«Avevamo aperto le porte di casa a una bimba di quattro anni; dopo appena un mese mi guardò dritta negli occhi e disse: “Mamma, non fidarti di papà”.»

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Ricordo nitidamente quel momento: era passato appena un mese da quando avevamo adottato Jenya. Mi si avvicinò in punta di piedi, gli occhi grandi e limpidi, e sussurrò:
«Mamma, non fidarti di papà».

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Quelle parole mi rimasero addosso come un brivido. Da allora una domanda mi pungeva di continuo: che cosa poteva nascondere Oleg?

Guardai il suo faccino dolce, un po’ esitante, e provai la certezza che, dopo tanta attesa, la nostra bambina fosse finalmente con noi. Oleg era raggiante; non riusciva a staccarle gli occhi di dosso, come se volesse memorizzare ogni suo gesto.
«Guardala, Marina» mormorò, quasi commosso. «È perfetta».
Sorrisi e posai la mano sulla spalla di Jenya. «È davvero splendida».

Per arrivare fin lì avevamo macinato visite, analisi, documenti senza fine e interminabili attese. Eppure, appena varcata la soglia della stanza in cui l’avevamo vista per la prima volta, avevo capito che era nostra figlia.

Era minuta e silenziosa, ma fin da subito la sentimmo parte di noi.

Qualche settimana più tardi, durante una passeggiata, Oleg provò a rompere il ghiaccio:
«Ti andrebbe un gelato? Che ne dici?»
Jenya alzò lo sguardo verso di me, cercando una conferma, poi annuì piano e si strinse al mio fianco.
Oleg sorrise, sebbene con un lieve velo d’incertezza:
«Allora andiamo. Un piccolo regalo speciale».

Camminava un passo avanti, tentando con domande leggere di farla parlare. Lei, però, evitava di rispondere e intrecciava sempre più forte le dita alle mie.
Al bar, Oleg chiese:
«Preferisci cioccolato o fragola?»
Jenya lo fissò appena e mormorò:
«Vaniglia, per favore».
Mang iò in silenzio, senza quasi incrociare lo sguardo di Oleg, restando incollata a me con un’attenzione prudente.

Quella sera, mentre la rimboccavo, mi afferrò la mano con forza.
«Mamma?»
«Dimmi, amore».
Esitò, poi tornò a guardarmi con serietà:
«Non fidarti di papà».
Il cuore mi balzò in gola. Le accarezzai i capelli per calmarmi e farla calmare.
«Perché lo dici?»
Lei strinse le spalle, triste:
«Parla in modo strano… come se nascondesse qualcosa».
Rimasi un attimo in silenzio, scegliendo le parole:
«Jenya, papà ti vuole bene. Vuole solo che qui tu ti senta a casa. Lo sai, vero?»
Non rispose; si rannicchiò sotto la coperta. Il suo sguardo serio mi lasciò addosso una sottile inquietudine.

Uscendo, trovai Oleg sulla soglia.
«Com’è andata?» chiese con speranza.
«Si è già addormentata» risposi con dolcezza, mentre nella testa rimbombava la frase di Jenya.

Il giorno seguente, mentre cucinavo, sentii Oleg parlare al telefono con voce tesa dietro la porta socchiusa.
«È più complicato di quanto pensassi» diceva piano. «Jenya nota molto più di quanto immaginassi. Temo che ne parlerà con Marina».
Il sangue mi si gelò.
«È difficile tenere tutto nascosto… Non voglio che Marina lo sappia, almeno non ancora».

Afferrai il bordo del tavolo per non tradirmi. Quando Oleg entrò in cucina, feci finta di nulla.
«Che profumino» disse abbracciandomi. «Hai fatto un capolavoro».
Abbozzai un sorriso, ma dentro ero un nodo.

Più tardi, quando Jenya dormiva, decisi di non girarci più attorno.
«Oleg, ho sentito la tua telefonata».
Lui sollevò lo sguardo, spiazzato.
«Che cosa hai sentito?»
«Che temi quello che Jenya potrebbe dirmi. Che stai nascondendo qualcosa. Che cosa mi stai nascondendo?»

Mi prese la mano, con la voce bassa:
«Marina, non è come pensi».
«Allora spiegami».
Sospirò, quasi vergognandosi:
«Stavo organizzando una sorpresa per il compleanno di Jenya. Mio fratello mi sta aiutando».
«Una sorpresa?»
«Sì. Volevo che si sentisse davvero accolta… parte della famiglia».

Rimasi in silenzio, sentendo la tensione sciogliersi a poco a poco.
«Avevo paura» confessai.
Oleg sorrise, stringendo più forte la mia mano.
«Andrà bene. Stiamo solo imparando a vivere insieme».

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