Seduti a un tavolino di un caffè raccolto, io e il mio bimbo di cinque anni, Artyom. Lui centellinava il suo succo quando lo vidi fissare, oltre la vetrina, un uomo. Abiti consunti, volto stanco, una borsa lisa quasi vuota tra le mani: sembrava tutto ciò che gli fosse rimasto.
«Mamma…» sussurrò tirandomi piano la manica. «Chi è quello?»
Seguii il suo sguardo. «Credo che non abbia una casa, amore.»
Lui aggrottò la fronte. «Che vuol dire?»
«Che forse non ha un posto dove dormire… e magari neppure qualcosa da mangiare.»
Non servì altro. Prima che potessi fermarlo, scese dalla sedia e corse fuori. Si piantò davanti a quell’uomo e lo salutò come si fa con un vecchio amico.
«Non hai una casa? Allora vieni a cena con noi!» disse, sorridendo.
L’uomo abbassò gli occhi sulle scarpe consumate. Nel locale calò un silenzio curioso: tutti aspettavano. Gli rivolsi un sorriso e feci cenno di sì. «Per favore, lasciaci offrirti qualcosa.»
La cameriera arrivò con il taccuino, ma Artyom fu più rapido: «Per lui l’hamburger più grande che avete!» esclamò soddisfatto.
Quando il piatto atterrò sul tavolo, il mio piccolo alzò una mano: «Aspetta! Prima dobbiamo pregare.» E lì, in mezzo al caffè, chinò il capo e disse una breve benedizione.
Undici persone — compreso l’uomo — avevano gli occhi lucidi. La cameriera si asciugava le lacrime, un camionista in fondo alla sala sorrideva e annuiva. L’uomo guardava Artyom come se, per la prima volta dopo tanto, qualcuno lo vedesse davvero.
Capìi che la gentilezza non ha bisogno né di soldi né di grandi discorsi: a volte basta il cuore limpido di un bambino.
E non finì lì. Mentre chiacchieravano, i clienti cominciarono a pagare il conto di altri e a lasciare banconote in cassa.
«Per chi ne avrà bisogno,» disse un’anziana signora, posando venti euro.
Il camionista aggiunse qualcosa in più: «Così avrà anche la colazione.»
La cameriera, incredula, scosse il capo: «Lavoro qui da dodici anni… mai visto nulla del genere.»
L’uomo assaggiò l’hamburger. «È il pasto migliore che faccio da anni,» mormorò con la voce rotta. Poi mi guardò: «Una volta avevo un figlio. Avrà più o meno la sua età. Non lo vedo da tanto… Ho sbagliato molto, ma questo gesto mi dà speranza. Forse non è troppo tardi.»
«Non è mai troppo tardi,» risposi.
Quando ci alzammo, Artyom si tolse la sua felpa rossa — quella che metteva sempre — e gliela porse.
«Così non prendi freddo.»
L’uomo la strinse al petto come un tesoro.
Mentre uscivamo, lo vidi di nuovo attraverso la vetrina: non era più solo. Il camionista e l’anziana signora sedevano con lui, lo ascoltavano, lo trattavano come qualcuno che conta.
Forse quel piccolo gesto aveva messo in moto qualcosa di più grande di noi.
Quella sera, a casa, abbracciai forte Artyom mentre lo mettevo a letto.
«Ho fatto bene, mamma?» chiese con voce impastata dal sonno.
Gli baciai la fronte. «Hai fatto qualcosa di meraviglioso.»
«Allora voglio rifarlo domani.»
E capii che la bontà, quando nasce dal cuore, non è un episodio: è un modo di vivere.