Lilia era distesa, immobile, nella quiete della stanza. Guardava oltre il vetro mentre la città, finalmente scaldata dalla primavera, si ridestava. Il gelo si era ritirato in fretta, lasciando ai bordi delle strade soltanto cumuli di neve grigiastra. Dal cortile salivano risate scomposte di ragazzi che attraversavano il vialetto a voce troppo alta. Un sospiro le sfuggì senza che potesse trattenerlo.
«Che dono, essere giovani, in salute, padroni del domani…» pensò, ricordando l’epoca in cui tutto pareva a portata di mano. Sogni, progetti, ambizioni: sembravano ancora lì, appena oltre l’orizzonte. E invece era bloccata, inerme, prigioniera di un letto che rubava dignità e voce.
La porta si aprì di scatto. Valera entrò con un insolito scintillio negli occhi.
— Lilia, è il momento di prepararsi! — annunciò con trionfo.
— Prepararmi… a cosa? — chiese lei, aggrottando la fronte.
— Te l’ho già detto: andiamo in Svizzera. Montagne, aria pura, alimentazione naturale, e i migliori medici. Tornerai a camminare, vedrai!
Lilia lo scrutò con diffidenza. Da quando aveva ereditato la villa e l’azienda del padre, il marito era cambiato. L’uomo premuroso e taciturno di un tempo si era fatto brusco, autoritario, con la mente fissa sul denaro. La villa, un tempo rifugio, era diventata un albergo privato per ospiti facoltosi; a lei, persino il permesso di entrarvi era stato negato.
Le tornarono alla mente i loro scontri.
— Non stai esagerando? — aveva osato dire.
— Esagerando? — aveva ringhiato lui. — Questa casa e questa impresa sono mie quanto tue. O ti ricordi di essere un’ereditiera solo quando ti fa comodo?
Da quel giorno, la sua freddezza si era fatta ghiaccio. Notti fuori, risposte secche al telefono, silenzi pesanti: Lilia aveva iniziato a sospettare tradimenti.
Poco dopo comparve Maria, la vecchia governante che l’aveva vista crescere. Portava un cappotto caldo e stivali.
— Zia Masha, ma è primavera… perché tutta questa roba? — protestò Lilia.
— Per te, piccolina, la primavera deve ancora arrivare. Meglio tenerti al caldo — rispose con dolce fermezza.
La vestirono con cura, la sistemarono sulla sedia a rotelle e la portarono in auto. Durante il tragitto Valera non smise di decantare cure miracolose, aria cristallina, guarigioni inaspettate. Eppure, più parlava, più Lilia sentiva crescere un presentimento scuro. Non stavano andando all’aeroporto: la strada s’inoltrava nel bosco, il sentiero si faceva stretto, i rami strisciavano contro i vetri come dita nervose. L’auto si fermò davanti a una casupola di legno.
Dal folto degli alberi uscì un uomo basso, con la barba a punta e un cappello di feltro.
— Benvenuta, signora — disse con un inchino. — Questa è la nostra tenuta nel bosco.
Lilia volse a Valera uno sguardo in cui tremavano paura e indignazione. Lui scrollò le spalle, quasi infastidito.
— Perdona: la Svizzera è fuori portata. Qui costa meno, ma starai bene. Egor si occuperà di te.
Quelle parole le trapassarono il petto come lame fredde. Quando Valera ripartì, lasciandola nelle mani di uno sconosciuto, Lilia capì senza più alibi: non l’aveva condotta alla riabilitazione. L’aveva lasciata lì, nel bosco, sola, confinata alla sua sedia a rotelle. E per la prima volta, in quel silenzio di resina e foglie, sentì nascere dentro di sé una forza ostinata: se nessuno sarebbe tornato per lei, avrebbe imparato a salvarsi da sola.
