Ho trascorso una vita intera a inseguire l’ombra di mia madre — e quando, alla fine, l’ho avuta davanti, le sue prime parole sono state: «Immagino che tu sia venuto per quello che c’è nel seminterrato.»
Cresciuto tra affidi e istituti, ho rincorso per anni l’immagine di una donna che non avevo mai conosciuto. Al momento dell’incontro non ci sono stati abbracci, né scuse. Solo uno sguardo lungo, una porta socchiusa, e la promessa di un segreto. Per vent’anni mi sono aggrappato all’idea che, guardandola negli occhi, avrei potuto chiederle perché mi avesse lasciato. Da un dormitorio all’altro ho coltivato la speranza che non fosse stata davvero una scelta, che da qualche parte esistesse un posto in cui io contassi davvero.
Di notte il suo nome mi tornava addosso come un nastro rovinato: ogni compleanno, ogni Natale senza di lei riapriva la stessa ferita.
A diciott’anni ho iniziato a cercarla con quasi niente in mano: non conoscevo il suo cognome completo, solo “Marla” e un ricordo fragile tenuto insieme dalla testardaggine.
Ho frugato archivi, contattato investigatori, bruciato risparmi su banche dati, seguito piste che si dissolvano come condensa sul vetro. Ma non ho mollato.
Poi, poco dopo il mio ventesimo compleanno, una famiglia affidataria ha trovato una busta sgualcita infilata in un vecchio fascicolo dei servizi sociali: un indirizzo scritto a penna e, sopra, quel nome — “Marla”. Il cuore mi è schizzato in gola. Sembrava un filo d’oro teso tra me e un passato che non avevo mai smesso di inseguire.
Ho messo da parte i soldi per un abito blu scuro, comprato un mazzo di margherite — senza sapere se le fossero mai piaciute — e una torta al cioccolato, come se bastasse a inaugurare un inizio pulito.
Davanti al suo portone, la vernice scrostata e il battente consunto mi hanno fatto tremare le mani. Lei ha aperto. Più anziana, i capelli argentati, rughe che raccontavano strade diverse da quelle che avevo immaginato. Ma gli occhi… quelli erano i miei: stessi riflessi, stessa stanchezza.
«Sei Marla?» sono riuscito a dire, con la voce che mi si spezzava.
Mi ha fissato in silenzio. In quell’attimo ho visto affiorare qualcosa: riconoscimento, colpa, forse paura.
«Sono Steve. Sono venuto per te.»
Il suo sguardo ha indugiato su di me come su un puzzle dimenticato. Poi un sorriso tenue, indecifrabile, insieme invito e monito.
«No,» ha mormorato, ferma, «credo che tu sia qui per ciò che si nasconde nel seminterrato.»
L’aria della casa si è fatta spessa, come se trattenesse il respiro. Mi ha guidato lungo il corridoio, fino a una porta sul fondo.
«Aspetta, Marla… Che cos’è, laggiù?» ho chiesto, più supplica che domanda.
Non ha risposto. La mano sulla maniglia consumata tremava appena. «È arrivato il momento che tu sappia.»
La porta si è aperta su una scala buia. Un odore di polvere e metallo mi ha investito mentre scendevamo. In fondo, un baule arrugginito ci aspettava, gonfio di fotografie e verità. E capii che quello che cercavo non era un abbraccio, né una scusa: era la storia che nessuno aveva mai avuto il coraggio di raccontare.