«È passato un anno dalla morte di mia madre. Nel frattempo, il suo ex non solo ha continuato ad abitare nella nostra casa, ma ha persino avuto l’ardire di portarsi dentro la nuova compagna, convinto che alla fine me ne sarei andata io. Non sapeva però con chi aveva a che fare: l’ho affrontato senza giri di parole, mettendo le cose in chiaro una volta per tutte.»

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Era passato un anno dalla morte di mia madre quando tornai nella casa in cui ero cresciuta. Ma non era più la stessa. Proprio accanto alla porta d’ingresso c’erano le mie valigie, abbandonate come se fossi io l’ospite indesiderata. Dentro, sul divano, una donna che non avevo mai visto era sdraiata con aria regale, avvolta nella vestaglia di mia madre.

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«Finalmente,» mi disse con un sorrisetto arrogante, «pensavamo ti fossi già sistemata altrove.»

Non aveva capito una cosa essenziale: quella casa non era né sua, né di Rick, l’ex compagno di mia madre. Era mia.

Feci rotolare la valigia all’interno, respirando un odore disgustoso: fritto mescolato a profumo dozzinale. In quell’istante capii che quel luogo non aveva più nulla della mia casa. Sul divano, la donna sorseggiava vino con le gambe accavallate, il telecomando in mano, la sicurezza di chi si crede padrona. Ma ciò che mi trafisse fu la vestaglia: la stessa che mia madre indossava nelle sere d’inverno.

«Chi sei?» le chiesi, dura.
«Vanessa. Piacere. La nuova fidanzata di Rick.»

La mandibola mi si serrò. Rick era uscito, disse lei, ma “dovevamo parlare”. Secondo loro, dovevo andarmene.

La guardai negli occhi. «Questa casa è mia.»

Rise. «Oh, andiamo. Rick ti ha fatto un favore a lasciarti restare finora. Sei grande, è tempo di farti la tua vita.»

Le sue parole erano veleno, ma io restai immobile, impassibile. Sapevo una cosa che lei ignorava: mia madre, poco prima di morire, mi aveva stretto la mano e sussurrato: “È tutto in regola, la casa è tua. Non temere”.

Ero rimasta in silenzio per rispetto, avevo dato tempo a Rick. Troppo tempo. Ora però aveva trasformato il mio dolore in un pretesto per appropriarsi di ciò che non gli spettava.

Quando Rick rientrò, cercò di recitare la parte del padrone. Mi baciò la guancia come fossi un’estranea. «È la cosa giusta da fare, andartene.»

Ma il campanello suonò. Aprii. Era l’avvocato di mia madre. Con tono fermo annunciò: «La proprietà è intestata a lei e solo a lei. I documenti parlano chiaro.»

Il volto di Rick impallidì. Vanessa, furiosa, afferrò la borsa e lo insultò: «Mi hai mentito!». Se ne andò sbattendo la porta.

Rick rimase a fissarmi, disfatto. Tentò di giustificarsi, ma l’avvocato fu netto: era un occupante abusivo. Poco dopo, due agenti bussarono: aveva ventiquattro ore per andarsene.

Quella notte lo sentii trascinarsi per la casa, spostando scatole e mormorando tra sé. Io restai seduta, immobile, accanto al camino. Non provavo trionfo, solo una stanchezza profonda.

All’alba, per la prima volta dopo un anno, la casa era davvero mia. Silenziosa. Libera.

Presi una foto di mamma, nascosta dietro una scatola dimenticata. Accarezzai la cornice e sussurrai: «Ce l’ho fatta, mamma».

Molti confondono la gentilezza con la debolezza. Io invece ho scoperto che la mia forza era proprio dire basta. E con quella forza mi sono ripresa la mia vita.

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