«Un’altra femmina? Basta, sparisci dalla mia vita!» sbraitò mio marito come saluto d’addio, prima di voltarmi le spalle e andarsene, lasciandomi sola, con i miei tre figli, nel nostro villaggio.

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«Non ce la faccio più. Ho sempre sognato un maschio, e invece siamo alla terza femmina. Non è la vita che avevo immaginato» disse Sergej, fermo sulla soglia, la vecchia borsa da palestra in mano, evitando di incrociare il mio sguardo.

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Rimasi con il cucchiaio sospeso a mezz’aria. Sul fornello il porridge sobbolliva piano, riempiendo la cucina di un vapore tiepido. Masen’ka, la più piccola, gattonava sul pavimento di legno che gemeva sotto ogni suo movimento, inseguendo i raggi di sole filtrati dalla finestra.

«Se–Sereža… ma che stai dicendo? Guardale» sussurrai con un filo di voce, sentendo le lacrime salire.

Non rispose. Si voltò e uscì. La porta sbatté con un colpo secco, e il silenzio che ne seguì sembrò rompersi in mille frammenti. Masen’ka iniziò a singhiozzare, come se avesse percepito che qualcosa si era spezzato. Il nostro gatto rosso, Bublik, saltò giù dal davanzale e si rifugiò in un angolo. Anja, la maggiore, rimase immobile con un piatto in mano, negli occhi di bambina un lampo di consapevolezza.

«Mamma, papà torna presto?» chiese Liza, la mezzana, tirandomi il grembiule, ignara di ciò che era appena successo.

Sistemai l’asciugamano che mi raccoglieva i capelli e le guardai. Loro erano tutto ciò che avevo.
«Su, a tavola. Il porridge si raffredda» dissi piano.

Dentro di me speravo ancora che lui tornasse. Forse il giorno dopo. O quello dopo ancora. Ma passò una settimana. Poi un’altra. I vicini, quando mi incontravano, distoglievano lo sguardo.

Nad’a, la mia vicina, cominciò a passare sempre più spesso: a volte con una torta, a volte con un barattolo di marmellata, a volte solo per giocare con le bambine mentre io finivo i lavori.

«Incredibile…» borbottava la sera, quando le piccole già dormivano. «Si credeva un uomo, e invece è fuggito come un ragazzino. Dai figli, dalla famiglia!»

Io fissavo il vetro della finestra, oltre il quale le foglie dell’acero iniziavano a ingiallire.
«Ultimamente era cambiato» mormorai. «Sembrava non voler neppure guardare Masen’ka. Ripeteva che voleva un maschio. Tre figlie erano troppe.»

«E adesso?»
«Adesso ce la faremo da sole» risposi, con una determinazione che non sapevo di avere.

I giorni scorrevano lenti e densi, come miele scuro. Di notte piangevo nel cuscino, attenta a non farmi sentire. Di giorno lavoravo senza tregua: lavare, cucinare, impastare, pulire. I sussidi bastavano a malapena per il necessario. La schiena mi doleva, la farina si infilava sotto le unghie, ma ogni mattina mi alzavo e ricominciavo.

«Mamma, papà è morto?» mi chiese un giorno Liza, fissando una foto sul comò.
«No, tesoro. Papà se n’è andato.»
«Perché?»
«A volte gli adulti fanno cose che i bambini non capiscono» risposi, trattenendo la verità in gola.

Con ottobre arrivarono umidità e sere piovose. Sigillavo le fessure delle finestre con stracci. Anja, cresciuta troppo in fretta, aiutava come poteva: prendeva in braccio Masen’ka, copriva Liza con una coperta, stava sempre accanto a me.

«Ce la faremo, mamma» disse una sera, pelando patate.
«Certo che sì, piccola mia» le baciai la testa, che profumava di stufa e mele.

Il giorno in cui Masen’ka pronunciò «Anja» per la prima volta, mi ritrovai a ridere come non succedeva da tempo.
«È ora di preparare l’impasto» dissi, decisa. «Domani faccio brioche per la bottega.»

Un anno dopo, la neve scendeva lenta. Di Sergej, nessuna notizia.
«Verrà a Capodanno?» chiese Liza, stringendo la sua coniglietta di pezza.
«Va’ a dormire, amore. La nostra strada è qui.»

Non sapevo se ce l’avrei fatta, ma una cosa era certa: le mie figlie non si sarebbero sentite abbandonate.

La casa ora era piena di odore di dolci e risate. Io mi scoprivo più solida. Nad’a mi guardava e diceva: «Sei un’altra rispetto a quando lui era qui. Sei sbocciata.»

Arrivò il giorno in cui mi chiamarono da scuola: Anja aveva picchiato un compagno che le aveva detto che il padre le aveva lasciate perché nessuno le voleva. «Gli ho rotto il naso» disse senza vergogna.
«Non si picchia» la rimproverai.
«E come dovevo fare? Tutti mormorano.»
«Ignora. Noi sappiamo chi siamo.»

In primavera sbocciarono i tulipani che Sergej aveva piantato. Non li tolsi: i fiori non c’entravano.

Dieci anni dopo, Anja entrava all’università. Masen’ka giocava in cortile, Liza sfornava biscotti. La casa aveva pareti nuove, pavimenti puliti, disegni appesi. Un cartello fatto da Masja diceva: «La famiglia più bella del mondo».

Una notte, io e Anja restammo sulla veranda. «Hai paura?» le chiesi.
«Un po’. E se non sarò all’altezza?»
«Ce la farai. Siamo forti. Lo siamo sempre state.»

Quando partì per l’università, la guardai salire sull’autobus con il cuore in gola. Liza si strinse a me.
«Ce la faremo, mamma.»
«Certo che sì, piccola» sussurrai.

E sapevo che era vero.

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