Oleg infilò la testa in cucina ancora con la giacca addosso e la cravatta allentata.
— Vera, amore, ciao. Ha chiamato la mamma. Dice che le sue violette stanno morendo, vanno rinvasate subito. Puoi passare da lei? Hai sempre avuto… quel talento magico con le piante.
Il vapore caldo saliva dalla padella. Cipolla e carota soffrivano piano nell’olio, riempiendo la cucina di un odore rassicurante, di casa. Un profumo che di solito scioglieva la stanchezza; quella sera, invece, sembrava solo appoggiato sopra l’aria, come una tovaglia troppo pesante.
Vera non si voltò. Continuò a mescolare, il cucchiaio che picchiettava il fondo con piccoli colpi secchi. Solo la schiena, tesa sotto la maglietta sottile, tradiva che avesse sentito ogni parola. Nei movimenti c’era qualcosa di trattenuto e feroce, come se invece di cucinare stesse cercando di farsi strada attraverso una gabbia invisibile.
Lo sfrigolio dell’olio divenne l’unico suono della stanza.
Oleg rimase fermo sulla soglia, in bilico tra il corridoio e il calore della cucina. Posò la ventiquattrore accanto al muro, aprì il frigorifero, prese una bottiglia d’acqua. Si muoveva con la calma di chi è convinto di aver chiesto una cosa banale, quasi ovvia. O non vuole vedere nient’altro.
Vera spense il fuoco. Appoggiò il cucchiaio, si asciugò lentamente le mani sullo strofinaccio. Solo allora si girò.
Il viso era liscio, quasi inespressivo. Ma gli occhi, che poco prima avrebbero solo mostrato stanchezza, ora erano diventati due pozzi scuri, freddi.
— È la terza volta in una settimana, Oleg.
Lui rimase con la bottiglia sospesa a metà, il tappo ancora chiuso.
— E quindi? — abbozzò, aggrottando appena le sopracciglia. — Non capisco il problema.
— Lunedì — cominciò lei, con la voce calma, precisa, che rendeva ogni parola più pesante — sono uscita dal lavoro prima per accompagnare tua madre in una clinica privata, perché “non sopporta fare la fila”. Mercoledì, durante la pausa pranzo, ho girato tre farmacie per trovare il suo farmaco per la pressione, perché “le era più comodo”. Oggi è venerdì. Dopo cinque giorni pieni dovrei attraversare la città per occuparmi delle sue violette, perché “io ci so fare”.
Fece una pausa. Non abbassò lo sguardo.
— Ho una mia vita, Oleg. Un mio lavoro. Una mia stanchezza.
— Ma ti scaldi ancora per così poco? — sbottò lui, posando la bottiglia sul tavolo con un colpo secco. — È pur sempre tua suocera. È anziana, non sta bene. È così terribile darle una mano?
Quelle frasi, un tempo, le avrebbero piantato dentro il solito chiodo di colpa. Adesso, invece, accendevano solo una rabbia lucidissima.
— Tua madre — disse Vera, con una fermezza che tagliava l’aria — è affar tuo. E non è malata: si annoia. Non chiede aiuto: reclama attenzioni. Vuole gente che le giri intorno, cose da comandare, piccoli servigi da ordinare. Per lei io sono la domestica, il fattorino, il passatempo. E tu… tu firmi tutto questo come se fosse normale.
— Sei mia moglie! — alzò la voce Oleg, arrossendo. — Devi rispettare mia madre!
Vera gli rivolse un mezzo sorriso storto, che aveva più il sapore di uno schiaffo che di una concessione.
— Il rispetto sì. La sottomissione no.
— Ma ti ha solo chiesto…
— Non mi interessa quello che pretende! — lo interruppe lei, senza alzare il tono. — Per me è una perfetta estranea. D’ora in poi te ne occupi tu, chiaro?
Fece un passo verso di lui. Negli occhi, nessuna esitazione.
— Da oggi non eseguirò più nessuna richiesta che arrivi da lei. Se chiama, rispondi tu. È una questione tua, non mia. E se questo non ti sta bene, prendi le tue cose dopo il lavoro e vai a vivere da lei. Lì potrai fare il figlio modello, e lei ti ricompenserà come credi di meritarti.
Lo strofinaccio le scivolò di mano sul tavolo con un tonfo umido. Sembrò un punto messo in fondo a una frase molto lunga. Non era una discussione: era una decisione.
Oleg uscì di casa quasi di scatto, come se dentro fosse scoppiata una bomba. Non prese la ventiquattrore, non controllò se aveva le chiavi. Le parole di Vera gli bruciavano addosso come schiaffi dati davanti a un pubblico invisibile.
In ascensore, il metallo opaco gli restituì un riflesso che non riconobbe: non il dirigente sicuro di sé, ma un ragazzo messo in riga. Si sentì umiliato nello spazio che considerava il suo territorio. In pochi minuti di conversazione era crollato l’assetto che lui chiamava “tranquillità familiare”: la moglie accomodante, la casa silenziosa, tutto al proprio posto.
Si sedette in macchina e strinse il volante finché le nocche gli sbiancarono. Tornare da sua madre “per le violette”? Gli sembrava quasi ridicolo. Le piante erano solo il pretesto. Il vero problema era la ribellione di Vera, quella sfida aperta.
Mise in moto. Lasciò che la macchina lo portasse lontano da quella cucina dove il suo controllo si era sgretolato. Non si sentiva un marito che va a chiedere aiuto: si sentiva un soldato che corre al comando.
L’appartamento di Galina Sergeevna lo accolse con il solito miscuglio di odore di valocordin, tè forte, carta vecchia e quella polvere antica che sembrava stratificata negli anni. Lì i ruoli erano chiari, le regole semplici.
La porta si aprì quasi subito, come se lei fosse rimasta in attesa dietro lo spioncino. Indossava una vestaglia blu scuro con il colletto ricamato, i capelli pettinati con cura. Lo squadrò con un colpo d’occhio rapido, preciso.
— Che faccia hai, Oleg. Sembra ti abbiano investito. Entra, il bollitore è già acceso.
Lui si lasciò cadere sul divano, troppo rigido e troppo curato. Galina non si sedette subito: portò il vassoio, versò il tè, mise i biscotti su un piattino, poi si accomodò sulla poltrona di sempre, quella che sembrava un trono.
Solo dopo il primo sorso, ripeté, più tagliente:
— Oleg, ti ascolto.
Lui parlò. Non mentì del tutto, ma nemmeno disse tutto. Raccontò di essere tornato a casa esausto, di aver chiesto con gentilezza a Vera di dare un’occhiata alle violette malandate della suocera, e di come lei fosse “esplosa” senza motivo, mancando di rispetto. Liquidò la clinica, le farmacie e le richieste precedenti come dettagli irrilevanti, e trasformò le violette nella prima e unica richiesta di aiuto dopo molto tempo.
— Ha detto… che non le importa di te — concluse a bassa voce, fissando la superficie del tè. — Che per lei… “non sei nessuno”.
Galina rimase immobile. Posò la tazza sul piattino con un lieve tintinnio. Il viso si irrigidì.
— Ha usato proprio quella parola, “nessuno”? — scandì piano, facendo risuonare ogni sillaba. — Dopo come l’ho accolta? Interessante.
Si alzò, andò verso il davanzale dove teneva le violette. Nonostante il racconto drammatico di Oleg, le piante non sembravano in agonia: qualche foglia gialla, un po’ di terra secca, niente di più. Sfiorò una foglia con il dito.
— Così ha deciso di parlarmi… — mormorò, più tra sé che a lui. Poi si girò. — E tu che farai? Ingoierai l’offesa? Le lascerai la strada libera? Oggi rifiuta di aiutarmi con i fiori, domani ti butta fuori di casa in nome della “libertà personale”.
— E cosa dovrei fare? — sbottò lui. — Mi ha praticamente detto di trasferirmi qui!
— Sciocchezze — tagliò corto Galina. — Tu da qui non ti muovi. È casa tua. La lezione la impara lei, non tu. Ma niente urla, niente scene. Gli scandali li lasciamo al popolino. Noi saremo… più eleganti. Domani andiamo insieme.
— E se non ci apre? — obiettò lui, insicuro.
— Non c’è bisogno che apra — rispose lei, con un mezzo sorriso. — Sei suo marito. Hai le chiavi. Entriamo con una torta. Si beve un tè, si parla del tempo e della salute. Saremo gentili, molto gentili. Ma di quella gentilezza fredda che ti fa sentire ospite nella tua stessa casa. Capirà da sola dov’è il suo posto: vicino a te, entro i limiti che decidiamo noi.
Il sabato, verso mezzogiorno, si presentarono alla porta di Vera. Lei non sentì il campanello: sentì il suono metallico della chiave che girava nella serratura.
Era seduta in salotto, un libro aperto sulle ginocchia che non stava leggendo. Aveva previsto quella “visita amichevole”. Non si sbagliava.
La porta si spalancò. Oleg entrò per primo, alle spalle Galina con una scatola di torta in mano, alzata come una bandiera bianca. Oleg aveva un sorriso tirato; il volto della madre era una maschera di premura studiata.
— Veruška, ciao! — disse lui, forzando un tono allegro. — Siamo venuti a vedere come stai. La mamma ha portato il tuo “Napoleon”.
Vera chiuse il libro con calma, si alzò. Non fece alcuno sforzo per sorridere. Li osservò togliersi le scarpe, sistemarsi, occupare lo spazio.
Galina le porse la torta e, senza aspettare invito, entrò nel soggiorno con l’aria di chi passa a controllare.
— Здравствуй, Verочка — trillò, dolce e tagliente allo stesso tempo. — Qui dentro sembra una serra. Oleg, apri la finestra, non si respira.
Passò un dito sul comò, guardò il polpastrello, notando la polvere. Non disse nulla, ma non ne ebbe bisogno. Vera la seguiva con lo sguardo limpido.
— Buongiorno, Galina Sergeevna — rispose. — Sì, c’è polvere. Ieri avevo altro da fare.
La suocera fece finta di non sentire. Si fermò al centro della stanza, come misurandola.
— Avete già pranzato? — chiese. — Oleg sarà affamato dopo il viaggio. È pallido, dimagrito. Non ti occupi abbastanza di lui?
Oleg, mentre appoggiava la torta sul tavolo, si irrigidì. Persino lui capì che quella non era più una visita di riconciliazione: era un attacco travestito.
— Galina Sergeevna — intervenne Vera dalla soglia della cucina — Oleg è adulto. Decide da solo cosa mangiare e quando. Se vuole può cucinare. Oppure, se non gli basta, può sempre venire da voi. Da voi la tavola è sempre imbandita, no?
Il silenzio cadde spesso, denso. Oleg guardava alternativamente la madre e la moglie, come se il copione gli fosse appena sfuggito di mano. L’idea della “lezione delicata” si stava disintegrando davanti a una donna che non sembrava affatto intimidita.
— Vera, smettila! — sbottò lui. — Mia madre è venuta con le migliori intenzioni, ti ha portato una torta, e tu…
— E io? — lo interruppe lei, fissandolo. — Io dovrei dire grazie perché siete entrati senza invito a giudicare come vivo, a contare i granelli di polvere e a spiegarmi come nutrire mio marito?
Sul volto di Galina la maschera di cordialità si incrinò. Lo sguardo si fece tagliente.
— Sono qui perché mi preoccupo di mio figlio! — ribatté. — Vedo che in questa casa qualcosa non funziona. Invece di sostenerlo, tu fai scenate per inezie!
— Inezie… — ripeté Vera, e la sua voce si fece più fredda. — Le vostre telefonate per ogni capriccio, come se io fossi assunta a tempo pieno? Le corse in clinica, le farmacie, le violette? L’ho detto a Oleg e lo ripeto ora, così non ci sono fraintendimenti.
Si voltò verso la suocera e la guardò dritta negli occhi.
— Non siete venuti qui per un tè. Né per fare pace. Siete venuti per rimettermi al guinzaglio. Pensavate che avrei chiesto scusa e che da lunedì sarei tornata a fare la ragazza tuttofare. Non succederà.
Il tavolo con sopra la torta assunse all’improvviso un’aria grottesca, come un oggetto di scena fuori posto. L’operazione di Galina era fallita: la partita psicologica si era trasformata in uno scontro aperto.
— Oleg, senti come mi parla? — la voce della madre si incrinò, virando sul tono offeso. — Dopo tutto quello che ho fatto per voi! Mi tratta così… per delle violette! Le mie poverine…
La carta della pietà. Il richiamo alla coscienza filiale. Oleg esitò. Cercò lo sguardo di Vera, come a implorarla di fare almeno mezzo passo indietro.
Vera non lo guardò. Guardò invece la scatola in corridoio, quella che Oleg aveva portato il giorno prima.
Senza dire una parola, uscì dalla stanza e tornò con il contenitore di plastica. Dentro, i vasetti con le violette: terra dura, foglie mosce, qualche fiore mancato.
Posò la scatola sul tavolo, accanto alla torta. Galina si sporse un poco in avanti, con un lampo di sollievo: avrà pensato che Vera avesse deciso di cedere.
— Vedi, Oleg — iniziò, trionfante — le basterà solo…
Non fece in tempo a finire. Vera prese il primo vasetto tra le mani, senza guanti. Afferrò la pianta alla base e tirò. Le radici cedettero con un rumore secco. La violetta finì nel secchio. Subito dopo, la terra. Il vaso vuoto tornò nel contenitore.
Nessuno parlò. Si sentiva solo il rumore leggero delle foglie che cadevano e il tonfo sordo nel bidone.
Oleg rimase immobile, gli occhi fissi su quel gesto. Sul volto di Galina passò un’espressione che non era solo rabbia: era shock, un dolore ferito e incredulo. Il suo piccolo regno simbolico veniva smontato davanti a lei, con calma chirurgica.
Seconda pianta. Terza. Quarta. Vera continuava senza fretta, senza esitare, come un medico che rimuove un tessuto morto, un pezzo alla volta. Niente teatralità, solo decisione.
Quando l’ultima piantina finì nel secchio, Vera prese lo stesso strofinaccio del giorno prima, si pulì lentamente le mani, lo piegò con cura e lo posò sul bordo del tavolo.
Alzò lo sguardo.
Prima su Galina, che non trovava più parole. Poi su Oleg.
— Adesso è sicuro che il rinvaso non serve più.
Lui guardò i vasi vuoti, la terra sparsa sul pavimento, il volto della madre irrigidito. In quel momento capì che non stava assistendo a una lite coniugale qualsiasi. Era la linea del non ritorno. Non aveva perso un semplice battibecco: aveva perso la posizione.
Si avvicinò alla madre e le prese il braccio.
— Andiamo, mamma — disse piano, senza guardare Vera.
Galina non si oppose. Si lasciò guidare verso l’ingresso, come svuotata.
Si rivestirono in silenzio. Nessuna frase di commiato, nessuna porta sbattuta. Solo il rumore dei passi nel corridoio e il clic della serratura quando la porta si chiuse alle loro spalle.
Vera rimase in piedi al centro della stanza. Davanti a lei, il contenitore con i vasi nudi. La torta “Napoleon” ancora perfettamente intatta sul tavolo.
In casa scese un silenzio nuovo. Non vuoto, non pesante: un silenzio pulito, come l’aria dopo una nevicata.
Inspirò a fondo. Per la prima volta dopo tanto tempo, il respiro non le fece male al petto.
Era sola. Ma non più in ostaggio.
«Di quello che tua madre si aspetta da me non me ne può fregare di meno. Per me non ha alcun valore.»
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