«Buttarci fuori di casa, me e i bambini… e lui neanche sapeva a chi fosse intestata l’azienda.»

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Le chiavi rimbalzarono sul mobile lucido dell’ingresso con un tintinnio secco, così forte che mi parve uno sparo. Spezzò di netto quel silenzio pesante, vischioso, calato in casa nell’ultima mezz’ora.
Rimasi immobile, le braccia strette attorno al corpo, a fissare Igor. Mio marito. L’uomo con cui avevo condiviso vent’anni di vita, due mutui, un’azienda e due figli.
«Ti ho già detto tutto, Marina.» La sua voce non aveva né rabbia né emozione. Era piatta. E proprio quella calma mi terrorizzava più di qualsiasi urlo. Si sfilò la giacca e la buttò sulla poltrona con un gesto annoiato. L’atteggiamento del padrone di casa. Del sovrano sul suo trono. «Hai due ore per fare le tue cose e quelle dei bambini. Puoi andare da tua madre. O da chi vuoi. Non è un mio problema.»
Parlava della mia vita come di una faccenda burocratica. Freddo, distratto, come se stesse controllando una lista.
Io fissavo quel viso che conoscevo a memoria, e che pure mi sembrava di uno sconosciuto: la bocca irrigidita, lo sguardo duro. Non era una scena da serie tv, non era un incubo. Era la mia realtà, che si stava sgretolando sotto i miei piedi.
«Igor… come puoi?» La voce mi uscì rotta, sottile. «E i bambini? E la nostra azienda? Tutto quello che abbiamo costruito insieme…»
Lui piegò le labbra in un sorriso storto, pieno di compiacimento. Quel ghigno mi tagliò dentro più di qualsiasi insulto.
«I bambini restano con te, è ovvio. Non sono un mostro. Ti manderò i soldi. E per quanto riguarda la società…» fece una piccola pausa, godendosi ogni secondo «…la società è mia, Marina. L’ho tirata su io. Io ho chiuso i contratti, io ho trovato i clienti. Tu te ne stavi seduta in ufficio a mettere timbri e ordinare fascicoli. Non esagerare il tuo ruolo. Tutto quello che conta — immobili, macchine — è legato a me, ai miei agganci. Mi prendi per uno sciocco?»
Sentii un’ondata di freddo salir mi lungo la schiena. Eccolo, il conto finale. Solo che, per una qualche logica malata, quella che doveva pagare ero io. Per i suoi tradimenti. Per l’amante giovane di cui metà città mormorava già da mesi. Per i vent’anni in cui avevo creduto in un “noi”.
Ma quel “noi”, capii in quel momento, esisteva solo nella mia testa. Lui, Igor, aveva sempre messo al centro solo sé stesso. Io ero stata il contorno comodo di una vita da vincente.
«Ci sbatti fuori? Proprio ora che arriva il freddo? Senza casa, da un giorno all’altro?»
«Ti ho già detto di andare dalla tua adorata Lena. Vi telefonate a ogni ora del giorno, vi farà spazio sul divano.» Fece un gesto con la mano, come a scacciare un insetto. «Sbrigati però. Stanno arrivando ospiti. Non ho alcuna voglia di sceneggiate davanti a loro.»
Sapevo benissimo chi fossero gli “ospiti”. Svetochka: venticinque anni, corpo perfetto, cervello in modalità risparmio energetico. Non si sforzava nemmeno più di nascondersi. Si stava godendo il suo ruolo, e la mia umiliazione.
In quel momento, quando avrei dovuto crollare per terra, piangere, supplicare… qualcosa dentro di me si spense. Come se qualcuno avesse staccato la corrente alle lacrime. Al loro posto arrivò una lucidità fredda, tagliente.
Annuii soltanto.
«Va bene, Igor. Due ore.»
Per un istante gli si incrinò l’espressione. Si era preparato alle urla, alle accuse, alla disperazione. Non alla mia calma. Quella gli tolse gusto e controllo.
«Ottimo,» borbottò, andandosene in salotto a versarsi un whisky.
Io salii nella stanza dei bambini. Per fortuna erano da mia madre, non avevano assistito alla scena. Aprii l’armadio e cominciai a fare le valigie con movimenti lenti, precisi: tute invernali, stivaletti, il coniglio di peluche senza un orecchio di mio figlio, i libri di favole preferiti di mia figlia. A ogni maglione piegato sentivo il gelo dentro di me trasformarsi in armatura.
«Smistare carte», eh? «È tutto mio»?
Non aveva la minima idea. Si era convinto di essere il genio della situazione e di avere accanto una mogliettina ingenua, disposta a firmare qualsiasi cosa senza leggere. Si era sbagliato. E di grosso.
Dalla nostra camera non presi quasi nulla. Solo i miei vestiti, il portatile e una scatolina di documenti che stava da sempre sul mio comodino. Igor non l’aveva mai degnata di uno sguardo. “Roba da donne”, avrebbe detto.
Un’ora e mezza dopo, tre grosse valigie erano schierate vicino alla porta. Mi voltai a guardare la casa. La nostra casa. Quella che avevo cercato, arredata, riempita di dettagli. Ogni tenda, ogni pianta, ogni colore delle pareti della cameretta dei bambini: ero io. E ora mi stava cacciando via, come se fossi una comparsa di passaggio.
Igor uscì dal salotto soddisfatto, con il bicchiere in mano.
«Hai finito? Brava, efficiente come sempre. Ti auguro tanta fortuna nel tuo nuovo appartamentino in affitto. Se proprio ti manca qualcosa, fammi uno squillo: ti giro cinquecento rubli per vederti partire col botto.»
Allungò la banconota verso di me. Quello fu l’ultimo schiaffo. L’insulto studiato al millimetro. E io… iniziai a ridere. Piano, quasi senza voce.
Lui aggrottò le sopracciglia. «Che cosa ci trovi da ridere?»
«Niente, Igor. Davvero. Solo… in bocca al lupo. Ti servirà.»
Afferrai le valigie e uscii senza voltarmi. La sua voce mi seguì lungo il corridoio, gonfia di sicurezza:
«Tra un mese tornerai qui in ginocchio! Verrrai a implorarmi di riprenderti! Tieniti a mente quello che ti dico!»
Non risposi. Salii in macchina — quella che lui considerava “un regalo per sé stesso”, ma che, per “motivi fiscali”, aveva intestato a me — e misi in moto. Non andai da mia madre, né da Lena. Mi diressi verso un piccolo hotel fuori città, in cui avevo già prenotato una stanza una settimana prima.
Quando l’intuizione ti urla nelle orecchie, è meglio non far finta di niente. La mia urlava da sei mesi.
La mattina seguente ero seduta nell’ufficio di Viktor Petrovich, il nostro presunto avvocato “di famiglia”. In realtà, un mio compagno d’università: sveglio, sarcastico, con uno sguardo che ti leggeva dentro. Igor non lo aveva mai sopportato, lo definiva “viscido”, e proprio per questo aveva cercato di tenerlo lontano dalle questioni importanti dell’azienda. Pensava di avere il controllo totale.
«Quindi ci siamo arrivati,» disse Viktor, più come constatazione che come domanda, fissandomi da sopra gli occhiali. «Hai l’aria di una che sta per uscire dalle proprie ceneri.»
«Le ceneri sono ancora calde, Petrovich,» replicai con un sorriso amaro. «Mi ha sbattuta fuori di casa. Ha detto che non conto niente. Che la società è sua, la casa è sua, tutto è suo… e mi ha lasciato in mano cinquecento rubli per addolcire l’addio.»
Viktor esplose in una risata incredula. «Cinquecento? Ah, Igor… arrogante e pure poco fantasioso. Allora, vediamo questi famosi “tutto è mio”. Documenti?»
Gli spinsi la scatola. Lui la aprì e iniziò a mettere in ordine il contenuto sul tavolo: una copia aggiornata dello statuto della S.r.l. “Vershina”, con indicata me, Marina Volkova, come unica socia e amministratrice; l’atto notarile di acquisto della casa a mio nome; i libretti di circolazione di entrambe le auto, anche quelli intestati a me; estratti conto di tre dei quattro conti principali della società, ai quali Igor non aveva accesso diretto.
«Mi ricordo quando sei venuta da me tre anni fa,» mormorò Viktor. «“Petrovich, ho un presentimento pessimo. Voglio capire bene a cosa sto mettendo la firma.” Abbiamo passato mesi a sistemare tutto. E lui non ha mai letto davvero lo statuto che gli hai fatto firmare. Era troppo occupato con le sue “trattative riservate” al country club.»
«Con la segretaria, per essere precisi,» lo corressi. «Allora non volevo vedere. Pensavo che accumulare carte fosse solo una precauzione inutile, tipo una polizza contro un incendio che non ci sarebbe mai stato.»
«E invece il fuoco è arrivato. E di potenza,» sospirò. «Dunque. Strategia: blocchiamo subito ogni conto che può toccare, depositiamo la revoca formale di qualsiasi suo incarico operativo in azienda — tanto sulla carta è solo un vice di facciata — e blindiamo tutti i beni intestati a te.»
«Niente drammi, niente scenate pubbliche,» dissi io. «Non voglio rovinarlo. Voglio solo che resti… senza più i suoi giochi di potere.»
Viktor sorrise di sbieco. «Che anima pia. Cominciamo oggi. Non capirà neanche da che lato è arrivata la botta.»
E così fu.
Affittai un bilocale carino non lontano dalla scuola, trasferii i bambini e spiegai loro che per un po’ mamma e papà avrebbero vissuto in due case diverse. Erano tristi, ovviamente. Ma i bambini sentono i silenzi meglio degli adulti: il gelo tra me e Igor lo avevano avvertito da tempo.
Igor, nel frattempo, si sentiva invincibile. Cene, regali, viaggi con Sveta. Gli amici mi chiamavano per “consolarmi”, ma dietro le parole gentili c’era la curiosità di chi vuole sapere tutti i dettagli. Io ringraziavo e cambiavo discorso.
Il primo colpo lo raggiunse in concessionaria. Cercò di vendere “la mia” auto per comprarne una più vistosa a Sveta. Il responsabile, gentile ma fermo, gli spiegò che non poteva: il nome sul libretto non era il suo.
Due giorni dopo, la banca respinse un bonifico consistente dal conto della società. Il sistema indicava: Socia — M.S. Volkova. Amministratrice — M.S. Volkova. Igor? Nessuna autorizzazione. Nessun potere di firma.
Poi arrivò la chiamata isterica di sua madre. E poco dopo, la mia visita con il relativo atto di proprietà della casa, dove figuravo solo io. La fiducia cieca che quella donna aveva sempre riposto in suo figlio cominciò a incrinarsi.
Il colpo finale arrivò tre settimane più tardi, dentro una busta spessa recapitata con tutti i crismi: la sua rimozione da ogni carica societaria, il provvedimento del tribunale che congelava i beni a mio nome rendendoli intoccabili per lui, e la richiesta formale di divorzio con domanda di mantenimento per i figli, calcolato sul suo stipendio ufficiale — quello che avevo provveduto io a mantenere modesto.
Sveta non resse. Un uomo senza impero non era nel suo “stile”. Sparì dalla scena senza neanche una plateale rottura. Semplicemente, scivolò fuori dalla sua vita.
La causa di divorzio fu quasi una routine burocratica. Il giudice non si lasciò intenerire dai discorsi melodrammatici del suo avvocato. I miei documenti erano ordinati, chiari, inattaccabili.
Passò un mese. Quello dopo il quale, secondo Igor, sarei dovuta tornare indietro “strisciando”. Invece fu lui a iniziare a tempestarmi di telefonate: prima arrogante, poi disperato.
«Marinka, ho sbagliato! Dai, ricominciamo, ti prego! Ti amo, non posso vivere senza di te!»
«Buona fortuna, Igor,» risposi solo, e poi bloccai il suo numero.
Lui rimase con il minimo indispensabile. Niente casa, niente azienda, niente macchine. Si trasferì in un appartamento triste, pagando l’affitto con l’aiuto di sua madre.
Sua madre, qualche tempo dopo, venne da me con una torta ai crauti tra le mani e le lacrime agli occhi. Chiese scusa per non aver voluto vedere cosa stava succedendo. Io la abbracciai.
«Resta qui quando vuoi. Questa casa è anche tua. Sei la nonna dei miei bambini.»
Così, la guerra tra noi finì.
Sei mesi dopo non solo ero riuscita a mantenere in piedi l’azienda: l’avevo fatta crescere. Firmai due contratti importanti che Igor non avrebbe mai avuto il coraggio neanche di approcciare. Aprii una seconda sede in centro.
Quel giorno, davanti alla nuova porta a vetri, con la mano di mio figlio intrecciata nella mia e quella di mia figlia nell’altra, alzai lo sguardo all’insegna lucida: “Vershina”.
Sorrisi.
Non avevo più paura. Né del futuro, né della solitudine, né dei problemi. Avevo capito che la vera forza non sta nei discorsi pomposi o nel potersi appoggiare alla spalla di un uomo. Sta nel vedere lontano, nel mantenere la testa fredda anche quando il cuore è a pezzi, e nel non smettere di avere un cuore capace di amare e perdonare.
E la vendetta migliore non è distruggere la vita di qualcuno.
È costruire la propria.
Solida. Serena.
Di successo.
E la mia, finalmente, l’avevo costruita.

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