«— Davvero pensi che sia un posto in cui crescere un bambino?»
Il mio sguardo scivolò sulle pareti storte della casa, inclinate come se bastasse un soffio di vento per farle crollare. Sembrava che si reggessero solo grazie a qualche chiodo arrugginito e a un vecchio miracolo ormai scaduto.
«— Olga, non esageriamo con le tragedie. Ti sto lasciando tutta la casa con il terreno, quando potrei tranquillamente sbatterti fuori in strada», bofonchiò Viktor, gettando l’ultima borsa sul vecchio portico che scricchiolò in segno di protesta.
Parlava con la stanchezza irritata di chi è costretto a sbrigare una formalità fastidiosa, non come un uomo che sta chiudendo dieci anni di matrimonio.
Abbassai lo sguardo sulle carte che tenevo tra le mani. Di quella vecchia casa ai margini del villaggio non avevo quasi mai sentito parlare. L’aveva ereditata dal nonno, poi era sparita nel fondo della sua memoria… finché non aveva deciso di usarla per liberarsi di noi. Nessun confronto, nessuna spiegazione: solo una proposta di “affare”. Una «concessione», come la definiva lui.
Misha, il nostro bambino di nove anni, se ne stava vicino a me con l’orsacchiotto consunto stretto al petto. Era l’unico giocattolo che aveva afferrato di corsa quando suo padre aveva annunciato, con quello stesso tono freddo, che ci sarebbe stato un trasloco. Nel suo sguardo c’era la paura immobilizzata di un bambino a cui hanno appena rovesciato il mondo addosso, senza nemmeno prendersi la briga di spiegare perché.
«— Firma qui», disse Viktor porgendomi una penna con la stessa faccia annoiata con cui, di solito, chiedeva il conto al ristorante. «Niente alimenti, nessuna pretesa. La casa è tua.»
Firmai. Non perché mi sembrasse giusto, ma perché sapevo di non avere scelta. L’appartamento in città apparteneva ai suoi genitori: giuridicamente, io non contavo nulla. E anche se fossi riuscita a ottenere un mantenimento, sarebbe stato ridicolo.
«— Buona fortuna nella tua nuova… residenza», disse gettando la frase per aria, già voltandosi verso l’auto.
Misha fece un piccolo sussulto, come se volesse corrergli incontro, ma la portiera si era già chiusa con un tonfo secco.
«— Andrà tutto bene, mamma», mormorò il bambino quando la macchina scomparve sollevando una nuvola di polvere sulla strada sterrata. «Ce la caveremo.»
La casa ci accolse con lamenti. Le assi del pavimento scricchiolavano a ogni passo, nell’aria c’era odore di muffa e di legno marcio, ragnatele agli angoli come tende dimenticate. Attraverso le fessure tra le tavole filtrava il freddo, e i telai delle finestre sembravano sul punto di sbriciolarsi in schegge. Misha afferrò la mia mano, e in quel momento sentii chiaramente che non avevamo più alcun ritorno.
Il primo mese fu una piccola lezione di sopravvivenza. Continuavo a lavorare da remoto come designer, ma la connessione saltava in continuazione e ai clienti non importava affatto che io vivessi in un rudere perso in campagna. Le scadenze restavano quelle.
Misha iniziò a frequentare la scuola del villaggio, raggiungendola con una vecchia bici comprata dai vicini. Io, nel frattempo, imparavo a fare cose che non avrei mai pensato di riuscire a fare: tappare buchi nel tetto, cambiare cavi elettrici pericolanti, rinforzare pavimenti infossati.
All’inizio chiesi aiuto a un tuttofare, pagato con gli ultimi risparmi che avevo da parte. Le mie mani, che prima conoscevano solo la tastiera del computer e le creme per le cuticole, si coprirono di calli e piccoli tagli. Eppure, ogni sera, quando Misha si addormentava, uscivo sul portico e guardavo il cielo. Qui le stelle sembravano così vicine che quasi potevo sfiorarle.
«— Non mollare, ragazza», mi disse un giorno Nina Petrovna, la vicina, trovandomi con le lacrime agli occhi dopo l’ennesima infiltrazione d’acqua. «La terra rispetta chi è forte. E tu, credimi, lo sei.»
Nelle sue parole c’era una saggezza semplice, ruvida, che all’inizio mi sembrò solo consolatoria. Ma cominciai a capirla guardando Misha: diventava più robusto, rideva più spesso, nei suoi occhi era apparsa una luce nuova. Si era legato ai bambini del posto, parlava entusiasta delle rane dello stagno e di come aiutava Andrey, il vicino, a sfamare le galline.
Passò quasi un anno. La casa, lentamente, cominciò a cambiare. Ridipinsi le pareti, rifacemmo il tetto con l’aiuto di Semyon, un muratore del villaggio che accettò di lavorare a buon prezzo (per altri operai non avevamo più un soldo), e piantai perfino un piccolo orto dietro casa. La vita restava dura, ma aveva iniziato a prendere una forma tutta nostra.
Quel giorno pioveva a dirotto. Misha era partito con la classe per una gita nel capoluogo di regione, e io decisi che era arrivato il momento di affrontare la cantina. Sognavo di trasformarla in un piccolo laboratorio, dove creare souvenir da vendere ai pochi turisti che, ogni tanto, si avventuravano fino al villaggio.
Scendendo i gradini umidi, non immaginavo minimamente che quel giorno di pioggia fredda avrebbe cambiato tutto.
La cantina era più vasta di quanto pensassi. Il fascio della torcia scivolava su scaffali carichi di cianfrusaglie, scatole dimenticate e vasetti vuoti. L’odore di terra bagnata si mescolava a quello di legno in decomposizione. Cominciai a spostare scatole, a selezionare ciò che serviva e ciò che poteva finire direttamente nella spazzatura: volevo ricavare uno spazio libero dove sistemare il mio futuro laboratorio.
Fu spostando un vecchio cassettone pesantissimo che la vidi: una porticina mimetizzata nel muro, dipinta dello stesso colore, senza maniglie a vista. Sembrava un dettaglio insignificante, ma qualcosa mi pizzicò dentro.
Allungai la mano sulla piccola maniglia arrugginita e tirai. La porta si aprì con un lungo gemito, come se non venisse toccata da decenni.
Dietro di essa c’era un corridoio stretto che conduceva a un vano più piccolo. Illuminando avanti con la torcia, scorsi un grosso baule di legno, rinforzato agli angoli da ferri anneriti.
«— Ma guarda un po’…» mormorai, inginocchiandomi davanti al baule.
La serratura era inutilizzabile: probabilmente arrugginita dall’umidità. Con uno sforzo enorme riuscii a sollevare il pesante coperchio.
Per poco non svenni. Il raggio della torcia rimbalzò su una superficie dorata, calda, opaca. Monete. Una quantità impressionante di monete d’oro. Tra esse, gioielli antichi, bracciali, spille, un paio di lingotti massicci.
Mi tremavano le mani. Ne presi una tra le dita: era insospettabilmente pesante, gelida nel palmo. Avvicinandola alla luce, notai il profilo fine di un imperatore, i tratti scolpiti, le lettere incise lungo il bordo. Sembrava qualcosa uscito da un’altra epoca.
«Non è possibile…» sussurrai, sentendo il cuore martellare tanto da farmi girare la testa. «È davvero… vero?»
Per un istante mi attraversò un pensiero: forse Viktor sapeva dell’esistenza di quel nascondiglio. Ma lo scartai subito. Se avesse anche solo sospettato una cosa del genere, non mi avrebbe mai ceduto la casa così facilmente.
Richiusi il coperchio con le mani che mi tremavano, lo coprii con un vecchio telo e tornai su, quasi barcollando.
La prima cosa che feci fu controllare per tre volte che la porta d’ingresso fosse chiusa a chiave. Poi presi il telefono e composi il numero di Inna, la mia amica dell’università, che ora lavorava come avvocata specializzata in cause ereditarie e patrimoni.
«— Inna, non crederai a quello che sto per dirti», esplosi invece di salutarla. «Ho bisogno di te. Subito. Puoi venire questo weekend?»
«— Olga? Ma che succede? Stai bene?» La sua voce tradiva preoccupazione.
«— Sto bene, credo…» esitai. Come potevo spiegare tutto questo al telefono? «Ti prego, vieni. Te lo racconto qui. È importante.»
Per due giorni vagai per la casa come un’anima in pena. Sussultavo a ogni minimo rumore, controllavo di continuo serrature e finestre. Misha mi osservava preoccupato.
«— Mamma, sei malata?» chiese a cena, quando misi il sale nella zuppa per la seconda volta.
«No, amore, sto solo pensando a… dei nuovi progetti», mentii, accarezzandogli i capelli.
Quella notte dormii a singhiozzo, tendendo l’orecchio a ogni scricchiolio. E se qualcuno altro sapesse del tesoro? Se in paese circolassero leggende su ricchezze nascoste? Se qualcuno avesse voglia di curiosare proprio nella nostra cantina?
Inna arrivò il sabato pomeriggio: impeccabile come sempre, in tailleur anche nel giorno di riposo. Le raccontai tutto in modo confuso, inciampando nelle parole. Lei mi ascoltò in silenzio, con un sopracciglio appena sollevato.
«— O sei sull’orlo di un esaurimento, o hai davvero trovato qualcosa di grosso», commentò alla fine. «Fammi vedere.»
La condussi in cantina. Quando la torcia illuminò il contenuto del baule, Inna trattenne il fiato.
«Ma per tutti i santi…», mormorò, raccogliendo una moneta. «È oro vero. E queste… sono monete antiche, coniate in una zecca ufficiale. Olga, questo non è un bottino qualsiasi. È un patrimonio.»
«— E adesso che faccio?» chiesi, stringendomi nelle spalle per il freddo e per la paura. «Posso… tenerlo?»
Inna tirò fuori lo smartphone e iniziò a scorrere articoli di legge. «— Vediamo… articolo 233 del Codice Civile», mormorò. «Il tesoro ritrovato nel sottosuolo o in una struttura di proprietà di un privato appartiene al proprietario del bene, a meno che non abbia un rilevante valore storico o culturale.»
«— E se lo avesse?» chiesi guardando con timore tutte quelle monete.
«In quel caso lo Stato può confiscarlo, ma ti deve corrispondere il 50% del suo valore di mercato», spiegò lei. «Comunque, la cosa più importante è che il ritrovamento venga registrato ufficialmente. Se nascondi tutto e la cosa salta fuori dopo, potrebbero essere guai seri.»
Il lunedì presentammo la denuncia. La notte precedente all’arrivo della commissione la passai quasi completamente sveglia. Mi giravano in testa mille scenari: se si fossero presi ogni cosa? Se avessero deciso che il tesoro era di valore storico eccezionale e l’avessero portato via?
La commissione era composta da tre persone: una storica anziana con uno chignon rigido e occhiali sottili, un esperto taciturno che non si staccava dalla sua lente d’ingrandimento e un giovane del museo regionale, che prendeva appunti febbrilmente.
Esaminarono ogni pezzo, fotografarono, sussurrarono tra loro, confrontarono documenti e tabelle. Finalmente, la storica si sistemò gli occhiali e mi guardò.
«— Si tratta, con ogni probabilità, di un tesoro di famiglia appartenuto a una ricca casa di fine Ottocento», spiegò. «Probabilmente è stato nascosto durante i tumulti rivoluzionari. Ci sono alcuni pezzi interessanti per i collezionisti, ma non abbastanza rilevanti da giustificare un’espropriazione statale.»
Mi porse un foglio timbrato.
«— La conclusione è questa: il tesoro viene classificato come patrimonio ordinario e, in base alla legge, appartiene alla proprietaria dell’immobile. In questo caso, a lei.»
Quando la commissione se ne andò, lasciandomi in mano il documento, Inna mi abbracciò forte.
«— Congratulazioni, Olga. Questo è un colpo di scena degno di un romanzo», rise. «Ora però dovremo ragionare bene su come usare questa fortuna.»
Guardai le mie mani screpolate, i jeans con le toppe alle ginocchia, e faticai a connettere quell’immagine con le parole “fortuna” e “patrimonio”.
«— E adesso?» sussurrai, ancora stordita.
«— Adesso partiamo da un piano sensato», disse lei con un sorriso pratico. «Niente follie. Procediamo con calma.»
I mesi successivi furono strani, come vivere due vite in parallelo. Di giorno ero la solita donna del villaggio: lavavo, cucinavo, lavoravo al computer, mi occupavo dell’orto e degli animali. La sera, seduta al tavolo con Inna, parlavo di conti deposito, investimenti, valutazioni, periti.
Decidemmo di non vendere tutto subito, per non attirare attenzioni indesiderate. Cominciammo con poche monete, poi un po’ di più, rivolgendoci a esperti diversi in città diverse.
«— Conosco un antiquario a San Pietroburgo», mi disse Inna una sera. «Ha lavorato per anni all’Ermitage. È affidabile e soprattutto discreto.»
L’antiquario, quando vide le monete, fischiò sottovoce.
«Non vedevo pezzi così ben conservati da anni», disse, lucidando gli occhiali. «In asta, alcune di queste potrebbero valere anche dieci volte il semplice peso dell’oro.»
Quando sul mio conto comparve la prima somma davvero importante, feci la mia prima grande scelta: comprare una casa nuova.
Non una villa da copertina, ma una casa solida ai margini di una cittadina vicina: muri spessi, riscaldamento moderno, grandi finestre luminose, un giardino e un piccolo edificio separato perfetto per diventare laboratorio.
Quando l’agente immobiliare mi consegnò le chiavi, ebbi quasi le vertigini. Davvero quella casa era mia? Mia, di quella stessa Olga che, solo un anno prima, si aggiustava le scarpe con la colla e rammendava i collant per non doverne comprare di nuovi?
«— Mamma», disse Misha sull’uscio della casa nuova, osservando la scala ampia e l’ingresso luminoso, «è… davvero casa nostra? Per sempre?»
«Sì, tesoro», risposi, stringendolo forte. «E sai che c’è? Voglio mettere su una piccola fattoria. Ti ricordi quanto ti piacevano le capre di Nina Petrovna?»
«— Una fattoria vera? Con animali tutti nostri?» Gli occhi gli si illuminarono.
Comprammo il terreno accanto. Assunsi alcuni lavoratori del posto, costruimmo recinti, stalle, ricoveri. Arrivarono le prime capre, le prime galline. L’orto si trasformò in un piccolo campo.
Misha si buttò nella nuova vita con un entusiasmo contagioso: dopo la scuola correva dagli animali, insegnava ai suoi amici come mungere le capre o raccogliere le uova.
Una parte del denaro fu investita in attività locali, una messa da parte in un fondo studi per Misha, un’altra ancora destinata a un fondo d’emergenza, “per ogni evenienza”, come ripeteva Inna.
Non mi interessava il lusso sfacciato: la sensazione di sicurezza e indipendenza valeva più di qualsiasi gioiello scintillante.
Un giorno, in autunno, mentre raccoglievo mele in giardino, un’auto familiare si fermò davanti al cancello. Viktor.
Non lo vedevo da più di un anno, ma lo riconobbi subito. Era invecchiato: viso tirato, sguardo nervoso.
«— Sei… cambiata», disse, guardando la casa, il giardino, il cortile ordinato.
«— Che cosa vuoi, Viktor?» chiesi, asciugandomi le mani sul grembiule. «Se sei venuto per vedere Misha, è a scuola.»
«— Sono venuto a parlare con te», disse, rigido. «In paese dicono che hai trovato dell’oro. Nella casa di mio nonno. E…» fece un gesto vago verso la casa, «la tua nuova sistemazione conferma le voci.»
Così, ecco spiegato il suo improvviso interesse. Non una parola su suo figlio, che non vedeva da più di un anno.
«— E quindi?» lo guardai dritto negli occhi.
«— Quell’oro è un’eredità di famiglia!» alzò la voce. «Se lo avessi saputo, non ti avrei mai trasferito la casa. Mi spetta di diritto. Restituiscimelo!»
«— Restituirtelo?» ripetei calma. «Viktor, mi hai ceduto la casa di tua spontanea volontà. È tutto registrato. Da allora pago le tasse, ho fatto lavori di ristrutturazione e ho denunciato ufficialmente il ritrovamento. La legge è chiara: il tesoro trovato nella MIA casa appartiene a me.»
Lui sogghignò. «— Sei sempre stata una furba, Olga. Ma troverò il modo di riprendermi ciò che è mio.»
«— Problemi, Olga?» si sentì una voce alle sue spalle.
Dal lato del fienile comparvero Andrey e Semyon, i miei vecchi vicini e attuali lavoratori.
«— Va tutto a posto», risposi, senza distogliere lo sguardo da Viktor. «Il mio ex marito stava giusto per andarsene.»
Viktor li guardò, misurando rapidamente le spalle larghe e le braccia robuste. Poi abbassò la testa.
«— Non è finita», borbottò, avviandosi verso l’auto.
«— In realtà sì», dissi pacata. «Inna ha controllato ogni dettaglio. Tutto è in regola. A proposito, una parte del denaro è nel fondo studi di Misha. Già che ci sei, potresti almeno non ostacolare l’istruzione di tuo figlio.»
Non rispose. Salì in macchina e se ne andò. Capì che non lo avrei più rivisto.
Quella sera, io e Misha sedemmo sul portico. Il cielo era trapunto di stelle, proprio come sopra la vecchia baracca di un tempo, ma adesso non avevo più paura del futuro.
«— Mamma», sussurrò stringendosi a me, «io ho sempre saputo che sarebbe andato tutto bene.»
«— E come facevi a esserne così sicuro?» chiesi, accarezzandogli i capelli.
«— Perché tu sei forte», disse semplicemente. «Più forte di chiunque conosca.»
Appoggiai il viso tra i suoi capelli, respirando l’odore di shampoo e di erba.
Sì, da qualche parte, in conti e investimenti, giacevano somme che un tempo non avrei osato nemmeno immaginare. Ma niente mi sembrava prezioso come quel momento: io e mio figlio sul portico, il canto dei grilli, il calore del suo braccio contro il mio.
«— Sai, Misha», dissi guardando le prime stelle accendersi, «quando tuo padre ci ha buttati fuori in quella baracca cadente, pensavo che la nostra vita fosse finita.»
«— Lo ricordo», sorrise. «E invece, senza volerlo, ci ha fatto il regalo più grande. Non l’oro. Ci ha restituito… noi stessi.»
Passarono dieci anni in un soffio. A volte, guardando le vecchie foto, fatico a riconoscermi.
Il mio Misha, il ragazzino magro dai capelli arruffati, è diventato un giovane alto, dalle spalle larghe, che torna dall’università di agraria solo nei fine settimana.
Quando passa per il villaggio, le ragazze trovano sempre una scusa per farsi vedere nei paraggi.
«— Sei diventato un uomo in un attimo», commentò Inna un giorno, mettendo l’insalata in tavola durante un pranzo della domenica. «Testardo uguale a tua madre.»
«Sai che cosa mi ha detto ieri?» continuò ridendo. «“Zia Inna, l’agricoltura moderna ha imboccato un vicolo cieco: bisogna tornare ai cicli naturali”. Ho quasi fatto cadere il cucchiaio.»
La nostra fattoria, intanto, era cresciuta. Da un po’ di capre e un paio di galline era diventata un’azienda agricola vera e propria.
Adesso impiego cinque lavoratori fissi, tra cui Andrey e Semyon. Le loro mogli mi aiutano con la contabilità e con la trasformazione dei prodotti. Coltiviamo ortaggi, abbiamo un apiario, produciamo latte e formaggi naturali che ormai finiscono perfino sugli scaffali dei negozi biologici in città.
«— Olga Sergeevna!» gridò Marina, la moglie di Andrey, dall’apiario. «Le arnie nuove sono arrivate, le sistemiamo domani?»
Sorrido ancora quando penso a come sia cambiato il modo in cui la gente mi chiama. Prima ero “la signora di città piena di arie”, adesso sono «Olga Sergeevna», senza servilismi, ma con un rispetto caldo, genuino. Ho messo radici.
La sera, quando la giornata finisce e gli animali sono sistemati, mi siedo spesso sul portico con una tazza di tisana. Guardo la fattoria, i campi, le luci del villaggio, e ancora faccio fatica a credere che tutto questo sia davvero la mia vita.
L’oro dalla vecchia cantina non solo non si è consumato: si è moltiplicato. Inna mi ha aiutata a investirlo bene: terreni, imprese locali, titoli sicuri.
La scorsa estate, io e Misha sedevamo all’ombra di un vecchio melo. Lui masticava una foglia, socchiudendo gli occhi per il sole basso.
«— Sai, mamma», disse all’improvviso, «a volte penso che siamo stati fortunati due volte.»
«— In che senso?» chiesi, alzando lo sguardo dal libro.
«— La prima, quando papà ci ha cacciato. La seconda, quando hai trovato l’oro.»
Gli arruffai i capelli – cosa che, ormai, si lasciava fare solo quando eravamo da soli.
«— E io penso che la vera fortuna non sia stato trovarlo, quell’oro», risposi. «Ma il modo in cui lo abbiamo usato.»
Quelle parole mi rimasero nella mente. Il denaro continuava ad arrivare, ma io e Misha vivevamo in modo relativamente semplice. Non compravamo lusso per metterlo in mostra, non avevamo bisogno di dimostrare niente a nessuno.
Un inverno, durante una nevicata particolarmente forte, alla scuola del villaggio crollò una parte del tetto.
Il distretto era povero, il bilancio al limite. Si parlava di aspettare mesi prima di ricevere fondi.
«— Senti, perché non li aiutiamo noi?» propose Misha, chinandosi sul portatile. «Possiamo permettercelo. Perché aspettare?»
Finanziammo i lavori in forma anonima. Ma in un villaggio, le cose non restano anonime per molto. Presto tutti capirono da dove venivano i soldi.
Dentro di me scattò qualcosa. Capii che il denaro, tenuto chiuso in conti e cassette di sicurezza, è come vino buono in una bottiglia mal tappata: ristagna. Quando invece lo usi per fare del bene, ha un sapore completamente diverso.
Io e Misha decidemmo di destinare una certa percentuale del nostro reddito ad aiutare gli altri.
Così nacque «Mayachok»—un piccolo fondo per donne con figli che si ritrovano con le spalle al muro, proprio come ero stata io un tempo. Con una differenza: molte di loro non hanno una cantina con un baule d’oro ad aspettarle.
Ogni volta che una nuova donna entra nel nostro ufficio semplice—spalle tese, sguardo stanco, un bambino aggrappato alla sua gonna—sento un colpo allo stomaco. Rivedo me stessa sulla soglia di quella vecchia casa cadente, con Misha per mano.
Il momento più prezioso è quello in cui, dopo aver parlato un po’, la donna fa un lungo sospiro, le spalle le si abbassano di un paio di centimetri e negli occhi, timidamente, le compare un guizzo di speranza. Quel momento non ha prezzo. Nessuna montagna d’oro potrebbe eguagliarlo.
Di recente, Misha ha iniziato un progetto universitario di storia familiare. Un giorno rovistava nel vecchio scatolone delle foto e disse:
«— Guarda questa, mamma», porgendomi una fotografia consumata. «Sei fantastica qui.»
Nella foto ero davanti alla nostra vecchia baracca: maglietta sporca di vernice, capelli raccolti in una coda disordinata, occhi arrossati ma sorriso testardo.
«— Fantastica? Ma per favore», sbuffai. «Sembro una clochard.»
«— Guarda meglio gli occhi», disse lui, picchiettando la foto. «Sono vivi. E sai che c’è? Sono contento che tu abbia trovato quell’oro. Ma sono ancora più fiero di come hai scelto di usarlo.»
Lo guardai: ormai più alto di me, forte, con quel misto di determinazione e gentilezza nello sguardo. Pensai che, in fondo, il mio vero tesoro fosse seduto lì davanti a me. Tutto il resto era solo metallo.
«— Mamma, mettiti sotto la quercia», mi chiese il giorno del nostro primo festival di beneficenza, armeggiando con la macchina fotografica. «Deve essere una foto che trasmetta l’anima del posto.»
Quel giorno, nella nostra fattoria c’era un via vai incredibile. Un mese prima, Misha era entrato in casa con gli occhi in fiamme.
«— Mamma, ho un’idea!» aveva detto togliendosi la giacca al volo. «Raduniamo tutti i contadini della zona sui nostri terreni, organizziamo una fiera, laboratori per bambini, musica dal vivo. Usiamo tutto per raccogliere fondi per ristrutturare il reparto pediatrico dell’ospedale distrettuale!»
Ed eccoci lì: tende bianche, gazebo, bancarelle di miele, formaggi, verdure, artigianato. I bambini che corrono, la musica folk che riempie l’aria, i profumi di pane caldo e dolci.
«— Guardalo», disse Inna, raggiungendomi con un bicchiere della nostra limonata. «Si muove tra la gente come un vero direttore di orchestra.»
Osservai Misha: un momento parlava con un gruppo di studenti, quello dopo aiutava una coppia di anziani a scegliere il miele, poi discuteva con i musicisti sul programma della serata.
«— Sai, Inna», dissi senza staccare gli occhi da lui, «a volte penso che io sia stata solo un canale. E che il vero tesoro si trovi proprio lì, sul palco.»
Verso sera Misha prese il microfono. Parlò con semplicità, senza frasi fatte: dell’importanza di sostenere l’agricoltura locale, di prendersi cura della terra, di non voltarsi dall’altra parte quando qualcuno ha bisogno.
Mentre lo ascoltavo, rivedevo tutta la nostra strada: la baracca, la cantina bagnata, la paura, l’oro, la fattoria, il fondo, le donne con gli occhi stanchi che tornavano a casa un po’ più leggere.
«— E alla fine», concluse lui, abbracciando con lo sguardo la folla, «voglio ringraziare la persona senza la quale niente di tutto questo esisterebbe. Mia madre, Olga. È lei che mi ha insegnato la cosa più importante: provare a restare una brava persona.»
Seguì un applauso caldo, spontaneo. Mi sentii arrossire come una ragazzina impreparata ai complimenti.
Quando l’ultimo ospite se ne fu andato e i musicisti iniziarono a smontare l’impianto, io e Misha ci sedemmo sul portico, esausti ma felici. Facemmo un rapido controllo ai conti: avevamo raccolto il doppio di quanto speravamo.
«— Ho qualcosa per te», disse Misha, tirando fuori dalla tasca un piccolo astuccio di velluto logoro.
Dentro c’era un anello chevalier antico, con una pietra rosso scuro. Uno di quelli trovati nel baule d’oro.
«— Da dove salta fuori?» chiesi, stupita.
«— L’ho preso dalla tua scatolina del tesoro», sorrise. «Tu te ne sei quasi dimenticata. È stato il primo oggetto che hai tirato fuori dal baule, ricordi? Ho pensato che dovesse restare con te. Come promemoria di dove tutto è cominciato.»
Infilai l’anello. Mi andava a pennello, come se fosse stato fatto apposta per il mio dito. La pietra catturò l’ultimo raggio del sole, tingendosi di un rosso caldo.
«— Eri così piccolo, quel giorno», dissi piano. «Ti ricordi la baracca?»
«— Come potrei dimenticarla?» rise. «Il pavimento che scricchiolava, la serratura che si incastrava sempre, gli spifferi ovunque… E il nostro primo orto. Io avevo piantato carote, ma erano cresciute solo radici storte e ridicole.»
Restammo un po’ in silenzio, ognuno immerso nei propri ricordi. Sopra i campi si alzava una luna enorme, bianca, che illuminava tutto con una luce morbida.
«— Abbiamo trovato l’oro», disse Misha, guardando le luci sparse del villaggio, «ma la cosa più importante è che siamo riusciti a diventare noi l’oro per qualcun altro.»
Mi prese la mano nella sua. Era grande, ruvida per il lavoro nei campi, con piccoli graffi e tagli.
«— Non mi hai solo dato sicurezza economica, mamma», aggiunse abbassando la voce. «Mi hai dato le ali.»
Rimanemmo così fino a quando il cielo si fece completamente scuro.
Sapevo che il giorno dopo mi avrebbe aspettato un’altra giornata piena: la raccolta delle mele, i documenti per ampliare il fondo, i nuovi progetti con l’amministrazione locale. Ma non avevo più paura.
Questa vita ce la eravamo costruita noi. Con le mani, con le scelte, con la testardaggine.
E anche se un giorno tutto l’oro sparisse, resterebbe comunque il tesoro più grande: la capacità di ricominciare, di tendere la mano, di condividere il poco o il tanto che si ha, senza aspettarsi nulla in cambio.
L’anello antico mi scaldava il dito, come se custodisse un frammento di quella prima estate difficile, quando tutto sembrava crollare. Un promemoria silenzioso che, a volte, i punti più bui della nostra vita sono solo l’ingresso a una stanza segreta piena di luce.
Mio marito mi ha abbandonata con nostro figlio in quella sua catapecchia vecchia e mezza crollata, senza sapere che sotto quelle mura fatiscenti si nascondeva una stanza segreta colma d’oro.
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