L’amante di mio marito è rimasta incinta. Un giorno la sua famiglia si è presentata al completo a casa mia per dirmi in faccia che dovevo divorziare e farle posto. Io ho sorriso, ho pronunciato una sola frase e li ho visti impallidire tutti e sei. Più tardi sono arrivate le scuse, ma a quel punto era già finita.
Io e Nam siamo stati insieme due anni prima di sposarci. All’inizio era un uomo tranquillo, lineare, onesto fino all’eccesso, o almeno così mi sembrava. Mi sentivo davvero fortunata. Le nostre nozze sono state benedette da entrambe le famiglie; mia madre, come regalo, ci ha comprato una casa a tre piani, intestata soltanto a me: i risparmi di tutta la sua vita.
All’inizio mi impegnavo in ogni modo per far funzionare la nostra piccola famiglia. Lavoravo in banca, uscivo presto e rientravo tardi, e spesso non avevo tempo per cucinare come avrebbe voluto mia suocera, la signora Nhan. Lei non sopportava questo mio stile di vita. Brontolava, criticava, lasciava frecciatine. Io però non le portavo rancore: cercavo, nel mio piccolo, di adattarmi in silenzio.
Poi, un giorno, tutto si è ribaltato.
Nam è tornato a casa con un’espressione che non gli avevo mai visto. Mi ha detto che dovevamo parlare. Mi sono seduta, con la sensazione che lo stomaco mi cadesse a terra.
«Mi dispiace… ho un’altra donna. E aspetta un bambino.»
Per qualche secondo ho pensato di aver frainteso. Mi si è chiuso il petto, ma la cosa che ha fatto più male è stata la sua calma, il tono freddo, come se stesse discutendo un semplice fascicolo di lavoro.
Una settimana dopo, nella mia casa, si sono presentati in sei: Nam, i suoi genitori, sua sorella, suo fratello e la ragazza incinta, seduti comodamente nel mio salotto, nella casa comprata da mia madre.
Ha iniziato mia suocera, con aria da giudice:
«Figlia mia, ormai quello che è fatto è fatto. Le donne non dovrebbero complicarsi la vita. Lei è incinta, ha bisogno di una posizione, di uno status. Tu dovresti farti da parte, per evitare problemi a tutti.»
In tutto quel discorso non c’era nemmeno un accenno a me come persona. Nessuno che chiedesse come stessi, nessun rispetto per il mio ruolo di moglie. Contava solo il bambino, il futuro “nipotino”.
Mia cognata ha aggiunto, quasi seccata:
«Tu non hai figli. Lui sì, adesso. Quindi non trattenerlo. Facciamo le cose per bene, così in futuro potremo anche continuare a vederci.»
Ho posato lo sguardo sulla ragazza: giovane, curata, una mano appoggiata sul ventre, e nemmeno un briciolo di imbarazzo. Ha abbassato un po’ la testa e ha detto con voce dolce:
«Non voglio ferire nessuno. Ma ci amiamo. Spero che mi permetterai di diventare sua moglie e una madre con un titolo.»
È stato in quel momento che ho sorriso. Non per follia o disperazione, ma perché all’improvviso tutto mi è apparso chiarissimo.
Mi sono alzata, ho preso un bicchiere d’acqua, l’ho appoggiato sul tavolo e ho detto, con calma assoluta:
«Se avete finito, adesso tocca a me: per favore, tutti e sei… fuori da casa mia.»
La stanza è piombata nel silenzio.
Mia suocera è diventata di cera. Mio suocero ha indurito i lineamenti. Mia cognata ha spalancato la bocca senza riuscire a dire una parola. Nam ha balbettato:
«Cosa… hai detto?»
L’ho fissato senza abbassare gli occhi:
«Tu mi hai tradita e ora hai portato la tua amante qui per reclamarle un posto. Ma questa casa è proprietà privata. Mia. Nessuno può cacciarmi. Se pensi che lei meriti più di me, accomodati pure… ma non qui dentro.»
Non se l’aspettavano. Si immaginavano pianti, suppliche, o nel migliore dei casi che mi facessi da parte in silenzio per non “rovinare la festa”.
Li ho guardati uno per uno e ho proseguito:
«Domani stesso contatterò un avvocato. Un marito infedele non lo tengo. E nessuno mi butterà fuori dalla casa che mia madre ha pagato con i sacrifici di una vita. Se volete il divorzio, va bene. Ma la responsabilità è vostra. Io non “libero il posto” a nessuno.»
La ragazza ha abbassato gli occhi. Mia suocera ha provato ad addolcire il tono:
«Cara… scusami, forse ho esagerato…»
E mia cognata ha sussurrato:
«Capita a tutti di sbagliare…»
Le stesse persone che un minuto prima mi ordinavano di farmi da parte, adesso annaspavano, cercando di correggere il tiro.
Dopo quella sera, Nam ha preso le sue cose ed è andato via. Ho firmato il divorzio senza chiedere niente, tranne di tenere la casa. Ma il vero patrimonio non era l’immobile: era il rispetto che avevo ritrovato per me stessa e la lucidità con cui vedevo finalmente tutto.
Non provo odio. Anzi, in un certo senso sono grata a quell’umiliazione: è stato uno schiaffo che mi ha svegliata. Sono ripartita da zero, più leggera, lontana da chi pensa solo alla propria convenienza.
Quanto a loro, quelle sei persone sedute sul mio divano, sono sicura che non dimenticheranno mai quella frase:
«Per favore, fuori dalla mia casa.»
Era semplice, ma è bastata a ricordare che i sacrifici degli altri non sono un tappeto su cui passare e ripulirsi i piedi senza conseguenze.
