Rientrai a casa in anticipo per fargli una sorpresa e, con mio stupore, lo colsi mentre sotterrava nel nostro giardino un gigantesco uovo nero: da quel segreto inatteso cominciò, però, un legame tra noi ancora più profondo.

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Jonathan entrò nel caffè con il cuore in subbuglio e una speranza testarda cucita addosso. Aveva comprato un abito nuovo, provato e riprovato davanti allo specchio, e per settimane s’era allenato al pianoforte per la serata musicale del locale: quel palco, pensava, sarebbe stato il suo modo di dichiararsi a Phoebe. Ma appena varcata la soglia, invece del suo sorriso trovò Mark — il rivale di sempre — già pronto a pungerlo. Con aria di sufficienza, Mark fece allusioni crudeli al suo disturbo ossessivo-compulsivo, accendendo mormorii e risatine. La tensione agguantò Jonathan alla gola e, nel caos di piatti urtati e bicchieri rovesciati, lui perse il controllo: una scena imbarazzante che lo spinse fuori dal locale, in lacrime.

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Jonathan Green viveva solo in una casetta impeccabile alla periferia. Ogni mattina alle otto, come un orologio, iniziava la sua routine: superfici lucidate, serrature controllate più volte, interruttori verificati uno per uno. Quella disciplina era la diga contro l’ansia che lo accompagnava da sempre. Non tutti lo capivano, e con Bob, il vicino dal gatto dispettoso che amava scavare nel suo giardino, erano nati spesso battibecchi. Eppure, proprio Bob, col tempo, era diventato un alleato inaspettato.

Al caffè, Jonathan si sedeva sempre allo stesso tavolo, quello che Phoebe, la cameriera dal sorriso paziente, gli teneva da parte. Lei era la sua luce gentile. Quel giorno le aveva lasciato una margherita un po’ stanca — timido segno d’affetto — e lei, con naturalezza, gli aveva proposto di suonare alla serata musicale. L’idea lo spaventava, ma Bob lo aveva spronato: piccoli esercizi di coraggio, rime da ripetere per calmarsi, un passo per volta fuori dalla gabbia dell’ansia. Qualcosa in Jonathan aveva cominciato a sciogliersi.

La sera dello spettacolo, però, Mark tornò alla carica. Disse a voce alta che non c’era più posto per i musicisti, che il programma era cambiato. Non era vero, ma bastò per far tremare Jonathan. Il panico montò e la figuraccia esplose davanti a tutti. Fu Bob a rincorrerlo in strada: respiro dopo respiro, gli ricordò le rime provate, i piccoli passi fatti. «Non lasciare che sia lui a raccontare la tua storia», disse.

Con quella frase piantata nel petto come un fermaglio, Jonathan rientrò. Ignorò i sussurri, si sedette al pianoforte e appoggiò le dita sui tasti. La prima nota fu incerta, la seconda già più piena; poi la musica prese corpo, una melodia semplice e limpida che riempì il locale e zittì i mormorii. Ogni accordo era un confine varcato, ogni passaggio una prova superata. Quando l’ultimo suono svanì, il silenzio si ruppe in un applauso lungo, caldo.

Jonathan si alzò e parlò. Disse del disturbo che gli complicava anche i gesti piccoli, del coraggio che aveva cercato a fatica, di quanto significasse per lui essere lì. Ringraziò Bob per averlo sostenuto e, con sorprendente serenità, riconobbe che perfino l’arroganza di Mark gli aveva fatto capire quanto fosse pronto a smettere di nascondersi.

Poi si voltò verso Phoebe. Tirò fuori un braccialetto — semplice, di corda e perline — e glielo offrì con mani finalmente ferme. «Ti andrebbe di uscire con me?», chiese. Gli occhi di lei brillarono. «Mi andrebbe moltissimo», rispose.

Bob, appoggiato allo stipite, sorrise sotto i baffi: Jonathan non solo aveva suonato. Aveva cambiato il copione della sua vita, scegliendo — finalmente — la propria felicità.

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