Per otto anni ho riordinato il suo ufficio, in silenzio. Lui non ha mai sospettato che quella donna con il panno in mano fosse la madre del ragazzo che aveva lasciato ai tempi del liceo.

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Mi chiamo Lucia, e per anni ho passato la scopa sul pavimento dell’ufficio di un uomo che non ha mai saputo che il suo più grande errore aveva un nome, un volto e una tomba.

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Avevo diciassette anni quando scoprii di essere incinta. Era l’ultimo anno di liceo a Enugu. Sognavo soltanto di finire la scuola, trovare un lavoro dignitoso e regalarmi una vita diversa da quella dei miei genitori: mio padre aggiustava scarpe in una bottega stretta, mia madre vendeva banane al mercato, sempre in piedi, sempre con la schiena piegata.

Lui era Nonso Okoye, il mio compagno di banco: intelligente, brillante, sicuro di sé. Apparteneva a una famiglia benestante, abituata a sedersi in prima fila in chiesa e a parlare a bassa voce, come se il mondo fosse loro. Io, con l’uniforme sempre un po’ lisa e le scarpe consumate, mi sentivo piccola anche quando sorrideva solo a me.

Il giorno in cui gli dissi che aspettavo un bambino, restò in silenzio a fissarmi, come se le parole non fossero arrivate alle orecchie ma solo ai suoi timori.

— Sei sicura? — riuscì finalmente a mormorare.

— Non sono stata con nessun altro, Nonso, — risposi. — È tuo.

Da quel momento smise di parlarmi. Non litigò, non urlò. Semplicemente, sparì. Pochi giorni dopo seppi che i suoi genitori lo avevano mandato a studiare nel Regno Unito. Io rimasi con il mio segreto e una paura che cresceva insieme alla pancia.

Una mattina, mia madre trovò la lettera del medico nel mio zaino.

— Vuoi coprirci di vergogna? — urlò, stringendo il foglio tra le mani. — Vai a cercare il padre!

— Mamma, non ho dove andare… — sussurrai.

Il suo sguardo si fece duro, come se io non fossi più sua figlia ma un peso.

— Allora vattene. In questa casa non c’è posto per le peccatrici.

Fu così che mi ritrovai sola. La pancia cresceva; la paura, ancora di più. Dormivo dove capitava: in case in costruzione, su teli di plastica stesi a terra, con i cani che abbaiavano in lontananza. Di giorno lavavo panni per la gente del quartiere, vendevo arance al mercato, qualunque cosa pur di non morire di fame.

Quando arrivò il momento del parto, non avevo letto, né stanza, né letto pulito. Partorii sotto un albero di mango, dietro la baracca della levatrice, Doña Estela.

— Resisti, piccola, ci siamo, — mi sussurrava, asciugandomi il sudore dalla fronte con un fazzoletto già umido.

Il bambino venne al mondo in silenzio, tra i miei pugni serrati e il fruscio delle foglie.

— Come lo chiamerai? — chiese lei, avvolgendolo in una copertina logora ma pulita.

— Chidera, — sussurrai. — Perché ciò che Dio ha scritto, nessuno può cancellarlo.

Da quel giorno iniziò la vera battaglia. Io e Chidera dividevamo materassi presi in prestito, stanze affollate, zanzare e notti in cui lo stomaco bruciava per la fame. Cresceva magro ma con occhi grandi e curiosi, come se il mondo avesse ancora qualcosa di buono da offrirgli.

Una sera, quando aveva sei anni, mi guardò serio, stringendo la mia mano:

— Mamma, dov’è il mio papà?

Mi si fermò il respiro.

— È andato lontano, amore. Ma un giorno tornerà.

— E perché non chiama?

Abbassai gli occhi.

— Forse si è perso.

Ma la verità era che non tornò mai. E quello smarrimento era voluto.

Quando Chidera compì nove anni, iniziò a stare male: febbre che andava e veniva, tosse, stanchezza che gli spegneva il sorriso.

Il medico fu chiaro:

— L’operazione è semplice, ma servono sessantamila naira.

Sessantamila. Per me era come dire “una montagna intera”.

Vendetti il poco che avevo: l’anello che mia madre mi aveva lasciato, la radio che ci teneva compagnia nelle notti troppo lunghe. Presi denaro a prestito, lavorai fino allo sfinimento. Non bastò.

Il giorno in cui Chidera se ne andò, il mondo non fece rumore. Fu un silenzio spesso, insopportabile. Lo seppellii da sola, con tra le mani una foto strappata di suo padre e una coperta blu.

— Perdonami, figlio mio, — sussurrai sulla terra fresca. — Non ti ho saputo salvare.

Cinque anni dopo, con le ossa ancora stanche e il cuore ancora rotto, mi trasferii a Lagos per ricominciare daccapo. Alla G4 Holdings, una società tecnologica di Victoria Island, mi presero come addetta alle pulizie.

— Divisa marrone. Turno di notte. Niente chiacchiere con i dirigenti: tu pulisci e basta, — mi spiegò il supervisore, porgendomi il badge.

Al settimo piano c’era un ufficio diverso dagli altri: maniglie dorate, moquette che attutiva i passi, vetro ovunque. Sulla targa c’era scritto: “Mr. Nonso Okoye, Chief Executive Officer”.

Mi si gelò il sangue. Le mani iniziarono a tremare attorno al mocio.

— Non può essere… — mormorai.

Ma era lui.

Nonso era cambiato: più alto, spalle larghe, completi costosi, un profumo straniero che riempiva la stanza ancor prima che lui entrasse. Ma lo sguardo era lo stesso: sicuro, affilato, come quello di chi è abituato ad ottenere sempre ciò che vuole.

Ogni notte mettevo ordine nel suo regno di vetro. Allineavo le penne, lucidavo il tavolo, passavo il panno sullo schermo, svuotavo il cestino pieno di fogli stropicciati e di bicchieri di caffè dimenticati a metà.

Lui passava accanto a me senza vedermi. E se mi vedeva, mi considerava parte dell’arredamento.

Una sera, mentre sparecchiavo la sua scrivania, il mio badge scivolò a terra. Si chinò a raccoglierlo.

— Il tuo nome mi suona familiare, — disse, osservandolo. — Hai mai vissuto a Enugu?

Trattenni il respiro, poi sorrisi appena.

— No, signore.

Mi fissò per un istante, poi scrollò le spalle e tornò al portatile. Io tornai invisibile.

Quella stessa notte, mentre lavavo il pavimento della sala riunioni, lo sentii ridere con alcuni colleghi.

— Una volta misi incinta una ragazza al liceo, — disse, come se stesse raccontando una bravata adolescenziale. — Diceva che fosse mio. Le ragazze povere si inventano di tutto per tirarsi fuori dalla miseria.

Le risate esplosero, leggere, complici.

Il mocio mi cadde dalle mani. Corsi in bagno e piansi in silenzio, appoggiata al lavandino, fino a non avere più lacrime.

Quella notte, con le mani che tremavano, scrissi una lettera su un foglio di quaderno:

“Non so se ti ricordi di me, ma io non ti ho dimenticato. Ti ho rivisto in ogni respiro spezzato di nostro figlio, in ogni sua notte di febbre. Non sei mai tornato. Io, invece, ho continuato a pulire: prima il disordine della mia vita, ora la polvere del tuo ufficio.”

La piegai con cura, la misi in una busta e la infilai sotto la sua tazza, al centro della scrivania.

Il giorno dopo chiesi il trasferimento a un altro piano. Non potevo più reggere l’idea di vederlo, di sentirne la voce, di raccogliere dal cestino l’ennesimo foglio che lui aveva deciso non gli servisse più.

Passarono due settimane. Una sera, qualcuno bussò alla porta del mio piccolo alloggio. Aprii e vidi una donna in tailleur bianco, i tratti simili a quelli di Nonso, ma lo sguardo più morbido.

— Sei Lucia? — mi chiese.

— Sì, signora.

— Sono la sorella maggiore di Nonso.

Le parole mi si bloccarono in gola.

— Ha letto la tua lettera, — continuò. — Ha pianto, Lucia. Non sapeva niente. I nostri genitori gli dissero che avevi abortito, che non volevi “rovinargli il futuro”.

Senti il sangue pulsarmi nelle tempie.

— No, — risposi. — Nostro figlio si chiamava Chidera. Ha vissuto nove anni. È morto aspettando suo padre.

Lei si portò un fazzoletto agli occhi.

— Nonso è andato al cimitero. Ha trovato la sua tomba. Vuole vederti. Non solo per chiederti scusa, ma per fare qualcosa. Per riparare, per quanto possibile.

Accettai di incontrarlo. Scegliemmo lo stesso luogo in cui mio figlio era nato: sotto l’albero di mango, accanto alla piccola tomba con una croce semplice.

Arrivò in silenzio, senza scorta, senza auto di lusso in vista. Aveva le spalle curve, lo sguardo stanco.

— Lucia… — disse piano.

— Non dire niente, — lo fermai.

Si inginocchiò davanti alla lapide e crollò. Lo vidi piangere come un bambino, le mani affondate nella terra.

— Perdonami, figlio mio, — sussurrò. — Non sei mai stato un errore.

Piantammo insieme un giovane albero accanto alla tomba: un germoglio sottile, fragile e ostinato.

— Che cosa avresti voluto per Chidera? — mi chiese Nonso, con la voce rotta.

Lo guardai.

— Che diventasse un brav’uomo, — risposi. — Come quello che puoi ancora scegliere di essere.

Da quel giorno qualcosa in lui cambiò davvero. Non fu solo un pianto al cimitero e una frase commossa. Mise mano alle sue risorse, al suo potere, al suo nome.

Finanziò la costruzione di una scuola per ragazze espulse di casa a causa di una gravidanza. La chiamò “Casa di Chidera”.

— Nessuna ragazza dovrebbe passare ciò che hai passato tu, — mi disse, invitandomi a visitare l’edificio.

La scuola non è lussuosa, ma è piena di luce e di voci. Le pareti odorano di vernice nuova, i banchi sono semplici, le sedie scricchiolano appena. Su un muro c’è un murale: una madre che solleva un bambino verso il cielo.

Ogni mese Nonso mi manda un assegno. Non l’ho mai chiesto.

— Non è carità, Lucia, — ripete. — È il minimo che possa fare. È giustizia.

Io continuo a vivere con poco. Cucino per la gente, stendo i panni sui fili tesi tra le baracche, passo la scopa dove serve. Ma adesso, la notte, dormo. La vergogna che mi soffocava da ragazza ha smesso di parlare più forte della mia voce.

Ho raccontato la mia storia. Finalmente qualcuno l’ha ascoltata.

Quando cammino nel cortile della scuola e vedo le ragazze con i quaderni stretti al petto, mi rendo conto di quanto cammino ho fatto, a piedi nudi e con il cuore a pezzi. Una di loro, con lunghe trecce e un sorriso timido, mi si avvicina.

— Sei la mamma di Chidera? — mi chiede.

Sorrido.

— Sì. Perché?

— Vorrei diventare come te: forte, anche quando ho paura.

La abbraccio, sentendo le sue spalle ossute sotto la maglietta.

— Lo sei già, — le dico. — Devi solo imparare a crederci.

Di tanto in tanto Nonso mi chiama per chiedere come vanno le cose a scuola. Non parla più come l’uomo che credeva che il mondo gli fosse dovuto. Parla piano, ascolta molto.

— Grazie, Lucia, — dice. — Per avermi dato una seconda possibilità di essere padre, anche se per altri figli.

Nella sala principale c’è una targa appesa al muro:

“Casa di Chidera. Perché nessuna madre debba pulire nella solitudine e nessun bambino resti invisibile.”

Non so se riuscirò mai a perdonare del tutto. Ci sono ferite che smettono di sanguinare ma continuano a far male quando cambia il tempo. Però il silenzio non è più la mia casa.

Quando spazzo il cortile della scuola, lo faccio a testa alta.

Ho capito che a volte la polvere che togli da terra è la stessa che hai ingoiato per sopravvivere. Ma se trovi il coraggio di raccontare la tua storia, quella polvere diventa seme.

E da quel seme possono crescere alberi abbastanza grandi da dare ombra anche agli altri.

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