La prima volta che vidi Alisa aveva solo sei anni: negli occhi nocciola si leggeva cautela, e sulle labbra spuntava un sorriso esitante.

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Appena le prime note della cerimonia si diffusero e gli invitati trovarono posto, sentii subito che qualcosa non tornava. La bimba con il cestino dei petali — la mia figlioccia, Alice — non si vedeva. Il corridoio restava vuoto: nessun fruscio di petali, nessun passo lieve. Mancava il suo cestino, e con lui la sua allegria. Un brusio incerto serpeggiò nella sala mentre io stringevo il bouquet con le mani tremanti, il cuore che martellava di un’angoscia improvvisa.

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Alice aspettava quel giorno con la tenacia di chi insegue un sogno. L’avevo conosciuta quando aveva appena sei anni: diffidente, timida, gli occhi pieni di silenzi. Sua madre era andata via troppo presto e fidarsi del mondo, per lei, era faticoso. A poco a poco, però, tra torte impastate insieme e fiabe bisbigliate alla sera, avevamo costruito un legame vero. Una volta, mentre le pettinavo i capelli, mi sussurrò: «Spero che resterai per sempre». Le promisi che non me ne sarei mai andata.

Quando io e suo padre ci fidanzammo, era al settimo cielo. «Posso fare la damigella con i fiori?», fu la sua prima domanda. Disegnò l’abito dei sogni su un quaderno rosa e non saltò nemmeno una prova. Visse ogni dettaglio delle nozze al mio fianco, orgogliosa del suo ruolo.

La mattina del matrimonio volteggiava nel vestitino bianco con un nastro rosa, sfoggiando il suo sorriso sdentato. «Ho provato mille volte il mio passo», ridacchiò, gonfia d’orgoglio.

Per questo, quando al suo posto fece ingresso, incerta e impreparata, mia nipote Emma, capii che qualcosa era davvero fuori posto. «Dov’è Alice?» mormorò David, confuso. Nessuno l’aveva più vista dalla fine del servizio fotografico.

La cerimonia si fermò. Mio padre e mio zio iniziarono a cercare ovunque. Io tremavo, la mente attraversata dai pensieri peggiori. Poi qualcuno gridò: «Sss… ascoltate! Un colpetto!». Un suono fievole, ritmico, arrivava dal corridoio dietro la cucina, fino a una porticina di ripostiglio chiusa a chiave.

Dopo tentativi frenetici, la wedding planner riuscì ad aprire. Dentro, rannicchiata in un angolo, c’era Alice: le guance rigate dalle lacrime, il mascara sciolto, le mani aggrappate al cestino. Petali sparsi sul pavimento, come se avessero pianto insieme a lei.

Mi inginocchiai senza curarmi dell’abito e la strinsi forte. «Amore mio…». Lei tremava, il viso nascosto sulla mia spalla.
«Ho fatto tutto come mi avevi detto… perché mi hai punita?» singhiozzò.
«Punita? Chi te l’ha detto?» chiesi, incredula. Con un dito esitante indicò l’altra estremità della sala.

Stava indicando Milana, mia cognata.

Il silenzio diventò pesante. «Ha detto che meritavo un castigo. Mi ha spinta dentro e ha chiuso a chiave.»

Mi voltai verso Milana, immobile, le braccia conserte.
«Hai chiuso una bambina in un ripostiglio?» La mia voce tremava di rabbia.
«Non esagerare, sono stati due minuti» sbuffò.
«Ha nove anni! Era terrorizzata!» ribattei.
«Non è nemmeno tua figlia» sputò fuori, lasciando trasparire chi fosse davvero. «Emma meritava di stare al centro, almeno una volta.»

Tutto si chiarì: gelosia, rivalità, il bisogno di primeggiare. Da quando era nata Emma, Milana non aveva mai tollerato di essere messa in ombra.

Gli ospiti mormorarono indignati. Una zia gridò: «Hai davvero rinchiuso una bambina per un matrimonio?». Milana fu accompagnata fuori con Emma, ancora intenta a minimizzare: «Lo dimenticherà». Ma noi sapevamo che non sarebbe andata così.

Alice mi stringeva la mano, gli occhi arrossati e stanchi. Mi chinai: «Vuoi ancora farlo? È il tuo momento, se lo desideri». Lei annuì, raccogliendo il coraggio che le restava.

La musica riprese. Questa volta Alice percorse il corridoio tra un’ovazione spontanea. Tutti si alzarono, molti con le lacrime agli occhi. Ogni passo, ogni petalo, era un gesto di forza e dignità. Arrivata all’altare, sussurrò a David: «Ce l’ho fatta».
«Ed è stato magnifico», rispose lui, la voce incrinata dall’emozione.

Di quel giorno non restò lo scandalo, ma la certezza che l’amore e la famiglia avevano vinto sulla cattiveria e sull’invidia.

Per settimane, dopo le nozze, Alice tenne il cestino accanto al letto. Ogni sera lo indicava con orgoglio: «Ti ricordi quando sono stata la damigella più coraggiosa del mondo?».
«Lo ricordo» le dicevo, sorridendo. «E non lo dimenticherò mai.»

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