A scuola lo prendevano in giro per le magliette sbiadite e le scarpe ormai alla frutta, e nessuno avrebbe mai potuto immaginare che, la sera del ballo di fine anno, sarebbe arrivato così elegante da essere quasi irriconoscibile.

0
49

Nell’aula regnava un silenzio denso. Gli studenti, curvi sui banchi, riempivano le pagine del compito con aria concentrata. Albina Romanovna, l’insegnante, camminava avanti e indietro davanti alla lavagna, controllando ogni banco con sguardo vigile.

Advertisements

Un colpo deciso alla porta ruppe la quiete; la donna uscì nel corridoio per vedere chi fosse, chiudendosi la porta alle spalle.

— Ehi, Tarasov! — una voce insolente rimbalzò dal primo banco. — Allora, i barboni hanno già fatto colletta per comprarti lo smoking del ballo?

Era Genka Rod’kin. In classe esplose una risata cattiva.

— Magari lo smoking non è alla misura del nostro Tarasov — sussurrò Lena Timohina, scatenando un’altra ondata di sghignazzi.

Vova Tarasov rimase chino sul quaderno, lo sguardo incollato alle righe. Sentiva la faccia bruciare. Che poteva rispondere a un coro del genere? Non aveva forza né parole. Avrebbe voluto alzarsi e sparire, ma non poteva: Albina Romanovna gli avrebbe scritto una nota sul diario, e a casa… a casa sua madre l’avrebbe fatto a pezzi. Meglio tacere e ingoiare anche quella.
Tanto, si ripeteva, l’anno scolastico era quasi finito, le vacanze estive dietro l’angolo: presto tutto questo sarebbe rimasto nel passato. Si aggrappò a quel pensiero e tornò a scrivere. Per fortuna con lo studio se la cavava: se fosse stato anche scarso a scuola, l’avrebbero distrutto del tutto. A un somaro, si sa, non si perdona niente.

Poco dopo la porta si aprì: la professoressa rientrò in classe e il brusio morì di colpo. La temevano tutti. Era severa, inflessibile, e bastava poco perché chiamasse i genitori dal preside, abbassasse il voto o, peggio, ti marchiasse mentalmente come uno dei “non graditi”. Nessuno voleva finire in quella categoria.

La campanella arrivò come una liberazione. Vova buttò giù le ultime frasi, consegnò il quaderno sulla cattedra, si infilò lo zaino sfilacciato sulla spalla e uscì rapido, cercando di non incrociare sguardi né commenti. Di tipi come Rod’kin ce n’erano fin troppi al mondo.

Più si avvicinava a casa, più le gambe gli diventavano molli. Sapeva già cosa lo aspettava: la solita scenata, le urla, forse la cintura. A volte fantasticava di prendere un treno per il posto più lontano sulla carta geografica. Probabilmente sua madre era di nuovo ubriaca: succedeva spesso. In casa, caos perenne: ospiti mezzi sbronzi, musica alta, piatti sporchi ovunque, fumo stagnante. Quando Olya, sua madre, aveva bevuto, diventava cattiva. Bastava una parola di troppo e la cintura volava giù dal chiodo.
Raccontarlo a qualcuno? Gli sembrava una vergogna indicibile. E poi chissà, lo avrebbero mandado in orfanotrofio. Meglio resistere, stringere i denti: mancava poco alla maggiore età, poi avrebbe trovato un lavoro e se la sarebbe cavata da solo. Era il suo sogno segreto.

Pensava spesso che, se non girasse vestito di stracci, forse a scuola lo lascerebbero in pace. Aveva imparato almeno a lavarsi i vestiti da solo: sua madre non ci faceva caso. Olya girava per casa con un vecchio accappatoio consunto, i capelli arruffati, lo sguardo spento; le rughe, troppo presto, le scavavano il viso. I vicini la incrociavano sulle scale e scuotevano la testa: «Inaffidabile», borbottavano.

Appena aprì la porta, lo investì un frastuono di voci e risate provenienti dalla cucina: uomini e donne, bicchieri che tintinnavano, odore di fritto bruciacchiato e vodka. Un’altra “festa”. Di lui, come sempre, nessuno si curava.
Il ballo di fine anno si avvicinava e Vova avrebbe voluto almeno non sfigurare, ma non aveva niente: niente abito, niente camicia decente, niente scarpe eleganti. Quel poco che riusciva a comprare di cibo, spariva invariabilmente nei piatti degli ospiti di sua madre.

Lasciò lo zaino nella sua stanza e sgattaiolò in giardino. Le fragole erano ancora acerbe, verdi, ma la fame non gliene importava molto.

— Hai fame, vero? — la voce della vicina, la signora Nadja, arrivò oltre la rete.

— Buonasera — mormorò Vova, arrossendo.

— Vieni da me — propose lei. — Ti preparo qualcosa. Niente storie: ho frittelle con marmellata e panna acida. Quelle fragole acerbe ti rovineranno lo stomaco.

Lui esitò appena, poi cedette: la fame vinse sulla vergogna.

— Ecco qui, mangia — disse Nadja, poggiando davanti a lui un piatto colmo. — Se sapessi quante volte ho provato a parlare con tua madre… Tu vai a scuola a stomaco vuoto e lei riempie casa di bevitori. E ti porta via persino i soldi!

Vova tenne gli occhi bassi, le orecchie che gli bruciavano per l’imbarazzo.

— Hai finito? — chiese la donna, vedendo il piatto vuoto e lucido.

Lui annuì.

— Grazie mille… davvero.

— Figurati — rispose lei, con un sorriso triste. — Se ti viene ancora fame, passa pure. Domani faccio il borscht, ceniamo insieme.

Quella sera rientrò in casa sfinito e si buttò sul letto per un breve sonno agitato. Sognò di quando aveva dieci anni: il luna park, le risate, mamma e papà che lo spingevano sull’altalena, il gelato al burro e cioccolato che gli colava sulle dita, i palloncini colorati. Poi il ritorno in macchina.

— Papà, non hai la cintura — gli aveva fatto notare dal sedile posteriore.

— Ma sì, sono solo due isolati — aveva riso il padre, guardandolo dallo specchietto.

Non arrivarono mai a casa. Un camion, una curva, uno schianto. Suo padre morì sul colpo. Si salvarono solo Olya e Vova. Lei pianse a lungo, all’inizio. Non aveva mai toccato alcol. Poi la bottiglia divenne il suo bastone, il suo rifugio, la sua condanna.
All’inizio lavorava ancora, si occupava del figlio. Poi il vuoto l’aveva divorata lentamente: il lavoro, la cura di casa, il ruolo di madre. Tutto sgretolato. Vova non avrebbe mai pensato che la vita potesse diventare così dura.

Quella notte lo svegliarono le urla e le canzoni stonate provenienti dalla cucina. Lui si mise le mani tra i capelli, poi si alzò, prese i libri e si mise a studiare: il giorno dopo lo attendeva un’altra verifica. L’estate era vicina, gli altri ragazzi del quartiere passavano ore a giocare a calcio; lui ogni tanto si univa, ma con moderazione: prima lo studio.
Terminato di ripassare, uscì di soppiatto. Se qualcuno della “compagnia” della madre l’avesse visto, l’avrebbero mandato di corsa a comprare un’altra bottiglia. Dopo la partita con i ragazzi, gli tornarono in mente le parole di nonna Nadja e andò da lei.

La vicina lo trattava come un nipote: lui la aiutava in giardino e in casa, lei lo nutriva e lo accudiva per quanto poteva. Aveva anche pensato di rivolgersi ai servizi sociali, ma alla fine aveva capito che nessuno si sarebbe preso cura di lui come cercava di fare lei.

— Grazie — disse Vova, pulendo il piatto fino all’ultima goccia di borscht. — Era buonissimo.

— Di niente — rispose lei. Lo osservò un istante e poi aggiunse: — Senti, so che ti servono soldi, giusto?

— In che senso? — chiese lui, irrigidendosi.

— Hanno aperto un autolavaggio qui vicino. Conosco il proprietario. Gli ho parlato di te: se ci vai, forse ti prende. Con il ballo alle porte, un po’ di soldi extra possono fare la differenza.

Gli occhi di Vova si illuminarono. In un paese come il loro, trovare lavoro era quasi un miracolo.

— Davvero?

— Vai domattina presto — lo incoraggiò lei —, poi corri a scuola, e al pomeriggio torni. Vedrai che ce la fai.

Il giorno dopo, finite le lezioni, Vova si presentò all’autolavaggio.

— Tu sei Tarasov? — chiese il caposquadra.

— Sì, sono io.

— Bene. Cominci subito. Questi sono i prodotti. Sai lavare le auto come si deve?

— Con mio padre lo facevamo sempre — rispose Vova.

Il lavoro gli venne naturale. I clienti erano soddisfatti, qualcuno gli lasciava anche una mancia. Per la prima volta da tanto tempo non sentiva lo stomaco brontolare. Poteva perfino mettere da parte qualcosa e aiutare nonna Nadja.

Quel giorno tornò a casa con un sacchetto di spesa. Olya lo aspettava, lo sguardo duro, le pupille lucide.

— Dov’eri? — gli ringhiò addosso, strappandogli il sacchetto dalle mani.

— Non sono affari tuoi — le sfuggì.

— Ah, sì? Kostik! — urlò verso la cucina.

Un tipo uscì barcollando e iniziò a rovistare nella busta. Vova non reagì: se avesse tentato di fermarlo, sarebbe finito a terra tra calci e pugni. Scappò di nuovo da Nadja, con un nodo in gola.

— È una vergogna — sbottò la donna quando lui le raccontò tutto. — Hai lavorato tutto il giorno e ti hanno portato via tutto. La prossima volta i soldi li tiengo io per te. Qui non te li tocca nessuno.

Vova non riuscì a trattenersi: scoppiò a piangere. Anni di umiliazioni e paura gli scesero giù sulle guance.

I giorni passarono, arrivarono gli esami finali e il ballo cominciò a farsi sempre più vicino. Grazie all’autolavaggio Vova aveva messo da parte una bella somma. Il caposquadra, vedendo quanto fosse serio e puntuale, gli concedeva permessi quando ne aveva bisogno.

Alla vigilia del ballo, l’uomo lo chiamò:

— Vov, è appena arrivato uno con una Jeep. Lavagliela in fretta, se no ci fa il sermone. E Vit’ka oggi ha pensato bene di non presentarsi.

Vova si mise al lavoro. Il proprietario della Jeep, in giacca grigia, non smise un attimo di parlare al telefono.
Terminato il lavaggio, l’uomo tirò fuori un mazzetto di banconote.

— Ottimo lavoro! — disse. — Non pensavo facessi così in fretta. Questo è un extra.

— Grazie! — fece Vova, tirando un sospiro di sollievo.

— Aspetta un attimo… — l’uomo aggrottò la fronte. — Io ti conosco. Sei il figlio di Andrej Tarasov, vero?

Vova annuì, sorpreso.

— Allora stasera vieni a cena con me — propose l’uomo. — Vado in un buon ristorante, e non voglio che rifiuti.

— Non posso… — esitò Vova. — Ho promesso a nonna Nadja che l’avrei aiutata.

— Conosco bene anche lei — sorrise l’uomo. — Dopo passiamo insieme da lei e glielo spiego.

Si chiamava Edik. Un vecchio amico di suo padre: se l’incidente non fosse successo, forse avrebbero aperto un’attività insieme.
Al ristorante — luci soffuse, musica di sottofondo — Vova fece il primo vero pasto “da signore” della sua vita. Edik gli parlò del futuro: poteva offrirgli un posto nella sua azienda, aiutare con gli studi, sostenerlo davvero. Vova ascoltava con gli occhi lucidi e il cuore che gli batteva forte.

La mattina seguente, come promesso, aiutò Nadja nel giardino. Quando lei seppe chi fosse Edik e che cosa gli aveva proposto, fu sinceramente felice.

— Hai visto? La ruota gira, Vovka — disse, accarezzandogli la spalla. — Ma non dire niente a tua madre, è meglio.

Vova annuì. Olya continuava a spillargli ogni moneta che riusciva a trovare; almeno ciò che teneva da parte restava al sicuro. Della scuola, delle prese in giro, del ballo, lei non chiedeva nulla. Se avesse smesso di bere, magari lui avrebbe vestiti normali, scarpe comode, uno zaino che non si sbriciola. A volte gli mancavano perfino i quaderni e li chiedeva alla professoressa.
Albina Romanovna era persino andata una volta a casa loro. Trovò Olya inaspettatamente sobria: le raccontò, tra sospiri e spalle alzate, che era disoccupata, che non poteva comprare nulla al figlio. L’insegnante ebbe pietà e non insistette oltre. Forse così Vova aveva evitato che lo togliessero alla famiglia.

La sera del ballo la sala era piena di ragazzi e insegnanti. La musica rimbalzava tra le pareti, i gruppetti chiacchieravano animati.

— Dov’è il nostro Alain Delon? — urlò qualcuno, ridendo.

— Tarasov? Starà ancora rovistando tra i barboni per scegliersi il frac — ribatté una voce femminile.

Risate. Occhiate complici. Non Zlata, però: lei aveva sempre difeso Vova, a modo suo, anche quando tutti gli altri si scagliavano contro di lui.

Fu allora che una Jeep si fermò davanti alla scuola. Dal veicolo scese un ragazzo alto, in completo azzurro, camicia candida, capelli in ordine, scarpe lucide. Per un attimo, nella sala, il rumore si affievolì.

— Quello è… Tarasov? — Genka strinse gli occhi.

— Ma va’, non può essere — ribatté Lena, sconcertata.

— Sembra uscito da un film — mormorò Stepanov.

Albina Romanovna, vedendolo entrare, rimase a bocca aperta. Non l’aveva mai visto così: elegante, sicuro, come se fosse sempre appartenuto a quel mondo. Quando lui si mise in fila con gli altri, l’insegnante sussurrò quasi tra sé:

— Sembra un modello di rivista.

Zlata gli andò incontro per prima. Vova le prese la mano; lei indossava un abito color beige con leggere ruches rosa che la rendevano delicata come una rosa appena sbocciata. Insieme aprirono le danze con un valzer preciso, armonioso. Le altre ragazze li guardavano con una punta di invidia, ma Vova vedeva solo lei. L’amava in silenzio da tempo, convinto di non avere nulla da offrirle.

Dopo il ballo, l’accompagnò a casa. Sotto il portone si fece coraggio: la baciò piano e le sussurrò:

— Ti amo.

Zlata lo guardò negli occhi, commossa.

— Ti aspetterò — rispose, con un sorriso tremante.

Quella notte, rientrando a casa, Vova si fermò sulla soglia, incredulo. La casa… era pulita. I piatti lavati, il pavimento lucido, l’odore di una zuppa calda che arrivava dalla cucina.

Olya apparve nell’angolo del corridoio, asciugandosi le mani sul grembiule.

— Perdonami, figlio mio — disse a bassa voce. — Lo so che ti ho fatto soffrire. Oggi volevo almeno prepararti qualcosa di buono.

Lui la abbracciò forte, quasi temendo che quella scena si dissolvesse.

— Grazie, mamma. Ne avevo davvero bisogno.

— Ti prometto che d’ora in poi sarà diverso — mormorò lei.

E stavolta mantenne la promessa. Smetteva di bere, passo dopo passo. Trovò un lavoro, riportò ordine in casa. Il frigorifero smise di essere vuoto, lei ricominciò a cucinare, a prendersi cura di sé. Un giorno gli regalò persino un rasoio elettrico; Vova lo mostrava a tutti come se fosse un trofeo.

Con il tempo, Olya tornò a vestirsi con gusto, a truccarsi un po’, a sorridere davvero. Una sera, mentre guardavano un film sul divano, qualcuno bussò alla porta.

— Vado io — disse lei.

Aprì e si bloccò un attimo.

— Edik? Sei tu?

— Già — rispose lui, con il suo solito sorriso. — Sono passato per dare una mano a Vovka con il carburatore.

— Entra — lo invitò Olya.

Bevvero tè, mangiarono panini in cucina e parlarono fino a tardi: del passato, di Andrej, del presente, di Vova. A un certo punto, Edik prese delicatamente la mano di Olya.

— Posso invitarti a cena domani? — chiese.

Lei arrossì, abbassando lo sguardo.

— Mi piacerebbe.

Gli anni passarono. Cinque, quasi sei. I compagni di classe presero strade diverse. Vova tornò dal servizio militare e lavorava ormai nell’azienda di Edik, che lo aveva aiutato anche negli studi. Aveva una sorellina, Sonja, vivace e chiacchierona, e una moglie: Zlata, che portava in grembo il loro primo figlio.

Un pomeriggio, entrando in casa, Vova chiamò:

— Zlata!

Lei gli corse incontro e gli gettò le braccia al collo. Dietro di lei, Sonja ridacchiava.

— Dov’è la mamma? — chiese la bambina.

— È uscita con papà — rispose Sonja. — In casa c’è solo nonna Nadja.

— Monella! — rise Vova, sollevandola in braccio. — E la mia regina come sta oggi?

— Oggi bene — rispose Zlata, accarezzandogli la guancia.

Lui appoggiò la mano sulla pancia arrotondata.

— Ehi, piccolo campione o piccola campionessa, vai piano con quei calcetti!

— Non è un calciatore — intervenne Sonja, serissima. — Sarà una bambina. La chiameremo Masha, come la mia bambola.

Scoppiarono tutti a ridere, stringendosi uno all’altro.

Nonna Nadja restò con loro ancora a lungo, lucida e presente fino ai novantadue anni. Tutti la amavano per la sua gentilezza silenziosa e la mano tesa proprio quando serviva di più. Lei stessa diceva spesso, guardando Vovka:

«Finalmente sei diventato l’uomo che meritavi di essere».

Advertisements