La città era sprofondata in un buio denso, appiccicoso, come se le ombre avessero inghiottito ogni cosa. Il silenzio sembrava ovattato, pesante, rotto solo ogni tanto dal lontano ululato di un’ambulanza. Nei corridoi dell’ospedale, dove le pareti parevano trattenere il lamento di sofferenze antiche, stava montando una tempesta non meno feroce di quella che infuriava oltre i vetri. La notte non era solo carica di tensione: dava l’impressione di essere sul punto di strapparsi, come se il destino volesse misurare la resistenza di chi, lì dentro, vegliava sulla vita.
In sala operatoria, immersa nella luce fredda delle lampade scialitiche, Andrej Petrovič Sokolov — vent’anni di sala, scelte definitive e bisturi affilato — era ancora in trincea. Da tre ore non si staccava dal tavolo operatorio, contando il tempo non con l’orologio, ma con la sequenza precisa dei suoi gesti. Le sue mani si muovevano con una regolarità quasi meccanica, mentre lo sguardo restava lucidissimo, concentrato, come se vedesse non solo carne e vasi sanguigni, ma la linea sottilissima che separa la vita dalla fine. La stanchezza gli pesava addosso come un cappotto fradicio, eppure sapeva che il cedimento non era contemplato: ogni gesto, ogni pinza, ogni punto aveva il peso di una sentenza. Si asciugò la fronte con il dorso della mano, senza permettersi una pausa nella concentrazione. Al suo fianco, Marina — giovane infermiera, schiena eretta, nell’iride un tremito che cercava di domare — gli passava gli strumenti con la precisione di un rito, come se non prendesse in mano acciaio, ma occasioni di salvezza.
«Filo da sutura», disse Sokolov a bassa voce. Il tono, abituato a dare ordini, somigliava più a un comando rivolto al destino che a una richiesta ordinaria: resistere.
Sembrava che il peggio fosse alle spalle. Ancora qualche minuto e la paziente avrebbe oltrepassato il tratto più stretto del baratro. Proprio allora, le porte della sala si spalancarono con un colpo metallico. Inquadrata nella luce del corridoio, la caposala: il volto tirato, il respiro affannoso.
«Andrej Petrovič! D’urgenza. Donna incosciente, politrauma, sospetta emorragia interna.»
Sokolov non esitò. Lanciò un’occhiata all’assistente chirurgico.
«Finisci tu», disse, già sfilandosi i guanti.
«Marina, vieni con me.»
Il pronto soccorso ribolliva come un alveare in subbuglio: voci, ordini, passi affrettati, il tintinnio di metallo sui vassoi, l’odore penetrante dell’antisettico che graffiava le narici. Su una barella, una donna sulla trentina giaceva immobile, il corpo rigido in una posa innaturale, come una bambola mal rimessa insieme. La pelle, quasi cerata, era punteggiata di lividi che disegnavano una specie di codice brutale inciso con metodica cattiveria. Sokolov le si avvicinò con la cautela di chi entra in una zona di conflitto. Lo sguardo clinico scivolò sui dettagli con rapidità fredda. Quando parlò, la voce era ferma:
«Subito in sala operatoria. Preparate laparotomia. Tipizzazione del sangue, accesso venoso, avvisate la rianimazione. Muovetevi.»
«Chi l’ha portata?» chiese, senza staccare gli occhi dal corpo.
«Il marito», rispose la guardia. «Dice che è caduta dalle scale.»
Un cenno appena percettibile. Nel fondo degli occhi di Sokolov passò qualcosa, un lampo breve. Le scale non lasciano in eredità un quadro del genere: ematomi vecchi mescolati a quelli freschi, fratture già consolidate, segni che raccontavano una storia lunga; e quelle bruciature quasi simmetriche ai polsi, come da contatto prolungato con qualcosa di rovente. Sull’addome, sottili linee parallele che ricordavano più ferite d’arma che tagli accidentali. Non cadute. No. Qualcuno aveva fabbricato quel dolore.
Mezz’ora dopo, la donna era sul tavolo operatorio. Sokolov lavorava con la lucidità di un automa e la cocciutaggine di chi rifiuta di perdere la battaglia. Fermò l’emorragia, ripulì la cavità addominale, ricompose ciò che era stato strappato. A un certo punto la mano rallentò per un istante: oltre alle cicatrici, il corpo mostrava segni che sembravano quasi simboli, come se qualcuno avesse voluto cancellare la persona per sostituirla con un marchio.
«Marina», mormorò, senza distogliere lo sguardo, «quando finiamo fate avvisare il marito di aspettare in sala. E… chiamate la polizia. Senza dare nell’occhio.»
«Credete che…?» iniziò lei, titubante.
«A trarre conclusioni ci penseranno gli investigatori», la interruppe Sokolov. «Noi teniamo viva la paziente. Ma questo non è un incidente. E non è la prima volta. Qui c’è violenza. Prolungata. Calcolata.»
Scivolò via un’altra ora. Ogni minuto sembrava contare doppio. Alla fine, il tracciato cardiaco si stabilizzò. La vita era, per il momento, al riparo; l’anima, non ancora.
Nel corridoio, appena uscito dalla sala, Sokolov sentì la fatica abbattersi addosso in un colpo solo. Ad attenderlo c’era un giovane agente, taccuino alla mano, mascella serrata.
«Il capitano Lebedev è in arrivo», disse. «Che cosa può riferirmi?»
Il medico snocciolò i dati: emorragia interna, milza lacerata, traumi di epoca diversa, ustioni, tagli, fratture consolidate.
«Non è una caduta», concluse. «È tortura. Qualcuno l’ha distrutta un pezzo alla volta. E con tutta probabilità era la persona che avrebbe dovuto proteggerla.»
Poco dopo arrivò il capitano Lebedev. Giacca in ordine impeccabile, occhi taglienti, l’atteggiamento di chi sa leggere anche le pause tra le parole.
«La conoscete?» domandò.
«No», rispose Sokolov. «Ma senza l’intervento non avrebbe superato la notte. Il suo corpo è un archivio di dolore, ogni cicatrice una testimonianza.»
Lebedev annuì e si diresse verso il triage. Sokolov gli andò dietro, non per curiosità: ormai era coinvolto.
Nella sala d’attesa, un uomo biondo in un maglione grigio consumato passeggiava nervosamente avanti e indietro. Il volto mostrava apprensione, ma negli occhi brillava una freddezza vigile, di controllo.
«Mia moglie? Dov’è Anja?» esplose alla vista di Sokolov.
«Anna Viktorovna Klimova?» verificò Lebedev. «Siete il marito, Sergej Michajlovič?»
«Sì! Vi prego, ditemi che sta bene.»
«È in rianimazione, condizioni serie ma stabili», disse Sokolov, tagliando corto. «Che cos’è successo?»
«È caduta dalle scale», ribatté lui senza neppure pensarci, come se recitasse una frase imparata a memoria. «Ero in cucina, ho sentito un tonfo… quando sono arrivato lei era già svenuta.»
«E l’avete portata qui subito?» chiese Lebedev.
«Ovviamente! Che altro avrei dovuto fare?»
Sokolov lo osservava. L’atteggiamento del marito premuroso era perfetto, ma dietro, nello sguardo, c’era il riflesso di qualcuno abituato a dettare legge, a punire.
«Signor Klimov», intervenne il capitano, «sul corpo di vostra moglie ci sono lesioni vecchie e recenti. Ustioni, tagli, fratture. Come lo spiegate?»
Un attimo di esitazione appena percettibile, poi uno scatto:
«Anja è goffa. Cade spesso, si brucia mentre cucina, non sta attenta!»
«In cucina ci si ustiona con la stessa precisione sui due polsi?» gelò Sokolov. «E quei tagli sull’addome? Anche quelli, piccoli incidenti domestici?»
Il sangue gli abbandonò il viso. «Mi state accusando? Mia moglie è tra la vita e la morte e voi vi attaccate ai dettagli?!»
«Nessuno vi sta accusando», chiuse Lebedev. «Si sta accertando come stanno le cose.»
In quel momento comparve sulla soglia Marina:
«Dottore, la paziente ha ripreso conoscenza. Chiede del marito.»
Klimov si fece avanti di scatto.
«Vado da lei.»
«No», lo fermò Sokolov. «Soltanto con autorizzazione. Capitano, parlatene voi con lei. La verità è sua.»
In rianimazione, Anna giaceva pallida come il cuscino, i tubi che la cingevano come radici trasparenti. Aprì gli occhi con fatica.
«Sergej… è qui?» sussurrò.
«È fuori», rispose Sokolov. «Come vi sentite?»
«Mi fa male tutto… Sono… caduta, vero?»
Lebedev si presentò.
«Ricorda come si è fatta male, Anna Viktorovna?»
«Sono scivolata…» mormorò, esitando. «Sergej mi ripete sempre di stare attenta…»
«E le ustioni ai polsi?» insistette il capitano. «Anche quelle per distrazione ai fornelli?»
Nei suoi occhi passò un’ombra leggera ma netta di panico.
«Sono… sbadata. Mi succede spesso…»
Sokolov smorzò la voce.
«Abbiamo davanti il vostro quadro clinico. Non è sfortuna. Non è maldestrezza. Qualcuno vi ha fatto tutto questo. Possiamo aiutarvi, ma abbiamo bisogno che ce lo diciate.»
Le lacrime le solcarono le guance.
«Se parlo… sarà peggio.»
«Vi ha minacciata?» domandò piano Lebedev.
Rispose solo il pianto.
«Possiamo garantirvi protezione», disse il capitano. «Ma ci serve la vostra denuncia. Senza, quando uscirete da qui, tutto ricomincerà.»
«Non è… sempre così», sussurrò. «A volte è gentile. Poi… si spezza. Come se qualcosa in lui si rompesse.»
«Da quanto va avanti?» chiese ancora.
«Quasi un anno. Da quando ho perso il lavoro. Ha detto che dipendo da lui. Che devo essere impeccabile.»
All’improvviso la porta si spalancò. Klimov irruppe nella stanza.
«Anja! Stavo impazzendo dalla paura!»
«Fuori», lo bloccò Lebedev. «Stiamo raccogliendo dichiarazioni.»
«Con quale autorità? Sono suo marito!» sbraitò l’uomo.
«Con quella della legge», ribatté il capitano. «E ho seri motivi per sospettare un reato.»
Klimov impallidì, poi esplose:
«Che cosa hai raccontato, eh? Te ne pentirai amaramente!»
Anna lo fissò, terrorizzata. Nello sguardo non c’era traccia d’amore, solo la consapevolezza nuda della paura.
«Non ce la faccio più, Sergej… Ho paura di te… Ogni sera non so chi entra da quella porta: mio marito o il mostro. Mi dicevi che non valgo niente, che nessuno mi prenderebbe sul serio…»
Lui provò a gettarsi verso di lei. Lebedev fu più rapido: lo bloccò con un gesto secco e gli serrò i polsi nelle manette.
«Siete in arresto per gravi lesioni personali», dichiarò. «Avete il diritto di rimanere in silenzio.»
Quando lo trascinarono fuori, Anna scoppiò a piangere, ma non per il dolore fisico: era il pianto di chi, per la prima volta dopo molto tempo, intravede uno spiraglio.
«Grazie», mormorò. «Avevo dimenticato cosa significa sentirsi al sicuro.»
Sokolov le posò una mano sulla spalla.
«Avete fatto la scelta giusta. Adesso pensate solo a riposare.»
«E dopo?» chiese lei, con un filo di voce. «Non ho nessuno…»
«Esistono centri specializzati», spiegò lui. «Psicologi, avvocati, case protette. Non sarete lasciata sola.»
«E se lui tornasse?» insistette.
«Con la vostra testimonianza e i nostri referti medici resterà lontano per molto tempo. E un ordine di protezione farà il resto.»
Una settimana più tardi, quando Sokolov entrò in reparto, trovò accanto al letto di Anna una donna anziana. Si tenevano la mano come se non avessero intenzione di lasciarla più. Sul volto di Anna, per la prima volta, c’era un sorriso che non doveva nulla agli analgesici.
«Dottore, lei è mia madre», disse Anna con un filo di orgoglio. «Mi riporta a casa.»
«Ne sono davvero lieto», rispose Sokolov. «È come svegliarsi da un incubo lungo un anno.»
La madre gli tese la mano, stringendogliela con forza.
«Ha salvato mia figlia due volte: dalla morte e da un inferno che non immaginavo.»
«Ho solo guardato con un po’ più di attenzione», rispose lui. «A volte basta fermarsi a vedere ciò che gli altri scelgono di non notare, e una vita prende un’altra direzione.»
Quella sera, uscendo dall’ospedale sotto un cielo finalmente limpido, costellato di stelle, Sokolov si chiese quante altre donne stessero ancora zittendo le proprie ferite, quante vivessero in una paura che nessun referto raccontava. E capì che ogni volta che un medico ascolta non solo il corpo, ma anche ciò che lo abita, non si limita a curare: restituisce respiro. Forse è proprio questa, pensò, la forma più alta di medicina.
