Sentieri interrotti: la dura infanzia di Sveta Se vuoi, posso anche darti altre varianti di titolo con sfumature diverse (più drammatiche, più poetiche, più “da social”, ecc.).

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Al supermercato, Dmitrij spingeva un carrello stracolmo.
— Sveta, non ci crederai — esclamò, piegandosi verso di lei. — Ho appena visto una donna uguale a te. Se non sapessi com’è andata la tua vita, direi che è tua madre… Non è che hai una sorella più grande? — aggiunse ridendo, trascinandola quasi verso il reparto delle conserve.

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Sveta, con un vasetto di omogeneizzato in mano, alzò gli occhi infastidita.
— Quale sorella? — borbottò, leggendo distrattamente l’etichetta.
— Vieni, te la faccio vedere. Piano, credo che ci stia già osservando. È un po’ più grande di te, ma siete identiche, scommetto che è una parente. — Dmitrij accelerò, tirandola dietro di sé tra gli scaffali.

— Dove mi stai portando? Ti ho detto che non ho sorelle! — sbottò Sveta, sistemando il cappellino del piccolo Vanja, addormentato nel seggiolino del carrello.

— Magari è la “sorella perduta” delle telenovelas, che ne sai? — insistette lui, scherzando.
— Lasciami stare e andiamo via, — sibilò lei, strappandogli il carrello di mano e deviando di colpo verso il banco dei latticini.

Le dita serrarono la maniglia del carrello tanto forte che le nocche impallidirono. Sentiva il viso in fiamme, gli occhi offuscati dalle lacrime. Le bastava un niente, un solo cedimento, e sarebbe crollata in ginocchio proprio lì, tra yogurt e formaggi in offerta.
Eppure erano già passati sette anni da quando aveva deciso di smettere di voltarsi indietro.

Era cresciuta da sola con la madre. Sul padre, solo silenzi. Nessun nome, nessuna storia, solo frasi troncate e sguardi sfuggenti. L’anno in cui iniziò la prima elementare, la madre sposò Sergej Viktorovič. Da allora, la sua infanzia cambiò direzione, come una porta che si chiude all’improvviso.

Nel loro bilocale comparve anche lui, con i suoi oggetti, i suoi odori e la sua voce che pretendeva di comandare. A Sveta toccò lo sgabuzzino sistemato alla meglio: un lettino, una mensola, una lampadina fioca. La stanza grande, invece, divenne la camera da letto della madre e del patrigno.
— Devi chiamarlo papà — ripeteva la madre.
Ma per Sveta lui restò sempre e solo «zio Serëža». Non riusciva a dargli un posto nel cuore.

Serëža non perdeva occasione per farle sentire che non contava nulla. La pungolava, la derideva, la umiliava per qualsiasi sciocchezza. Da bambina taceva, ingoiando tutto. Da adolescente provò a ribattere, ma veniva messa subito a tacere.
— Chiudi quella bocca! Io ti mantengo, ti do da mangiare e ti vesto! Non ti sta bene? La porta è lì!
— È mamma che mi compra i vestiti! — osava ribattere Sveta, cercando con lo sguardo un minimo di sostegno.
— Chiedi scusa a tuo padre immediatamente! — troncava la madre, secca, con uno sguardo inflessibile.

Quando Sveta aveva quindici anni, nacque il fratellino. La madre sembrava risplendere: finalmente il figlio tanto desiderato dal marito. «Zio Serëža» non si staccava più dal neonato, e la presenza di Sveta sembrò diventare un disturbo, un peso che stonava nel nuovo quadretto familiare.
— Dagli da mangiare tu, noi andiamo a pranzo con papà! — ordinava la madre, già pronta sulla porta.
— Ma perché devo sopportare una stupida del genere in casa?! — sbottava lui. — A che serve una così?

Passarono gli anni, Sveta concluse la scuola e fu ammessa all’università. Il giorno in cui compì diciotto anni, la madre le comunicò la decisione con il tono di chi annuncia un fatto già stabilito.
— Prepara le tue cose. Ho firmato per il dormitorio e ho pagato il primo semestre. Il resto te lo gestisci da sola.
— Il dormitorio? — Sveta sentì l’aria mancarle.
— Non penserai davvero di restare qui per sempre, vero? — intervenne il patrigno. — Roma cresce, ma la casa no!

— Io qui ho la residenza! — provò a ribattere.
— E a me cosa importa? Se non te ne vai, butto tutto sulle scale.

La madre non alzò nemmeno lo sguardo. Il giorno della partenza le mise in mano cinquecento rubli, come si lascia qualche spicciolo a un conoscente. Nessun abbraccio, nessuna parola in più.

Paradossalmente, fu proprio il dormitorio a salvarla. La borsa di studio bastava a stento per sopravvivere, così Sveta iniziò a lavorare: prima come cameriera, poi come corriere. Stringeva i denti e andava avanti.
Un giorno trovò il coraggio di tornare a casa dai genitori per chiedere un piccolo aiuto. Il pianerottolo odorava di vernice fresca, le pareti appena ridipinte.
— Che ci fai qui? — sbottò il patrigno, vedendola sulla soglia.
— Devo parlare con la mamma.
— Non vedi che stiamo rifacendo casa? Non intralciare — e la spinse quasi indietro nel corridoio.

La madre comparve sulla porta, con un’espressione seccata.
— Sei venuta per i soldi, vero? Sei adulta ormai.
— I miei compagni ricevono ancora aiuto dai loro genitori…
— Vai a lavorare, non venire a fare la mendicante — ringhiò lui. — Dobbiamo portare Roma al mare, tu arrangiati.
La madre, senza alzare lo sguardo, mormorò soltanto:
— Sveta, tuo padre ha ragione…

La gola le si chiuse. Scese le scale quasi alla cieca, con le lacrime che le deformavano il mondo. Quella notte, stesa sul letto del dormitorio, giurò a se stessa che non avrebbe più pianto per loro e che non avrebbe mai più chiesto aiuto a nessuno.

Poi vennero la laurea, una nuova città, un monolocale minuscolo ma tutto suo, e un lavoro stabile. La vita cominciava finalmente ad avere un sapore diverso.
Fu allora che conobbe Dmitrij, l’avvocato dell’ufficio accanto. Il primo incontro fu tutt’altro che romantico: un tubo rotto in cucina, l’acqua ovunque, lei disperata; lui arrivò con gli attrezzi in mano e un sorriso disarmante. Da quel giorno iniziò una storia tranquilla, fatta di premure semplici.

I genitori di Dmitrij la accolsero senza riserve, come se l’avessero aspettata da sempre. Al matrimonio, quando le chiesero dei suoi, Sveta disse che sua madre era morta. Nessuno fece domande. Tre anni dopo nacque Vanja, e la loro vita si riempì di biberon, notti spezzate e una felicità fatta di piccoli gesti.

Eppure, in un angolo dell’anima, il passato restava chiuso come in un cassetto senza maniglia: non si apriva, ma pesava lo stesso.

— Perché piangi? — chiese Dmitrij, sfiorandole la spalla mentre lei fissava ancora il banco dei latticini.
— Mi ero promessa che non l’avrei più fatto… — sussurrò lei.
— Quella donna… chi era?
Sveta deglutì.
— Mia madre.
— Ma… mi avevi detto che era morta.
— Per me lo è.

Quando uscirono dal supermercato, la donna era lì, in piedi accanto all’uscita, con la borsa stretta al petto.
— Ciao, figlia… — mormorò.
— Salve, — rispose Sveta, senza guardarla negli occhi.
— È lui il mio nipotino? — allungò una mano tremante verso Vanja.
— È mio figlio, — ribatté Sveta.
— Per me sarà sempre un nipote…
— Per te non è nessuno.

— Lasciami rimediare, — sussurrò la madre. — Posso ancora…
— Non serve — la interruppe Sveta, fredda. — Me la sono cavata da sola finora, continuerò così.

Si lasciarono così, in mezzo alle auto parcheggiate, con poche frasi e un abisso di anni tra loro.

Più tardi, a casa, Sveta raccontò tutto a Dmitrij. I silenzi, gli ordini, le frasi taglienti, lo sgabuzzino al posto della stanza, i cinquecento rubli messi in mano come ultimo gesto. Pianse, stavolta senza trattenersi, con il volto nascosto nella spalla di lui. E in quel pianto sentì qualcosa sciogliersi, non per loro, ma per se stessa.

Pensò che avrebbe pianto di nuovo, un giorno — al matrimonio di Vanja — ma allora sarebbero state lacrime diverse: lacrime di gioia, di orgoglio, di sollievo.

Aveva attraversato tempeste, corridoi bui, porte chiuse in faccia. Ma aveva anche imparato a costruirsi un futuro con le proprie mani.
Il perdono, forse, sarebbe arrivato un giorno. L’oblio, no. Perché andare avanti non vuol dire cancellare tutto: vuol dire ricordare senza permettere al passato di spezzarti ancora.

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