«— Che cos’è quel suono?»
Mi fermai a metà della strada che portava alla stazione, trattenendo il respiro.
Un pianto fievole, insistente, arrivava da sinistra, trascinato dal vento tagliente di febbraio che mi pizzicava il collo e faceva frusciare l’orlo del cappotto. Seguii quel lamento verso i binari, dove il bianco pulito della neve incorniciava una baracca arrugginita del vecchio segnalatore.
Proprio sui binari c’era un fagotto. Una coperta lurida, sfilacciata. Da un lato spuntava una manina.
— Dio mio… — mormorai, chinandomi per sollevare quel corpicino gelato.
Era una bambina, forse un anno, forse meno. Le labbra, violacee; il respiro, appena un filo; il pianto, ormai stanco.
Aprii il cappotto e la strinsi contro il petto. Poi corsi verso il villaggio, dritta dalla levatrice, Maria Petrovna.
— Zina, da dove arriva? — chiese piano, prendendola tra le braccia con gesti esperti.
— L’ho trovata sui binari. Sola. Nella neve.
— Allora l’hanno abbandonata. Dobbiamo avvertire la polizia.
— La polizia? — la interruppi, serrando la bimba a me. — Rischia di congelare anche solo per il tragitto.
Maria sospirò, tirò fuori del latte per neonati.
— Per adesso questo le basta. E tu? Cosa intendi fare?
Guardai quel visetto che aveva smesso di piangere e si era nascosto nel mio maglione.
— La crescerò io. Non c’è altra strada.
Alle mie spalle le vicine bisbigliavano: «Vive sola, ha trentacinque anni… dovrebbe sposarsi, non allevare i figli degli altri». Finsi di non sentire.
Con l’aiuto di amici sbrigai la burocrazia.
La chiamai Alëna. Una creatura appena sbocciata, pura come la neve che l’aveva quasi inghiottita.
I primi mesi dormivo poco: febbri, coliche, i primi dentini. La cullavo, cantandole le ninne nanne di mia nonna.
A dieci mesi disse «Ma!» e tese le braccine verso di me.
Piangei dalla gioia: dopo anni di silenzio, ero diventata madre.
A due anni correva dietro al gatto Vaska, curiosa, una scintilla negli occhi.
— Signora Galja, guardi che furbetta! — ridevo con la vicina. — Conosce già tutte le lettere!
— A due anni? Ma va’… — «Proviamo», ribattei.
Galja le mostrò i cartoncini uno a uno: Alëna non sbagliò nulla e, per premio, raccontò la fiaba della gallina Rjaba.
A cinque anni cominciò l’asilo nel paese accanto. La portavo facendo l’autostop. La maestra non finiva di stupirsi: leggeva scorrevolmente, contava fino a cento.
— Da dove viene tutta questa testa?
— L’abbiamo tirata su in coro — scherzavo.
Alle elementari le trecce le arrivavano ai fianchi: ogni mattina gliele intrecciavo e cambiavo i nastri. Al primo colloquio l’insegnante sospirò:
— Zinaida Ivanovna, sua figlia è un talento raro. Bambini così se ne incontrano di rado.
Mi si gonfiava il petto: quella era la mia Alënuska.
Gli anni scivolarono via. Alëna diventò una ragazza alta, sottile, con occhi azzurri da cielo di luglio. Premi alle gare, lodi dai professori.
— Mamma, voglio Medicina — annunciò al secondo anno di superiori.
— È costosa, amore. E la città, il dormitorio… come faremo?
— Prenderò la borsa di studio — rispose con una luce negli occhi. — Ce la farò.
E ce la fece. Il giorno del diploma piansi, stretta tra la gioia e la paura: partiva per il capoluogo.
— Non piangere, mamma — mi abbracciò sul marciapiede della stazione. — Tornerò ogni fine settimana.
All’inizio sì; poi, con esami e turni, sempre meno. Ma mi chiamava ogni giorno.
— Mamma, oggi anatomia: voto massimo!
— Brava. E mangi? — «Sì, sì, non preoccuparti.»
Al terzo anno si innamorò di Pasha, un compagno. Me lo portò a casa: alto, dritto nello sguardo, stretta di mano sicura.
— Un bravo ragazzo — dissi. — Ma non lasciare indietro lo studio.
— Mamma! — sbottò lei, divertita. — Farò tutto.
Dopo la laurea le offrirono la specializzazione in pediatria: voleva curare i bambini.
— Tu hai curato me — mi disse al telefono. — Ora tocca a me.
In paese la vedevo di rado: turni, corsi, una città nuova che la inghiottiva. Non mi offesi: capivo.
Una sera mi chiamò con la voce che tremava.
— Mamma, posso venire domani? Dobbiamo parlare.
— Certo, tesoro. Che succede?
Quella notte non chiusi occhio.
Arrivò pallida, gli occhi arrossati dal poco sonno. Si sedette, versò il tè, ma le mani le tremavano tanto che la tazza scivolò e si ruppe.
— Sono venute delle persone — disse piano. — Dicono di essere i miei genitori biologici.
Rimasi muta. Lei ricominciò a piangere.
— E tu?
— Ho detto che ci penserò. Tu sei la mia vera madre, l’unica! Ma loro… parlano di sofferenze.
Le accarezzai i capelli come quando era piccina.
— Sofferenze? E chi ti ha lasciata nella neve, sperando che qualcuno passasse?
— Hanno detto che contavano sul giro del segnalatore. Quel giorno stava male e non uscì…
— Dio mio.
Restammo abbracciate finché fuori cadde la sera e Vaska miagolò per la cena.
— Voglio incontrarli — decise qualche giorno dopo. — Solo per sapere.
Il cuore si strinse, ma annuii.
— È un tuo diritto.
Si videro in un bar in città. Io aspettai nella stanza accanto.
Dopo due ore uscì con gli occhi rossi, ma il viso disteso.
— Com’è andata?
— Persone normali. Lei aveva diciassette anni. I genitori volevano cacciarla. Il padre non sapeva della mia esistenza. Lei poi si è sposata, ha avuto altri due figli. Ma non ha mai smesso di cercarmi.
Camminammo per strade che profumavano di lillà.
— Vogliono presentarmi ai miei fratelli. Mio padre adesso è solo. Quando ha saputo di me, ha pianto.
— E tu?
Mi prese le mani.
— Tu sei la mia mamma. Questo non cambierà mai. Ma voglio conoscerli. Non al posto tuo — per conoscere meglio me stessa.
Le lacrime bruciavano, ma sorrisi.
— Ti capisco. Io sarò qui.
Mi abbracciò forte.
— Mi ha ringraziata per avermi salvata. Ha detto che sono diventata più di quella bimba impaurita.
— Io ti ho amata ogni giorno, Alënuska.
Adesso Alëna ha due famiglie. Ha conosciuto i fratelli: uno ingegnere, l’altra insegnante. Con la madre biologica si sentono, ogni tanto si vedono. Il perdono è stato una strada lunga, ma mia figlia è più forte di tutto.
Al matrimonio di Alëna e Pasha eravamo allo stesso tavolo: io e quella donna. Piangevamo guardando gli sposi danzare.
— Grazie — mi sussurrò — per nostra figlia.
— Grazie a te — risposi — per averle lasciato arrivare fino a me.
Oggi Alëna lavora in pediatria all’ospedale regionale. Quando è nata la mia nipotina, l’hanno chiamata Zina, come me.
— Nonna, vieni a fare la tata? — ridacchia, porgendomi la manina.
— Eccomi — dico, e le racconto fiabe e canto ninne nanne, proprio come allora.
La piccola Zinochka mi afferra il dito con la sua manina calda e sorride senza dentini. Proprio come fece Alëna quel primo giorno, quando la strinsi e capii che era destino.
L’amore non chiede documenti né permessi. L’amore semplicemente accade — grande come il cielo sopra il villaggio, caldo come un sole d’estate, tenace come il cuore di una madre. »