— Marina, non ce la faccio. Non posso stare con una persona che… è disabile.
La voce di Artëm si spense come una candela al vento. Non trovò la forza di incrociare il suo sguardo; fissava la sedia a rotelle accanto al letto come un intruso testardo, la prova concreta di un destino che non voleva dividere. La guardava come si guarda una bestia che ha addentato il loro domani. Marina rimase immobile. Le pareti bianche dell’ospedale si scioglievano in un bagliore lattiginoso dietro un velo di lacrime. Nelle orecchie le rimbalzava ancora l’impatto dell’incidente; eppure quel silenzio trattenuto, ora, le faceva più male di qualsiasi sirena.
Solo un mese prima provavano le fedi. Parlavano di carte da parati per la cameretta, ridevano, facevano progetti. Lui la sollevava per scherzo nel corridoio del loro piccolo appartamento, promettendo di tenerla tra le braccia “per tutta la vita”.
Poi la strada. Un faro impazzito, un’auto che taglia la corsia come un proiettile. Metallo contro metallo, odore di benzina bruciata, buio striato di rosso. La diagnosi più crudele non venne dai medici, ma dall’uomo che diceva di amarla: uno sguardo duro come acciaio.
— Artëm… noi ci amavamo… — sussurrò, tutta tremiti. Cercava in quegli occhi un frammento di prima.
— Io amavo — recise lui — una compagna con cui viaggiare, scalare, costruire. Ora non rientri più nei miei piani. Ho obiettivi, carriera, sogni. La verità fa male, ma è meglio così.
Nessuna pietà. Solo impazienza, e paura di perdere terreno.
Marina tentò l’ultima presa, come chi affoga e graffia la riva.
— Mi rialzerò. Ho delle possibilità. Ho bisogno di te, Tëma… ti prego…
Il suo volto si irrigidì. La finta pazienza si ruppe.
— Quali possibilità? I medici sono stati chiari. Abbiamo provato di tutto, bruciato un capitale, e siamo ancora qui. Io non posso restare in attesa di un miracolo che non arriva. Non voglio vivere così.
Le parole le piombarono addosso come pietre. Trovò appena la voce:
— Non mi serve un miracolo. Mi servi tu.
Fu allora che lui affondò il colpo.
— Sostegno? Vuoi che ti trascini da una clinica all’altra e ti cambi modello di carrozzina ogni mese? Sei diventata zavorra, Marina. E io non la porterò fino alla fine dei miei giorni.
Quella parola le squarciò il petto più dell’asfalto.
Appoggiò le chiavi dell’appartamento sul comodino. Un suono secco, definitivo.
— Ho già preso le mie cose. Mi trasferisco. Non cercarmi. Addio.
Se ne andò senza voltarsi. I passi si allungarono nel corridoio come un’eco dentro di lei. Marina guardò la porta chiudersi e pianse in silenzio, animale ferito.
Le prime settimane furono una notte senza orizzonte. Non voleva il soffitto, né le infermiere, né il viso affranto di sua madre. Non voleva nemmeno posare gli occhi su quella sedia che le pareva una gabbia.
E proprio nel gelo più duro, si accese una scintilla: un furore lucido, pulito.
Un giorno, sfogliando una rivista, vide la foto di Artëm a un evento mondano, il braccio sulla vita di una ragazza perfetta. Qualcosa si spezzò e, nello stesso istante, si accese.
“Zavorra, eh?” Avrebbe dimostrato il contrario. A se stessa prima di tutto, poi a lui e al mondo.
Appena dimessa, vendette l’anello di fidanzamento che lui non aveva mai ritirato e comprò un computer potente. Prima dell’incidente era un’analista brillante al servizio degli altri. Ora aveva tempo, una mente affilata e una rabbia che sapeva distillare in concentrazione.
Lavorò diciotto ore al giorno: codice, modelli, grafici. Il mondo si ridusse a righe di comando e pattern che danzavano sul monitor.
Progettò un motore analitico capace di prevedere con precisione sorprendente le oscillazioni dei mercati. Scelse uno pseudonimo per rimanere invisibile.
Così nacque “Lady Venere”: un nome sussurrato nelle sale dei consigli, una presenza che appariva solo in video, figura elegante avvolta nell’ombra; della sedia, inquadrata di sbieco, non si distingueva mai che fosse una carrozzina. Più trono che limite.
Passò un anno. Gli affari di Artëm franavano. La relazione con la figlia di un pezzo grosso si sgonfiò quando le promesse si rivelarono fumo. La sua start-up, fondata tra fanfare dopo aver lasciato Marina, era al bordo del baratro: soci dissolti, investitori seccati, creditori alla porta.
Una sera, al bancone di un bar, un ex collega — già mezzo brillo — gli buttò sale sulla ferita:
— Conosci Lady Venere? Pare raddrizzi i casi senza speranza. Ma tu, Sokolov, sei due piani sotto lo scantinato.
Quelle parole fecero più male dei bilanci. Per una settimana telefonate umili, percentuali offerte, corteggiamenti a chiunque potesse avvicinarlo a lei. Alla fine ottenne un appuntamento nel grattacielo più esclusivo della città. Stirò l’abito migliore, provò allo specchio un discorso che sapeva di supplica.
Ultimo piano, vetrate che tagliavano il cielo. Dietro una scrivania di legno scuro, una donna di spalle, la città dispiegata come una mappa.
— Signora Venere… — iniziò a bassa voce. — Sono Artëm Sokolov. Sono al limite. La mia azienda sta crollando. So che lei può salvarmi. La prego…
Parlò troppo, quasi senza respirare. Elencò guai, accusò i soci, invocò la sfortuna. La figura rimase immobile. Scambiò quel silenzio per attenzione e rilanciò, finché il rossore non gli salì in viso.
La sedia girò lenta. Artëm impallidì.
Era Marina. Non quella di allora: questa aveva uno sguardo tagliente e quieto, la postura di chi è tornata padrona di sé. E la “poltrona” non era una poltrona: una sedia a rotelle di design, pelle e metallo lucido, più simile a un trono che a un confine.
— Aiutarti? — disse lei, con una calma che bruciava. — Perché dovrei investire un secondo in qualcuno che non vale il mio tempo?
Premette un pulsante sul bracciolo. Le porte si aprirono. Due addetti alla sicurezza entrarono in silenzio.
— Accompagnate il signor Sokolov. L’incontro è concluso.
Mentre gli sfioravano i gomiti, Marina aggiunse, quasi distratta:
— Per la mia società, il signor Sokolov è solo un costo.
Un mese dopo, la sua azienda fallì. Perdi-tutto: affari, contatti, faccia. Si mormorava fosse tornato dai genitori, in provincia, a vendere elettrodomestici.
“Lady Venere”, invece, divenne un riferimento globale. E una parte importante del suo patrimonio prese una direzione precisa: un centro di riabilitazione hi-tech per persone con disabilità. Non per vendetta. Per aprire ad altri la porta che a lei avevano provato a chiudere.
Perché la forza che conta non sta nei muscoli, ma in un carattere che non si piega. E nessun dolore, nessun tradimento può spezzare chi, dentro, continua ad alzarsi.
