A scuola la additavano con disprezzo come “la sporca”, e persino i compagni non volevano condividere il banco con lei. Oggi, invece, il suo volto illumina i manifesti in tutta la città e il suo nome è pronunciato con ammirazione e rispetto.

0
128

Ieri sono andata alla rimpatriata di classe. Oggi, seduta in cucina con il tè che si raffredda tra le mani tremanti, mi sembra ancora di avere un macigno sul petto. So che, se non metto per iscritto quello che è successo, questi pensieri finiranno per rosicchiarmi da dentro. Devo parlare. Con vergogna, con la voce che vibra e il cuore che fa male, ma devo farlo.

Advertisements

Partiamo dall’inizio. Dieci anni fa insegnavo nell’ultima classe di un liceo qualsiasi. In quell’aula c’era di tutto: figli di professionisti, ragazzi “complicati”, caratteri spigolosi e talenti acerbi. Fra loro sedeva anche Alëna Grigor’eva: una presenza discreta fino a diventare invisibile. Abiti consunti, capelli spesso unti, un odore che la precedeva. Tra noi docenti, con una crudeltà che oggi mi brucia sulla pelle, la chiamavamo “la sporca Grigor’eva”. Scriverlo mi fa vergognare.

La sua famiglia era allo stremo. Il padre, un uomo retto, aveva perso il lavoro per essersi rifiutato di falsificare dei documenti. La madre aveva resistito finché la fabbrica non aveva chiuso; poi era arrivato l’alcol: prima alle feste, poi nei fine settimana, infine ogni giorno. La miseria, lentamente, era diventata la loro normalità.

Alëna passava gli intervalli seduta da sola sul davanzale del corridoio. L’etichetta di “povera” la isolava. Uno solo non fingeva di non vederla: Igor’ Severtcev, il primo della classe, figlio di un imprenditore. Ogni tanto le comprava una brioche in mensa, le prestava gli appunti. Gesti minimi, ma veri.

Ricordo ancora il giorno del diploma. L’aula ribolliva di preparativi: nastri, fiori, liste di brani musicali. Lei, in un angolo, mi guardò con occhi che chiedevano di appartenere a qualcosa.
— Vera Ivanovna, posso aiutare in qualche modo? — sussurrò.

E lì, chissà perché, persi la misura. Forse ero stanca, forse irritata, forse solo cattiva.
— Non ti azzardare a presentarti alla festa. È un evento solenne e tu… lo sai. Passa solo a ritirare il diploma.

Silenzio. Una risatina soffocata da qualche banco. Il volto di Alëna che diventa paonazzo, poi la corsa fuori. Igor’ si alzò e la seguì.
— Dove vai, Severtcev? — gli gridai. — Hai la medaglia, sei tu il protagonista!

Si voltò, mi fissò e disse soltanto:
— Tenetevi pure la vostra cerimonia.

Se ne andò. Io capii subito di aver sbagliato, ma pensai soltanto a salvare la festa, non a salvare i miei ragazzi.

Il giorno dopo Alëna ritirò il diploma e sparì. Igor’ non si presentò più; suo padre nemmeno. Mi ripetevo che era meglio così: meno complicazioni.

Gli anni passarono. La madre di Alëna si consumò nell’alcol, il padre morì di cirrosi. Di lei arrivavano solo notizie vaghe: ogni tanto mandava qualche rublo a dei vicini anziani.

Poi, ieri, la rimpatriata. Molti erano venuti. I “favoriti” non erano diventati ciò che avevamo pronosticato: Svetlana, un tempo la più bella, si presentò già alticcia; Pashka, il leader di allora, era finito in carcere; Natasha piangeva un marito che l’aveva lasciata con troppi figli e zero aiuti.

Mentre facevo i conti con i miei giudizi sbagliati di un tempo, arrivò una macchina elegante. Ne scesero Igor’, impeccabile, e al suo fianco una donna bellissima, composta, in un abito che trasudava sicurezza. All’inizio non la riconobbi. Un ex compagno bisbigliò:
— Ma è Margot, l’imprenditrice dei cosmetici!

Fu Igor’ a sciogliere l’enigma:
— Non riconoscete? È Alëna Grigor’eva.

Mi mancò l’aria. Lei mi cercò con lo sguardo e disse piano:
— Ricordo ogni parola, Vera Ivanovna.

Provai a balbettare una scusa, un appiglio. Igor’ fu secco:
— Non sederemo con voi.

Passarono oltre. Solo più tardi Igor’ tornò e mi disse:
— Se le chiederà scusa davvero, Alëna la perdonerà. È migliore di tutti noi.

Mi feci coraggio. Mi avvicinai tremando, con le lacrime che spingevano.
— Perdonami. Mi sono sbagliata. Terribilmente.

Lei mi abbracciò. Niente discorsi, solo quell’abbraccio. Poi aggiunse:
— Sa, quel giorno mi ha fatto un favore. Mi ha insegnato a non voler essere debole. A non legare il mio valore allo sguardo degli altri.

Mi raccontò il resto: era partita con tremila rubli in tasca, mille lavoretti, studio a distanza, poi il primo negozio. Oggi ha una catena. Un anno dopo, Igor’ l’ha raggiunta. Si sono sposati.

Sono tornata a casa frantumata. La ragazza che avevamo deriso è diventata una roccia. I miei “alunni modello” si sono sgretolati, e lei ha trasformato la fame in forza, l’umiliazione in luce.

Ora so che il compito di un insegnante non è misurare scarpe, profumi o voti, ma saper intravedere il cuore di chi ha meno.

Nella mia nuova classe c’è un ragazzo, Danilka. Orfano, vestiti sporchi, nessun amico. Gli altri lo scansano. Io lo guardo con occhi diversi. Forse proprio lui, un giorno, sarà il più forte.

Lo aiuto in silenzio, senza esporlo. Ho imparato la lezione più dura e più giusta: non è l’ambiente a fare la persona; è la persona a trasformare l’ambiente.

E quell’errore non lo commetterò mai più.

Advertisements