«Abbiamo adottato un bambino di tre anni. Ma la prima volta che mio marito l’ha accompagnato in bagno, l’ho sentito gridare dal corridoio: “Così non va, dobbiamo riportarlo indietro!”»

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Dopo anni trascorsi a rincorrere una gravidanza che non arrivava mai, abbiamo adottato Sam, un bimbo di tre anni con occhi azzurri profondi come l’oceano. Ma la prima volta che mio marito è andato a fargli il bagnetto, l’ho visto uscire dal bagno di corsa, sconvolto, urlando: «Abbiamo fatto un errore, dobbiamo restituirlo!».
All’inizio mi era sembrata una reazione assurda, quasi offensiva… finché non ho notato quel segno inconfondibile sul piedino di Sam.

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Non avrei mai pensato che il giorno in cui avrei finalmente portato a casa mio figlio adottivo sarebbe stato lo stesso in cui il mio matrimonio avrebbe cominciato a sgretolarsi. Oggi, ripensandoci, capisco che alcuni doni arrivano avvolti nel dolore, e che a volte l’universo ha un tempismo spietato.

«Sei agitato?» chiesi a Mark mentre guidava verso l’agenzia.

Stringevo fra le dita il piccolo maglioncino azzurro che avevo comprato per Sam. Lo accarezzavo come se lo indossasse già: nella mia mente vedevo le sue spalle magre riempirlo, il colletto sfiorargli la nuca.

«Io? Ma figurati,» borbottò. Eppure le nocche, serrate sul volante, erano bianchissime. «Voglio solo arrivare puntuale. È il traffico che mi manda ai pazzi.»

Tamburellava con le dita sul cruscotto, quel tic nervoso che negli ultimi mesi era diventato il suo sottofondo costante. «Comunque, la vera tesa sei tu,» aggiunse con un sorriso tirato. «Hai controllato il seggiolino dell’auto almeno tre volte.»

«Colpevole,» ammisi con un sospiro. «Aspetto questo momento da anni.»

Il percorso dell’adozione mi aveva consumata: montagne di moduli da compilare, telefonate infinite, visite a casa, colloqui con psicologi e assistenti sociali. Mentre Mark era sempre più immerso nell’espansione della sua azienda, ero stata io a seguire ogni dettaglio, a confrontare le agenzie, a leggere i profili dei bambini, a domandarmi se saremmo stati all’altezza.

All’inizio sognavamo un neonato, ma le liste d’attesa sembravano senza fine. Così ho iniziato ad allargare i criteri.

Fu allora che vidi la foto di Sam: tre anni, occhi chiari come un cielo d’estate, un sorriso che sembrava aprire una porta nel petto.

Sua madre lo aveva lasciato alle spalle e in quello sguardo c’era qualcosa che mi colpì nel profondo. Una velatura di tristezza dietro il sorriso, una serietà che non appartiene a un bambino così piccolo. Forse era destino, forse solo il mio cuore che aveva deciso per me.

«Guarda questo bimbo,» dissi a Mark una sera, porgendogli il tablet. La luce dello schermo gli illuminava il viso mentre osservava la foto.

Lo vidi sciogliersi quasi subito. «È bellissimo. E quegli occhi… sono incredibili.»

«Pensavo che tre anni fossero… troppo impegnativi per noi.»

«Ce la caveremo,» rispose, stringendomi la spalla. «Non è l’età che conta. E tu sarai una madre straordinaria.»

Così abbiamo completato le pratiche. Dopo un’attesa che sembrò un altro anno in sospeso, arrivò finalmente il giorno.

All’agenzia, la responsabile, la signora Chen, ci accompagnò in una stanzetta con tappeti colorati e giocattoli sparsi ovunque. Sam era lì, concentrato su una torre di blocchi.

«Sam,» disse lei con voce dolce, «ti ricordi della coppia di cui ti parlavo? Sono arrivati.»

Mi accovacciai accanto a lui, il cuore che martellava. «Ciao, Sam. Che torre fantastica. Ti va se ti aiuto a farla ancora più alta?»

Lui sollevò lo sguardo verso di me, serio, senza dire una parola. Sembrava valutarmi. Poi annuì e mi porse un blocco rosso. Quel gesto minuscolo mi parve un sì enorme, un ponte verso tutta la nostra vita insieme.

Il viaggio verso casa fu ovattato, quasi irreale. Sam teneva stretto un elefantino di peluche che avevamo portato per lui e ogni tanto lo faceva “barritare” con un verso buffo. Ogni suo suono strappava a Mark una risata breve, come se non sapesse ancora bene come comportarsi. Io continuavo a girarmi verso il sedile posteriore per assicurarmi che fosse davvero lì. Ogni volta che lo vedevo, mi ripetevo: È nostro. È davvero qui.

Una volta arrivati, iniziai a sistemare le sue poche cose. La borsetta che lo aveva accompagnato nell’ennesimo spostamento era fin troppo leggera per contenere l’universo di un bambino.

«Lo porto io in bagno, così nel frattempo sistemi la cameretta,» propose Mark, appoggiato allo stipite.

Mi illuminai. «Perfetto. Sul mobile del bagno trovi i giochini per il bagnetto, mettili nella vasca.»

Li osservai allontanarsi lungo il corridoio: Mark che lo teneva in braccio con un misto di goffaggine e tenerezza, Sam che non mollava il suo elefantino. Io, nella sua nuova cameretta, ripiegavo magliettine e calzini minuscoli, sorridendo tra me e me. Tutto sembrava finalmente avere un senso.

La pace durò meno di un minuto.

Il grido di Mark squarciò il silenzio. Mi ghiacciai sul posto. Lasciai una maglietta a metà nel cassetto e corsi verso il bagno. Lui comparve sulla soglia ansimando, bianco come il muro.

«Che succede?» chiesi, il cuore in gola. «È successo qualcosa?»

«Io… io non ce la faccio,» balbettò, camminando avanti e indietro come un animale in gabbia. «È stato un errore. Dobbiamo riportarlo indietro. Non posso far finta che sia mio figlio.»

Mi aggrappai allo stipite per non perdere l’equilibrio. «Ma che stai dicendo? Non è un pacco da rimandare al mittente, Mark! È nostro figlio.»

«Non chiedermi di spiegartelo,» sussurrò, evitando accuratamente i miei occhi. «Qualcosa dentro di me si è bloccato. Non… non riesco a vederlo come mio.»

«Fino a un’ora fa ridevi con lui in macchina!» gridai, sentendo la gola stringersi. «Cosa ti è scattato adesso?»

Si passava le mani tra i capelli, il respiro agitato. «È troppo. È come se mi fosse crollato tutto addosso all’improvviso.»

Lo scansai senza replicare ed entrai in bagno.

Sam era seduto nella vasca vuota, ancora con addosso maglietta e pantaloni. Aveva solo tolto scarpe e calzini. Teneva l’elefantino stretto al petto e ci fissava, spaesato.

Mi imposi un sorriso morbido. «Ehi, campione. Allora, pronto per il bagno? Anche il signor Elefante vuole lavarsi?»

Lui scosse appena la testa. «Ha paura.»

«Allora lo mettiamo qui, a fare il tifo per te,» dissi, poggiando il peluche sul ripiano.

Mentre lo aiutavo a spogliarsi, qualcosa attirò la mia attenzione: sul piede sinistro, una macchia scura, una voglia dalla forma particolare, in un punto esatto. Sentii lo stomaco contrarsi.

Quella voglia la conoscevo fin troppo bene. L’avevo vista su un altro piede, mille volte: in spiaggia, a bordo piscina, sul divano di casa. Era identica a quella di Mark: stessa forma, stessa posizione.

Le mani mi tremavano mentre aprivo l’acqua e versavo il bagnoschiuma. Sam rideva e soffia sulle bolle.

«Guarda, sono bolle magiche!» esclamò, toccandole con un dito.

«Sì… proprio magiche,» mormorai, mentre nella mia testa i tasselli cominciavano a incastrarsi in modo feroce.

Quella sera, dopo avergli letto una storia e rimboccato le coperte, mi sedetti sul letto di fronte a Mark. Tra noi, più che qualche centimetro di materasso, c’era un baratro.

«La voglia sul piede di Sam,» dissi piano, «è uguale alla tua.»

Mark, che stava togliendosi l’orologio, si irrigidì. Poi tentò una risata forzata. «Capita. Le voglie ce le hanno in tanti.»

«Non prendere in giro la mia intelligenza, Mark. Voglio che tu faccia un test del DNA.»

«Ti rendi conto di quello che dici?» esplose. «Sei esausta, è stata una giornata massacrante. Stai esagerando.»

La sua difesa, troppo rapida, era già una mezza ammissione.

Il giorno dopo, mentre lui era in ufficio, prelevai alcuni capelli dalla sua spazzola. La sera, al momento di lavare i denti, passai con delicatezza un tampone all’interno della guancia di Sam. A lui dissi che era un “controllino” per il dottore.

Spedii tutto al laboratorio. L’attesa fu una tortura.

Nei giorni successivi Mark si fece sempre più sfuggente: rientrava tardi, parlava meno, si nascondeva dietro il lavoro arretrato. Io, al contrario, mi stringevo a Sam come a un salvagente.

Nel giro di poco, iniziò a chiamarmi «mamma». Ogni volta che quella parola gli usciva dalle labbra, mi si scioglieva il cuore per la tenerezza… e si stringeva per il segreto che ancora gli nascondevo.

Costruimmo una routine tutta nostra: pancake la mattina, corse al parco nel pomeriggio, fiabe ripetute mille volte la sera. Sam raccoglieva sassolini e foglie secche, i suoi “tesori”, e li allineava sul davanzale, orgoglioso.

Dopo due settimane arrivò la mail del laboratorio. Stampai il referto e mi sedetti al tavolo della cucina. Le parole si confondevano, ma una frase era limpida: Mark risultava il padre biologico di Sam.

Rimasi immobile, ascoltando in lontananza la risata di Sam in giardino, mentre inseguiva le bolle di sapone che gli avevo comprato.

Quando affrontai Mark con il foglio in mano, non tentò nemmeno di negare.

«È successo una sola volta,» mormorò, le spalle curve. «Ero a una conferenza, avevo bevuto troppo. Non so nemmeno come si chiamasse quella donna. Non immaginavo che…»

«Quattro anni fa?» lo interruppi, la voce di ghiaccio. «Quando io facevo punture, esami, cure ormonali, e piangevo chiusa in bagno ogni mese?»

Chiuse gli occhi, come volesse spegnere tutto. «Mi vergogno di quello che ho fatto. Ero convinto che non l’avrei mai più rivista. Poi ho visto quel bambino nella vasca, quella voglia… e mi è crollato tutto addosso.»

Non risposi. Il giorno dopo fissai un appuntamento con un’avvocata, Janet, una donna dal sorriso misurato e lo sguardo lucidissimo. Le raccontai tutto: i tentativi di avere un figlio, le cure, l’adozione, la voglia sul piede, il test.

«Dal punto di vista legale,» spiegò, «lei è la madre di Sam a tutti gli effetti. L’adozione la tutela pienamente. Il fatto che suo marito sia il padre biologico, emerso successivamente, non gli dà automaticamente alcun vantaggio sulla custodia.»

Sentii sciogliersi almeno uno dei tanti nodi che mi stringevano il petto. «Voglio il divorzio,» dissi, quasi stupita dalla tranquillità della mia voce. «E voglio l’affidamento esclusivo di Sam.»

Quella sera, dopo che Sam si fu addormentato, gli parlai senza giri di parole. «Ho consultato un’avvocata. Voglio separarmi. E crescerò Sam da sola.»

«Non puoi portarmelo via!» esplose.

«Sam ha già perso una madre,» replicai fredda. «E tu eri pronto a “restituirlo” il primo giorno. Non lascerò che venga abbandonato di nuovo.»

Il suo viso si deformò in una smorfia di dolore. «Ti amo.»

«Ti ami più di chiunque altro,» risposi. «Io e Sam meritiamo di meglio.»

Alla fine Mark non si oppose. Le pratiche del divorzio si conclusero relativamente in fretta. Sam si adattò più facilmente di quanto temessi, anche se ogni tanto, con gli occhi pieni di interrogativi, mi chiedeva perché il papà non vivesse più con noi.

«A volte i grandi fanno errori molto grandi,» gli dicevo, accarezzandogli i capelli. «Ma non è colpa tua. E non vuol dire che tu non sia amato.»

Sono passati anni, da allora. Sam è diventato un ragazzo meraviglioso: curioso, attento, gentile, con lo stesso sorriso che, in quella foto, mi aveva trafitto il cuore. Mark gli manda un biglietto di compleanno, una mail ogni tanto. Potrebbe esserci di più nella sua vita, ma sceglie la distanza. È una sua scelta, non mia.

Chi viene a conoscenza della nostra storia, spesso mi chiede se, col senno di poi, avrei voluto “restituire” Sam quando la verità è venuta a galla. Sorrido e scuoto la testa.

Sam non è “solo” un figlio adottivo. È mio figlio. Punto. La biologia e il tradimento non cambiano il fatto che quel giorno, quando ho preso quel blocco rosso dalla sua mano e lui ha lasciato che mi sedessi accanto a lui, io ho scelto di essere sua madre. L’amore non è sempre semplice, ma è sempre una scelta. Io ho scelto lui, e non lo lascerò mai.

Be’, tranne il giorno in cui lo accompagnerò verso la persona che amerà… e quella persona dovrà dimostrarsi degna di lui.

Un’altra storia: anche se ero una mamma single allo stremo delle forze, quella sera della vigilia di Natale non sono riuscita a ignorare l’anziana signora tremante, seduta sul marciapiede al freddo. L’ho aiutata senza pensarci troppo e mai avrei immaginato che quel semplice gesto di gentilezza avrebbe portato un misterioso SUV di lusso davanti alla mia porta… e avrebbe ricucito i pezzi del mio cuore spezzato.
Scopri qui come è andata davvero.

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