«Un clochard ha preso le difese di una sconosciuta contro un ubriaco che la importunava. Più tardi, invitato a cena a casa di lei, ha notato una foto sul mobile del soggiorno… e nella cornice, accanto alla donna, c’era proprio lui.»

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Alice avanzava a passo svelto lungo una via deserta, inghiottita dal buio. Il cuore le batteva nelle orecchie: la giornata era evaporata in biblioteca tra capitoli e note a piè di pagina e, quando si era accorta dell’ora, la città si era già fatta ombra. Voleva solo rientrare e chiudere la porta alle spalle.

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Era quasi sotto casa quando un rumore le gelò il sangue: passi che si avvicinavano dietro di lei. Allungò la mano verso il telefono, ma una voce roca, impastata d’alcol, la raggiunse prima:
— Signorina… perché tutta questa fretta? La scorto io.

Alice accelerò. L’uomo la sorpassò di due falcate e le serrò il polso, cercando di trascinarla a sé.
— Notte perfetta per un incontro romantico… — biascicò, alitando vodka.

Lei urlò, tentando di liberarsi. Fu allora che un uomo dall’aria trasandata, cappotto liso e barba incolta, emerse dall’ombra. Senza esitare afferrò una bottiglia abbandonata, la spezzò e colpì l’aggressore di piatto. L’altro crollò sul marciapiede, stordito.

— Venga — disse lo sconosciuto, con calma sorprendente. — Prima che si rialzi.

Camminarono veloci fino a una strada illuminata da lampioni tremolanti e insegne al neon. Il respiro di Alice si fece meno corto. L’uomo che l’aveva aiutata aveva mani spaccate dal freddo, occhi chiari e stanchi, poco più di cinquant’anni; addosso l’odore gelido della notte e della strada.

Davanti al portone, Alice si voltò.
— Vuole salire? Posso prepararle qualcosa di caldo.

Sul volto dell’uomo passò un’ombra di imbarazzo, poi un sorriso piccolo, incredulo.
— Se non disturbo… Non le prenderò nulla, glielo giuro.
— Non dica sciocchezze — rispose lei, ancora tremante. — Mi ha appena salvato.

In cucina, il vapore del tè appannava i vetri. Sedettero a tavola. L’uomo guardava in silenzio la stanza: i libri ammucchiati, una coperta sul divano, una fotografia in cornice sul comò del soggiorno. Si alzò, attratto da quella immagine, e la prese tra le dita con cautela.

Ritraeva una bambina che rideva stretta tra una donna e un uomo.
— È la mia preferita — disse Alice, avvicinandosi. — L’unica in cui ci siamo tutti e tre.

Le mani dello sconosciuto iniziarono a tremare. Il colore gli abbandonò il viso.
— Quell’uomo… — mormorò. — Quello sono io.

Alice si irrigidì.
— È mio padre — obiettò piano. — Ma lui è scomparso tanti anni fa.

L’uomo deglutì, le parole come sassolini in gola.
— Mi chiamo Nikolaj. O almeno… così mi chiamavano una volta. Ricordo un’aggressione, poi il buio. Quando ho riaperto gli occhi, la testa era un deserto. Ho vissuto di lavori a giornata, panchine, treni notturni. A volte mi tornavano lampi: una risata di bambina, odore di sapone, un braccialetto azzurro. Niente altro.

Alice lo fissò, divisa tra incredulità e un’eco antica nel petto. Lui posò la fotografia e, quasi con pudore, scoprì il polso: un neo scuro, a forma di piccolo cuore. Alice fece lo stesso gesto, come spinta da una memoria del corpo. Lo stesso segno, identico.

Il silenzio fu denso e fragile. Poi la diga si ruppe: lacrime calde, un abbraccio incerto che diventò stretto, mani che si riconoscevano. Nikolaj singhiozzò come un ragazzo, chiedendo scusa a brandelli, e Alice gli carezzò i capelli arruffati come si fa con chi è tornato da troppo lontano.

— Resti qui stanotte — disse. — E domani… domani vediamo il resto.

Non era una promessa grandiosa, solo un primo mattone. Ma dentro quella frase c’erano un tetto, una tavola apparecchiata, una stanza da riordinare e anni da ricucire. La verità, rimasta sotterrata nel buio, aveva ritrovato la strada di casa. E con lei, anche un padre.

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