L’autista socchiuse gli occhi contro il sole di primavera e fece frusciare un biglietto stropicciato tra le dita.
— Allora, Dasha, uno per la città? — chiese, aggiustandosi il berretto ormai logoro.
— Fino al capolinea — rispose secca Darja, serrando il manico slabbrato della borsa. Si avvicinò allo sportello senza concedersi neanche un’occhiata ai cancelli grigi del penitenziario. La luce le graffiava le pupille, una brezza tiepida che sapeva d’erba fresca le sfiorava il viso. Dopo tre anni, era fuori. Nessuno ad attenderla: niente parenti, niente amici. La madre era morta l’anno prima; un padre non l’aveva mai avuto.
Alla fermata la aspettava un autobus scassato, che sbuffava fumo come un vecchio stanco. Comprò il biglietto, si sedette accanto al finestrino, appoggiò la fronte al vetro freddo e pianse in silenzio, nascondendo le lacrime agli sguardi degli altri passeggeri.
In colonia il tempo non scorreva: arrancava. Dolore, paura, umiliazioni sempre uguali. L’unica cosa che la teneva in piedi era il lavoro. Aveva studiato da infermiera e, anche lì dentro, quelle mani servivano.
— Dasha, dì alla direzione di allungarti la pena! — scherzava il medico del carcere, dandole una pacca sulla spalla. — Senza di te sono finito, sul serio!
La sua battuta faceva sorridere e rabbrividire allo stesso tempo. Il primario, pigro e cinico, trattava le detenute peggio delle bestie. Eppure Darja, fedele al suo modo di essere, restava precisa, premurosa, umana. I farmaci erano pochi; così lei si inventò una tecnica di massaggio che, a detta di tutti, faceva miracoli: calmava artriti, emicranie, sciatalgie, perfino le ernie. La fila non era solo di detenute: arrivavano i parenti delle guardie e le mogli dei dirigenti.
Ma una volta fuori, chi l’avrebbe voluta? Cosa se ne fa la gente di un’ex detenuta marchiata per “concorso in rapina”? Nessuno voleva stare a sentire come erano andate davvero le cose. Nessuno voleva sapere di Viktor, l’uomo che prima le aveva rubato il cuore e poi la vita.
Tutto era cominciato quando assisteva sua nonna, Ljudmila Grigor’evna. Viktor si presentava con piccoli regali, coccolava l’anziana e, passo dopo passo, conquistò la fiducia di Darja. La invitò a cena, la riempì di complimenti, parole dolci come caviale, e la storia esplose in fretta. Finì con un pugno alla porta: la polizia. La trascinarono via tra urla che nessuno volle ascoltare.
La verità venne fuori solo dopo: Viktor era un truffatore, un ladro, un giocatore senza scrupoli. Aveva usato Darja. Le chiavi degli appartamenti dei pazienti che lei accudiva — custodite da lei per lavoro — erano state il suo lasciapassare perfetto. Lui svaligiava, e quando lo beccarono, scaricò tutto su di lei. L’avvocato di Darja era mediocre, Viktor aveva “agganci” e al processo lei fu schiacciata. La sua vita si spezzò.
Stava per crollare del tutto quando, in sezione, incontrò una donna anziana, dentro per aver ucciso il marito violento.
— Non mollare, ragazza — le disse guardandola dritta negli occhi. — I guai, se li attraversi, ti puliscono l’anima. Fa’ del bene, senza aspettarti niente in cambio. La vita, prima o poi, rende.
Quelle parole le rimasero addosso come un tatuaggio.
Quando rientrò nel suo minuscolo appartamento scrostato — ora vuoto anche della madre — si coprì il volto, ma le lacrime non uscivano più. La mamma aveva pianto per fame, per dolore, per disperazione. Adesso non c’era più. In un cassetto trovò un biglietto consunto: “Figlia mia, aggrappati al bene: sarà la tua salvezza”.
Sorrise appena al suo riflesso.
— Tranquilla, Dasha. Ce la faremo — mormorò. — Pulirò scale, laverò pavimenti… ma non mi spezzeranno.
Riempì un secchio e cominciò a strofinare i pavimenti di casa come se volesse cancellare il passato dagli angoli.
Passò una settimana, poi il telefono squillò. Era Julija, un’amica di vecchia data, ex collega in ospedale.
— Dasha, sei uscita? — esclamò entusiasta. — Lascia perdere quegli stracci e vieni subito da me. Ho trovato un lavoro vero, ben pagato. Qui il tuo casellario non interessa a nessuno.
— Ma che dici? — balbettò Darja. — Che lavoro sarebbe?
— L’ho saputo tramite conoscenze — abbassò la voce Julija. — Ti ricordi quando lavoravamo insieme? Ho parlato delle tue mani d’oro a un uomo che cerca una badante per il figlio. Pagano bene. Vieni da me, ti spiego tutto.
A casa di Julija, i dettagli: una famiglia ricca cercava un’assistente per Artiom, il figlio del padrone, rimasto disabile dopo un incidente. Carattere insopportabile: le infermiere scappavano dopo pochi giorni. Il padre, Konstantin Pavlovič, era disposto a chiudere un occhio sul passato, purché qualcuno riuscisse a gestirlo. Julija, che non l’aveva mai abbandonata, aveva organizzato l’incontro. Il compenso fece tremare Darja: con quei soldi avrebbe potuto tirare avanti un anno intero e far mettere un bel monumento sulla tomba della madre.
— E se poi spunta fuori tutto? — chiese, tormentandosi l’orlo della manica.
— Gli ho già raccontato la tua storia — fece un mezzo sorriso Julija. — Non gli importa. Vuole solo che suo figlio migliori.
Darja accettò. Tre giorni dopo, era davanti al cancello di una villa da copertina. Il custode controllò i documenti e la lasciò entrare. Cercò di camminare con passo sicuro, anche se il cuore le martellava in petto. Giardini curati al millimetro, pietra chiara, grandi vetrate. Una cameriera la accompagnò in un salone dove, dietro un tavolo imponente, sedeva Konstantin. Occhi freddi, voce controllata.
— Sono Konstantin Pavlovič — disse indicandole una poltrona. — Mio figlio Artiom sta molto male. Mi serve una badante paziente. Se sei una di quelle che fanno scenate e si sciolgono allo stress, puoi tornare da dove sei venuta. Pensi di farcela?
— Sì — rispose, senza abbassare lo sguardo.
Premette un pulsante e fece entrare una donna sulla cinquantina.
— Tamara Grigor’evna, la nostra governante. Ti spiegherà tutto.
Tamara era pratica ma gentile. Le mostrò la cucina del personale, lo studio medico, la stanza a lei destinata.
— Doccia, divisa e si comincia — le disse con un sorriso. — Nell’armadio trovi tutto. Quando sei pronta, ti porto da Artiom Konstantinovič.
La stanza era luminosa, c’era un bagno privato e un armadio pieno di uniformi impeccabili. Accanto, lo studio medico, attrezzato con macchinari modernissimi. La sera, Tamara la accompagnò in salotto, una specie di sala del trono. Sul divano, una giovane donna bellissima: Natal’ja, la seconda moglie di Konstantin.
— Non spaventarti — disse con tono dolce. — Artiom non è un mostro. È stato viziato, sì, e l’incidente l’ha distrutto. Dentro, però, non è cattivo. Solo che io, per lui, sono “la matrigna”, quindi il nemico. Resisti. Riuscirai a restare almeno un mese?
— Ci proverò, Natal’ja — annuì Darja.
— Chiamami pure per nome — ammiccò lei. — Anche io so cos’è l’ingiustizia. Ti capisco più di quanto pensi.
Artiom era la copia del padre: lineamenti duri, occhi taglienti. Sedeva in carrozzina, lo sguardo fisso sulle fiamme del camino, come se Darja fosse aria.
— È ora della visita — disse lei con calma.
— E tu chi ti credi di essere per dirmi che ora è? — borbottò, senza degnarla di uno sguardo.
Darja non rispose. Gli avvicinò la carrozzina allo studio. Gli insulti le scivolavano addosso: in carcere aveva visto di peggio. Durante la visita notò ciò che le serviva: danno serio, sì, ma riflessi presenti, braccia forti. C’era margine.
— Vorrei affiancare alla terapia i massaggi e qualche esercizio mirato — spiegò. — Se lavoriamo con costanza, potremmo ottenere dei progressi.
— Ma vaff…! — esplose lui, stringendo i pugni.
Senza scomporsi, Darja gli scoprì il braccio e gli somministrò un lieve sedativo. Così iniziò la sua vita in villa: i padroni spesso fuori casa, il personale discreto, e Artiom impegnato a renderle i giorni impossibili. Le lanciava oggetti, le sputava addosso durante le medicazioni.
Un giorno, mentre gli controllava i riflessi, gli porse una tazza di tè. Lui la prese diffidente e borbottò qualcosa. Lei rimase tranquilla. Dopo l’ennesimo sputo, gli disse con voce bassa:
— Sa che ho scontato una pena? Non le fa paura?
Artiom aggrottò la fronte.
— Per cosa, omicidio? — sogghignò.
— Omicidio… con smembramento — rispose lei, serissima.
— Mio padre ci è già passato anche lui per quelle strade — sbuffò. — Ha un debole per i tipi “tosti”.
Da quel momento smise di umiliarla e la lasciò lavorare. Col tempo, mentre lo aiutava nei trasferimenti, Darja colse qualcosa di diverso nel suo sguardo: riconoscenza, forse.
Dopo un mese, Konstantin la fece chiamare.
— Resti con noi? — chiese, senza giri di parole.
— Finché non avrò chiuso il ciclo di cura, non me ne vado — rispose lei, dritta come un fuso.
— Bene — annuì. — Mi ricordi la mia prima moglie: orgogliosa, indomabile. Non prendere sul personale le scenate di Artiom. Non è cattivo; è che la vita non ha avuto pietà di lui.
Le raccontò dell’incidente. La fidanzata, Ksenija, dopo aver bevuto, lo aveva pungolato sull’orgoglio per spingerlo a guidare. Lui aveva proposto un autista, ma dopo un suo flirt plateale con un altro, aveva voluto dimostrare qualcosa. Si mise al volante. Lo schianto fu devastante. Lei se la cavò con qualche graffio, a lui si spensero le gambe. Quando poi la vide in una foto abbracciata a un altro, quel poco di luce che gli restava dentro si spense.
— Non resterà così per sempre — disse Darja. — Glielo prometto.
Konstantin si asciugò una lacrima.
— Ho una collezione di errori lunga un chilometro — mormorò. — La prima moglie non ha sopportato le mie scelte. Questa fortuna è nata nel sangue degli anni Novanta. Ora pago il conto. Natal’ja ha provato a fargli da madre, ma lui l’ha respinta. Un vecchio che ho conosciuto in cella una volta mi disse: “Fa’ il bene senza aspettarti niente in cambio”. Se puoi, prova anche tu.
— Farò del mio meglio — rispose lei, sentendo quelle parole scavarle dentro.
— Sei un angelo — concluse lui, stringendola in un abbraccio quasi paterno.
Più tardi, confidandosi con Tamara, aggiunse:
— Ho viziato Artiom, non gli ho insegnato a sopportare le attese. Ho paura di perderlo come ho perso sua madre.
— Sta facendo ciò che può — disse Tamara, sistemando una tovaglia. — Darja è speciale. Datele tempo e spazio.
Darja chiese un giorno libero per andare al cimitero: doveva scegliere il monumento per sua madre. Optò per una croce semplice, piantò dei fiori, fece predisporre la recinzione presso la chiesetta della Trinità. Al ritorno in villa la trovò sconvolta: Natal’ja piangeva con una valigia accanto.
— Addio, Dasha — disse asciugandosi gli occhi. — Artiom mi ha accusata di tradirlo con un altro. Konstantin non mi ha creduta e mi ha messo alla porta.
Il sangue di Darja prese fuoco. Entrò nella stanza di Artiom e, senza pensarci troppo, gli mollò uno schiaffo.
— Vigliacco! — esplose. — Se Natal’ja se ne va, me ne vado anch’io. Continua pure a piangerti addosso!
— E lo farò! — urlò lui, colpendo con forza il bracciolo della carrozzina. — Vivremo benissimo senza di voi! I miei soldi ti piacciono, vero?
— Come osi? — ansimò Darja. — Ero sulla tomba di mia madre, mentre tu qui facevi scenate!
— Allora dimmi per cosa sei finita dentro — sibilò. — Che cosa mi stai nascondendo?
Darja inspirò a fondo e, senza più filtri, raccontò tutto: Viktor, l’inganno, il processo pilotato. Artiom rimase in silenzio, le labbra serrate.
— Credevo stessi vedendo qualcuno di nascosto — ammise alla fine. — Ti ho trattata da colpevole. Scusami. Senza di te… non ce la faccio.
Provò ad alzarsi. Barcollò, ma un piede reagì. Darja sentì un nodo alla gola: la riabilitazione stava funzionando. Lo aiutò a sedersi di nuovo; lui la afferrò e la baciò.
— Ti amo, Dasha. Sei la persona più forte che conosca — sussurrò.
— Allora comincia a rimediare — ribatté lei, asciugandosi le lacrime. — Chiama Natal’ja e chiedile scusa. Adesso.
Quella sera, davanti al padre, Artiom compose il numero.
— Natal’ja Pavlovna… sono stato un codardo — disse con voce rotta. — Non so come rimediare, ma voglio provarci. Mi perdona?
— Andrà bene, Artiom — rispose lei, dolce. — Ti rimetterai in piedi e troverai il modo di farlo.
Poco dopo, Artiom chiese a Darja di sposarlo. Konstantin benedisse l’unione. Il ragazzo tornò a camminare, prima con il bastone.
— Questo è solo il riscaldamento — lo punzecchiò Darja. — Vedrai che presto correrai.
Konstantin destinò una parte del suo patrimonio alla creazione di una clinica gratuita in memoria della prima moglie, che aveva sempre sognato una sanità accessibile. Strumentazione moderna, porte aperte a chiunque avesse bisogno. Alla direzione, mise Darja.
Un mese dopo, Julija la avvisò: Viktor era uscito e minacciava di rovinarla pubblicamente. Konstantin ingaggiò un avvocato di prim’ordine; Darja, con l’aiuto di Julija, raccolse prove, testimonianze, omissioni passate. Il caso fu riaperto. Arrivò l’assoluzione piena. Il suo nome fu finalmente ripulito.
E la clinica, sotto la sua guida, diventò davvero ciò che prometteva: un rifugio sicuro per centinaia di persone che non avevano nessun altro posto dove andare.
