Avevo preso in affitto una stanza da un’anziana signora dal sorriso gentile; ma la mattina seguente, quando ho aperto il frigo, ciò che ho trovato dentro mi ha convinta all’istante a rifare la valigia.

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Quando trovai quella stanza in affitto da una signora anziana dal passo lento e dagli occhi chiari, pensai di aver finalmente toccato terra. Il prezzo era quasi irreale, la casa profumava di lavanda e di biscotti al burro, e la carta da parati a fiorellini dava l’illusione di una quiete d’altri tempi. Avevo bisogno esattamente di questo: un luogo dove non dover scegliere tra il pagamento delle tasse universitarie e le medicine di mio fratello, tra la notte in sala da tè a servire ai tavoli e le lezioni all’alba. Ero stremata, ma speranzosa.

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La signora Wilkins mi aprì con un sorriso lieve, le mani sottili strette al grembo come per trattenere la timidezza. «Qui sarai al sicuro», disse. Mi mostrò una stanza luminosa, con un copriletto trapuntato a mano e una sedia accanto alla finestra. “Sembra la casa delle fiabe”, pensai, e firmai senza esitare.

La prima notte dormii come non mi accadeva da mesi. Al mattino, attirata dall’idea di un caffè, andai in cucina. Aprii il frigorifero e il gelo non fu quello dell’aria: sulla mensola centrale, fissata con calamite a forma di margherita, c’era una tavola di regole scritte in stampatello, ordinate come un menù… dell’ansia.

“INGRESSO: vietato avere le chiavi. Suonare sempre.
BAGNO: chiuso a chiave. Richiedere accesso con preavviso.
AMICI: nessuno.
TELEFONO: solo in cortile, massimo dieci minuti.
DOCCIA: giorni pari per me, dispari per l’ospite.
CUCINA: vietato cucinare dopo le 19.00.
SILENZIO: assoluto dalle 18.30.”

Sotto, un’ultima riga: “Tutto ciò che non è consentito è vietato.”

Rimasi immobile con la mano sulla maniglia. La sera prima non avevamo parlato di questo. Mi voltai e trovai la signora Wilkins dietro di me, già vestita di scuro come un’ombra gentile. «È per il bene della casa», disse con un tono che non ammetteva repliche. «L’ordine è serenità.»

Provai a spiegare che avevo lezione, un lavoro serale, che non potevo restare senza chiavi né chiedere il permesso per lavarmi. Lei sorrise, ma i suoi occhi rimasero freddi. «Le brave ragazze rispettano le regole», mormorò, e fece scattare una piccola chiave nel cassetto delle posate, dove—realizzai allora—custodiva anche la chiave del bagno.

Capì immediatamente che non era una sistemazione, era una gabbia ben stirata. Tornai in camera, iniziai a piegare i vestiti con la discrezione di chi non vuole far rumore. Stavo chiudendo la valigia quando la sua voce arrivò dal corridoio, tagliente come una lama che fende il nastro adesivo: «Dove pensi di andare senza avvisare? In questa casa non si esce senza che io lo sappia.»

La guardai. Ero esausta da mesi, ma in quel momento sentii in me una linea netta, un confine che nessuno avrebbe più oltrepassato. «Vado via», dissi. «Ora.» Lei avanzò un passo, si strinse lo scialle sulle spalle. «Io qui comando l’ordine.» «E io comando sulla mia vita», risposi, con una calma che non sapevo di possedere.

Scivolai oltre, la valigia che urtava il battiscopa, il cuore in gola. Sulla porta, la signora sospirò: «Troverai solo caos, là fuori.» «Meglio il mio caos che una prigione in fiore», dissi, e uscii.

Fuori, la mattina aveva un odore di pane e di pioggia appena promessa. Non avevo un piano, né un indirizzo, né abbastanza soldi per un’altra caparra. Avevo però la valigia, la mia ostinazione e una serie di numeri scritti a matita: contatti di lavori temporanei, annunci, appunti di sopravvivenza.

Seduta su un muretto, stavo scorrendo gli annunci sul telefono quando un ragazzo si avvicinò con due caffè d’asporto e un sorriso a metà strada tra l’imbarazzo e la gentilezza. «Sei la nuova studentessa del turno serale al bar di Miller, vero? Ti ho vista ieri. Sono Ethan.» Mi porse un bicchiere. «Sembri in cerca di qualcosa… o di tutto.»

Gli raccontai il necessario, non il resto. Ethan mi indicò un foglio appeso nella bacheca del negozio accanto: stanza in affitto, coinquilini studenti, chiavi personali, orari liberi. Andammo a vedere nel pomeriggio; l’appartamento aveva muri segnati dalle feste ma un tavolo grande per studiare, una moka sempre pronta e regole poche, chiare, umane.

La sera stessa avevo un nuovo mazzo di chiavi. Poco dopo, grazie a Ethan, trovai un turno migliore in un bistrot che chiudeva prima di mezzanotte. Mio fratello iniziò a stare meglio, io tornai a respirare.

A volte ripenso al frigo coi fiorellini e alle regole inchiodate col magnete. Mi attraversa un brivido, breve come un colpo d’aria quando apri una porta sul pianerottolo. Poi richiudo quel pensiero e sorrido. Andarmene quella mattina non è stata una fuga: è stata una scelta. La scelta che mi ha salvato la vita.

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