il telefono all’orecchio con fare ostentato, guardandolo fisso con uno sguardo duro come vetro. Lui rimase lì, immobile, e lentamente capì che no, quella non era la fine di una discussione. Era una dichiarazione di guerra.

Non si mosse. Fissava la schiena di Larisa, il telefono premuto all’orecchio, e il cervello lavorava furiosamente. L’attacco frontale era fallito. Il suo «ho deciso così», la sicurezza maschile, la pressione, si erano infranti contro la calma di lei. Si aspettava di tutto—lacrime, suppliche, drammi. Invece si ritrovava con un contrattacco elegante, freddo e umiliante. Lei non solo aveva detto di no—gli aveva appena dimostrato di avere una strategia, e che lui, Denis, non era altro che un ostacolo fastidioso.

La furia cieca si trasformò in calcolo. Capì che sfondare il muro non serviva. Lei aveva una difesa. Andava aggirata. Doveva colpirla dove non si sarebbe aspettata, o dove non avrebbe potuto difendersi.

Aspettò che finisse quella “telefonata” teatrale, e quando lei posò il telefono sul tavolo, lui uscì senza una parola dalla cucina. Andò in camera da letto, prese il suo cellulare e chiuse la porta dietro di sé con uno scatto secco.

Un’ora dopo, il campanello suonò. Non in modo violento, ma insistente. Larisa andò ad aprire. Sulla soglia c’era sua madre, Tamara Ivanovna. Non ancora anziana, il viso ben curato, quell’espressione premurosa che sembrava tatuata perenne. Indossava un cappotto costoso ma leggermente fuori moda, e stringeva la borsa come se dentro ci fossero importanti fascicoli.

«Ciao, tesoro. Denis mi ha chiamata subito dopo di te. Ha detto che qui si decide il tuo futuro. Sono venuta di corsa.»

Entrò portandosi dietro un buon profumo… e una nube di preoccupazione. Denis uscì immediatamente dalla camera. Sul volto un’aria di triste determinazione. Andò incontro alla suocera, le prese gentilmente il braccio e la accompagnò in salotto.

«Grazie di essere venuta, Tamara Ivanovna. Non sapevo più che fare. Larisa non vuole proprio ascoltarmi.»

Si sedettero sul divano, vicini vicini. Larisa rimase un attimo sulla soglia, osservando la scena. Una rappresentazione ben provata: Denis nel ruolo del marito frainteso e visionario, la madre in quello della salvatrice saggia della famiglia.

«Larochka, vieni, siediti qui con noi,» la chiamò la madre, picchiettando sulla seduta accanto a sé. La voce dolce, morbida, ma con sotto già una nota di rimprovero. «Denis mi ha raccontato tutto. Che ragazzo in gamba, pensa al futuro, vuole aprire un’attività. Un vero uomo, un sostegno. E tu?»

Larisa si avvicinò, ma scelse la poltrona di fronte. Nessuna voglia di sedersi in mezzo a loro, come imputata al processo.

«A Denis ho già detto tutto,» replicò, calma. «Il mio appartamento non si vende.»

Tamara Ivanovna sospirò teatralmente, scambiando col genero un’occhiata significativa.

«Figlia mia, non fare la bambina. Non è per lui, è per voi due. Per la famiglia. Un uomo ha bisogno di sentire che credono in lui. E tu ti attacchi a quattro mura. È solo un appartamento: oggi c’è, domani chissà. Ma un’attività solida è una base, un futuro. Denis non ti chiede di buttare via i soldi, vuole investirli nella famiglia.»

Le parole le aveva lucidata negli anni: frasi pronte, quelle che le madri ripetono alle figlie. Le riteneva inoppugnabili. Denis annuiva con convinzione, inserendosi a turno.

«È esattamente quello che le sto spiegando anche io, Tamara Ivanovna. Non siamo estranei. Siamo una squadra.»

Larisa li guardava, uno e l’altra. Il marito, così abile nel trascinare sua madre dalla propria parte. La madre, così pronta a schierarsi con il genero contro gli interessi della figlia, in nome del mitico “bene della famiglia” e dell’illusione del “bravo uomo d’affari”. Capì che l’ultimatum era solo il primo atto. Adesso era iniziato l’assedio. Lento, psicologico, condotto dalle due persone più vicine a lei. Si muovevano all’unisono, come partner esperti: lui con l’autorità e l’ambizione, lei con il ricatto affettuoso e la morale tradizionale. E in quel quadro, Larisa non era una persona da ascoltare, ma un ostacolo da convincere o schiacciare.

«Sai, Denis, mio marito, il padre di Larisa, diceva sempre: “Chi non risica non rosica”,» cominciò più tardi Tamara Ivanovna, a cena. Spalmava il burro sul pane, guardando il genero anziché la figlia. «Era all’antica, ma aveva capito che senza rischiare non si ottiene nulla.»

Denis annuì con gratitudine, raccogliendo il filo del discorso.

«È proprio quello che penso anch’io, Tamara Ivanovna. Non è un salto nel buio, è un passo calcolato. Ho valutato tutto, analizzato i rischi. Il mercato adesso è in crescita. Tra un anno e mezzo rideremo, ricordando i dubbi di Larisa.»

A tavola erano in tre, ma a parlare erano solo in due. Larisa era la terza, ma in esubero. Muoveva la forchetta nel piatto, mescolando il grano saraceno al sughetto della cotoletta. Non mangiava; metteva in scena il gesto del mangiare. Serviva loro da pubblico, da bersaglio silenzioso, da leva di pressione.

La permanenza della madre in casa diventò una tortura fatta di sorrisi e tazze di tè. Ogni giornata cominciava e finiva con lo stesso argomento, travestito in modi diversi. Al mattino, davanti al caffè, Tamara Ivanovna raccontava beata di come un’amica fosse volata alle Maldive «perché il genero è imprenditore, non ha paura di agire». Durante il giorno Denis proseguiva evidentemente il lavoro ai fianchi, perché la sera la suocera arrivava a nuove vette di entusiasmo.

«Pensavo,» diceva guardando il telegiornale, «quando arriveranno i soldi, per prima cosa sistemiamo la dacia. Scale nuove, sauna rimessa a posto. Andiamo tutti lì nei weekend, facciamo gli spiedini, riuniamo la famiglia.»

«Prima la macchina,» interveniva Denis, ma senza vera contraddizione, solo come rifinitura del progetto comune. «Con questo rottame non andiamo da nessuna parte. Ho già puntato un bel SUV tedesco, affidabile, spazioso. Perfetto per i viaggi di famiglia.»

Discutono del colore dell’auto, del tipo di barbecue, persino della razza del cane quando, grazie all’attività, si trasferiranno in una casa più grande. Parlano dei soldi della vendita del suo appartamento come se fossero già sul loro conto. Di Larisa, in quel futuro, non c’è traccia come persona. C’è solo la sua firma sui documenti.

Larisa smise di argomentare. Capì che qualunque cosa dicesse sarebbe stata girata contro di lei. La prudenza diventava egoismo, il buon senso diffidenza, il diritto di proprietà tradimento della “famiglia”. Cambiò strategia. Tacque. Ma non era un silenzio arrendevole: era il silenzio teso di un cecchino appostato. Non fa rumore, non si muove, ma osserva ogni minimo spostamento del bersaglio.

Ascoltava, memorizzava, metteva insieme i pezzi. Ogni frase, ogni occhiata complice scambiata sopra la sua testa diventava un mattoncino in più su un piatto della bilancia che pendeva sempre più decisamente da una parte.

Una sera, fu Denis a non sopportare più.

«Larisa, ma sei con noi o no? Qui stiamo facendo progetti per il futuro, tua madre si preoccupa per noi, e tu stai lì come se non ti toccasse.»

Lei alzò lo sguardo, piano. Gli occhi vuoti di emozione.

«E perché non dovrebbe riguardarmi? Sto ascoltando. È tutto… molto interessante.»

C’era talmente tanto disprezzo in quel “interessante” detto sottovoce che Denis rimase zitto. Tamara Ivanovna guardò la figlia, poi il genero. Sentì che qualcosa stava andando storto. La loro pressione non piegava la difesa, la induriva. L’aria nell’appartamento divenne pesante, appiccicosa. Carica di minacce taciute, di finta premura e di una resistenza silenziosa ma concentrata. L’assedio era al massimo. A loro bastava un’ultima spinta, pensavano, e la fortezza avrebbe ceduto.

Non capivano che la fortezza stava preparando il contrattacco.

La settimana d’assedio si concluse il sabato sera. Tamara Ivanovna tirò fuori dal forno la sua crostata di mele, e il profumo di cannella riempì l’appartamento, creando una finta sensazione di famiglia unita. Denis portò una bottiglia di vino costoso, che lui e la suocera stappavano come per celebrare in anticipo qualcosa.

Larisa era a tavola, in silenzio, a torturare con la forchetta un pezzetto di torta. Quel mutismo che per giorni avevano interpretato come capriccio ostinato, ora lo leggevano come resa. Avevano deciso che si era semplicemente stancata di lottare. Era il momento di chiudere la partita.

Denis riempì i bicchieri suo e della suocera, ignorando di proposito quello di Larisa. Sollevò il calice, guardò Tamara Ivanovna, poi piantò gli occhi sulla moglie con aria trionfante.

«Allora, Larisa. Direi che hai avuto tutto il tempo per pensarci. È ora di smetterla con questa testardaggine da bambina. Abbiamo avuto pazienza.»

Tamara Ivanovna intervenne con la sua voce zuccherata, grondante di falsa tenerezza.

«Amore, vogliamo solo il tuo bene. È tutto per il tuo futuro, per la tua felicità con Denis. È il momento di prendere una decisione seria, da adulta.»

Denis posò il bicchiere sul tavolo con un colpo secco. Si sporse in avanti, le mani aperte sul ripiano, lo sguardo conficcato negli occhi di lei. Il viso duro, sicuro di sé, che non ammetteva repliche.

Parlò lentamente, assaporando ogni parola, mettendoci dentro una settimana di irritazione e l’idea del trionfo imminente.

«Ti ho detto che il tuo secondo appartamento lo venderò, e così sarà. Quindi, tesoruccia, intestamelo con le buone.»

Nel silenzio che seguì, Larisa appoggiò con calma la forchetta nel piatto. Sollevò lo sguardo. Nei suoi occhi non c’era né paura né rabbia. Solo una lucidità glaciale.

«Va bene,» disse piano. «Ho già fatto tutto.»

Il sorriso sul volto di Denis si allargò, sicuro. Si appoggiò allo schienale, lanciando una rapida occhiata vittoriosa alla suocera. Tamara Ivanovna sospirò sollevata e le sorrise teneramente.

«Brava la mia ragazza! Lo sapevo che alla fine avresti ragionato.»

Larisa guardò sua madre come se la vedesse davvero per la prima volta.

«Sì. Ho intestato l’appartamento. Ieri. A te, mamma.»

Tamara Ivanovna si immobilizzò, poi il viso le si distese in un sorriso compiaciuto. Volse a Denis uno sguardo pieno di trionfo: ecco come si fa, non con le urla. Con l’autorità materna. Denis si rabbuiò per un istante—l’idea che l’appartamento non fosse a suo nome gli rodeva—ma si rilassò subito. In fondo, che importava? La suocera era totalmente dalla sua parte. Una formalità, si disse.

«C’è solo un piccolo dettaglio,» continuò Larisa, con lo stesso tono tranquillo. L’atmosfera nella stanza cambiò impercettibilmente. Tirò fuori dalla tasca dei pantaloni un foglio ripiegato e lo posò sul tavolo. «In quanto nuova proprietaria, mamma, puoi ovviamente disporre liberamente del tuo immobile. Così, ieri, in qualità di tua rappresentante, ho dato quell’appartamento in affitto. Questa è una copia del contratto.»

Denis e Tamara Ivanovna fissarono il foglio come se fosse scritto in una lingua straniera.

«Come sarebbe “dato in affitto”?» fu Denis il primo a riprendersi.

«Significa che lì adesso ci vive già una famiglia. Persone perbene. Il contratto è biennale. Hanno pagato tutto in anticipo, per i due anni. E noi non abbiamo il diritto di rescindere prima della scadenza. Qualsiasi tentativo di mandarli via prima comporterà una penale tripla. Una cifra che tu, mamma, non hai mai avuto e non avrai mai sui tuoi conti.»

Il sorriso si dissolse dal volto di Tamara Ivanovna. Guardò la figlia, poi il genero, senza capire appieno in che trappola fosse finita.

«Ma… i soldi…» balbettò Denis, la faccia che si colorava di rosso. «Dove sono i soldi dell’affitto?»

Fu allora che Larisa sferrò il colpo finale.

«I soldi? Li ho ricevuti in contanti. Tutto l’importo per due anni. E stamattina li ho messi in un posto sicuro, di cui nessuno dei due ha idea. Quindi per la tua attività, Denis, troverai i fondi altrove. Questa conversazione è chiusa.»

Cala un silenzio pesante. Si sentiva solo il ronzio del frigorifero. Il sorrisetto borioso di Denis si trasformò prima in smarrimento, poi in un furore muto. Tamara Ivanovna guardava la figlia con un misto di sgomento e tardiva lucidità. Si rese conto di essere stata solo una pedina nel gioco di tutti e due. Ma solo sua figlia aveva mosso i pezzi nella direzione giusta. Lei e Denis restavano con un bene che, nelle loro mani, era praticamente inutile.

Larisa si alzò da tavola. Non li guardò più. Indicò semplicemente il corridoio con un gesto.

«La porta è lì, se a qualcuno di voi non sta bene qualcosa. Non tratterrò nessuno. E se qualcosa non andrà più bene a me, uscirete tutti e due molto in fretta, perché anche questo appartamento è mio. Non appartiene né a te, Denis, né a te, mamma. Ah, quasi dimenticavo: quando ti ho intestato l’altro appartamento, ho fatto aggiungere una clausola. Non puoi venderlo per dieci anni. Se ci provi, ritorna automaticamente a me.»

Denis aprì la bocca per ribattere, ma le parole non arrivarono. L’idea che lui e la sua alleata potessero essere sbattuti fuori sul serio gli mise addosso una paura che non aveva mai provato.

Da quel momento, né lui né Tamara Ivanovna provarono più a mettere le mani sulle proprietà di Larisa—perché avevano finalmente capito una cosa semplice: con lei, giocare con le sue case significava giocarsi il tetto sulla propria testa.

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