La notte aveva inghiottito la città in una foschia densa e umida; nell’aria c’era quel freddo ovattato che soffoca ogni suono. Sull’avenue deserta, i lampioni spezzavano il buio in strisce irregolari di luce. Anna, chirurga, e suo marito Maksim stavano tornando a casa dopo una cena con amici. Proprio in quel silenzio sospeso, da dietro i cespugli di lillà lungo il vialetto arrivò un gemito sottile, netto come il trillo di un campanello.
— L’hai sentito? — chiese Anna, arrestando il passo.
— Sì — sbuffò Maksim, continuando a camminare senza voltarsi —. Sarà qualche ubriacone che è finito a terra. Andiamo, comincia pure a piovigginare.
Ma Anna aveva già lasciato il marciapiede. Scese sull’erba scivolosa, guidata da quell’automatismo che anni di ospedale le avevano inciso addosso: non voltare mai la faccia al dolore.
— Devo controllare — disse, decisa. — Potrebbe avere bisogno di aiuto.
— Perché devi sempre impicciarti di tutto? — sbottò Maksim, irritato. — Non sei in servizio. Smettila di fare la paladina. Andiamo, sono esausto.
Anna non rispose. Si fece largo tra i rami fradici finché, sull’erba bagnata, non vide un uomo accartocciato su se stesso, le mani premute sul fianco. La luce smorta della luna filtrava tra le foglie, illuminando una macchia scura che si allargava sul giubbotto. Si inginocchiò accanto a lui: le dita le si sporcarono subito di sangue caldo, denso. La ferita era profonda, un colpo di lama, con ogni probabilità.
— Chiama l’ambulanza! — gridò verso il sentiero, dove Maksim era rimasto con un’espressione disgustata stampata in faccia.
Lui si avvicinò controvoglia; nel suo sguardo non c’era traccia di paura o compassione, solo fastidio.
— Ecco, ci mancava — sibilò. — Adesso polizia, interrogatori, nottata in bianco. Ma chi te lo fa fare?
Si girò sui tacchi e se ne andò, lasciandola lì, nel buio, in ginocchio accanto a un uomo che stava sanguinando a morte. Fu allora che tra loro si aprì la prima crepa, profonda e insanabile.
— Piano, non si muova — mormorò Anna, con una calma che aveva affinato in sala operatoria. — Respiri lentamente. I soccorsi stanno arrivando. Se ne uscirà.
Era la stessa voce con cui, negli anni, aveva tenuto la mano a centinaia di pazienti alla vigilia di un intervento. L’uomo smise di lamentarsi; il respiro si fece più regolare. La fissava con una riconoscenza muta, quasi incredula. Quando in lontananza cominciò a farsi sentire la sirena, Anna si alzò di scatto e corse verso la strada per segnalare l’ambulanza.
La squadra scese dal mezzo con gesti rapidi, esperti.
— È con lui? — domandò un medico anziano, scendendo.
— No, l’ho trovato io — spiegò Anna. — Sono un medico anch’io, chirurga.
— Capito, collega. Non ha addosso nessun documento — disse l’uomo, dando un’occhiata al ferito. — Se può, passi domani in ospedale, in via Puškinskaja. Ci servirà la sua deposizione per la polizia.
— D’accordo, verrò — rispose Anna, senza esitare.
L’ambulanza scomparve nella notte, inghiottita dalla pioggia sottile, lasciandole addosso un silenzio pieno di ronzio. La casa era a pochi minuti, eppure procedeva a passi lenti, come se volesse rimandare il momento di rientrare. Il ricordo dello sguardo di Maksim, duro e annoiato, le bruciava dentro più del freddo che le aveva inzuppato il cappotto.
