In mezzo alla strada una donna mi ha messo in braccio un neonato e una valigia colma di contanti; sedici anni dopo ho scoperto che quel ragazzo era l’erede di un miliardario.

0
55

«Tienilo tu, ti prego!» La donna praticamente mi scaraventò addosso una valigia di pelle consunta e, con l’altra mano, mi spinse contro il bambino.

Advertisements

Per poco non lasciavo cadere il sacchetto con il cibo: stavo portando qualche leccornia dalla città ai nostri vicini del villaggio.

«Scusa? Ma io… non ti conosco.»

«Si chiama Misha. Tre anni e mezzo.» Mi afferrò la manica con dita così strette che le nocche le sbiancarono. «Nella valigia c’è tutto quello che gli serve. Non abbandonarlo, ti scongiuro.»

Il piccolo si aggrappò alla mia gamba. Mi fissava con due occhi grandi e scuri, riccioli biondi in disordine, un graffio sottile sulla guancia.

«Non puoi essere seria…» Tentai d’indietreggiare, ma lei ci stava già spingendo verso il vagone.

«Non puoi fare così! La polizia… i servizi sociali…»

«Non c’è tempo per spiegare!» La voce le tremò sul bordo del pianto. «Non ho altra scelta. Nessuna.»

Un’onda di villeggianti ci travolse dentro il treno già saturo. Mi voltai appena in tempo per vederla sulla banchina: si coprì il viso con le mani. Le lacrime le filtravano tra le dita.

«Mamma!» fece Misha, muovendo un passo verso la porta, ma lo trattenni.

Il convoglio sobbalzò e prese velocità. La figura della donna si rimpicciolì, poi svanì nel crepuscolo.

Riuscimmo a trovare posto su una panca vicino al finestrino. Misha si strinse a me, inspirò l’odore della mia manica come per trovare un appiglio. La valigia tirava verso il basso come se dentro ci fossero pietre.

«Zietta, la mamma torna?» sussurrò.

Tornerà, pensai. Deve tornare. Ma la risposta mi si spezzò in gola.

Gli altri passeggeri ci scrutavano con curiosità: una giovane donna, uno sconosciuto bambino e una valigia malandata. Un quadro che stonava con la routine del pendolare.

Per tutto il viaggio mi frullò in testa una sola domanda: che assurdità è questa? Uno scherzo crudele? Eppure il bambino era reale, caldo, odorava di shampoo e biscotti.

Quando arrivammo, Pietro stava ammucchiando legna in cortile. Mi vide con il piccolo e rimase immobile, un ciocco sospeso a mezz’aria.

«Masha… che storia è questa?»

«Non da dove arrivo, ma da chi. Ti presento Misha.»

Gli raccontai ogni dettaglio mentre mescolavo il semolino sul fuoco. Pietro ascoltava con la fronte corrugata, strofinandosi l’attaccatura del naso: il suo modo di pensare a fondo.

«Bisogna avvisare la polizia subito.»

«E dire che cosa? Che alla stazione mi hanno “consegnato” un bambino come fosse un gattino?»

«E allora? Che proponi?»

Misha inghiottiva cucchiaiate grandi, il mento spruzzato di pappa. Affamato, ma attento: teneva bene il cucchiaio, cercava di non sporcarsi. Un bambino perbene.

«Almeno vediamo cos’ha lasciato nella valigia,» dissi, tentando di contenere il tremito.

Facemmo accomodare Misha davanti alla TV e gli mettemmo Nu, pogodi!. La serratura scattò con un clic.

Mi mancò il fiato. Denaro. Pacchi e pacchi di banconote, legati con fascette di sicurezza.

«Signore santo,» sospirò Pietro.

Presi un plico a caso: cinquemila, mille, cento rubli. Ce n’erano decine.

«Quindici milioni,» dissi appena, come se il numero potesse svegliare i muri.

«Pietro… è una fortuna.»

Ci guardammo, poi guardammo Misha che rideva al cartone, ignaro.

Il tempo, nonostante la sua testardaggine, passò. Misha crebbe con noi. A quattro anni sillabava, a cinque faceva somme come niente. A scuola lo chiamavano “il piccolo prodigio”. Noi vivevamo con cautela—non si scherza con una valigia del genere—ma anche con un affetto nuovo, che riempiva la casa come il profumo del pane. Misha diventò nostro figlio senza che ce ne accorgessimo davvero: un giorno lo era e basta.

Anni dopo arrivò una lettera, spessa, con un timbro straniero. Dentro, parole che ribaltavano il mondo: una madre che aveva finto la propria morte per sottrarlo a gente senza scrupoli; un padre miliardario, a capo di un fondo d’investimento; un’eredità immensa destinata a quel bambino dagli occhi scuri.

Quando Misha finì di leggere, le mani gli tremavano. Poi venne verso di noi e ci abbracciò forte, quasi volesse tenere insieme tre vite in una.

«Mi avete cresciuto voi. Siete la mia famiglia. Se arriverà qualcosa, la divideremo in tre. E basta.»

Così fu. Con avvocati che parlavano una lingua tutta loro, parenti sbucati come funghi dopo la pioggia e giornalisti alla staccionata, la nostra esistenza cambiò pelle. Ci trasferimmo in città, costruimmo una casa nuova; Pietro mise in piedi una piccola fabbrica di mobili, io coltivai un giardino che sapeva di primavera anche d’inverno, e Misha—ormai ragazzo—rivelò un talento naturale per i numeri e i mercati.

Un pomeriggio disse: «Perché non creiamo un fondo per i bambini senza famiglia? Qualcosa che dia davvero una possibilità.»

«Lo chiameremo Piattaforma della Speranza,» risposi, e a dirlo venne un brivido, come quando capisci che un’idea ha messo le radici.

Da quel gesto disperato su un binario nacque una famiglia. Non per sangue, ma per scelta. Non per legge, ma per amore.

E quel bambino che un giorno mi strinse la gamba in un vagone affollato divenne, semplicemente, nostro figlio—il più amato del mondo.

Advertisements