«Nella mia villa di campagna farai la serva», dichiarò con spocchia il mio patrigno, ignaro che a breve sarebbe rimasto al verde… per colpa mia.

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«Non sperare di restare qui sotto lo sguardo di Cristo», disse il mio patrigno con una voce affilata come una lama. «Tua madre è morta. Con lei sono finiti anche i tuoi privilegi.»

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Rimasi nell’atrio della casa dove ero cresciuta, le dita serrate sul manico liso di una vecchia valigia. Tre anni lontano, e ora ero solo un’ospite indesiderata.

Di fronte a me, Gennadij Pavlovich — massiccio, lo sguardo duro e compiaciuto — troneggiava come un giudice senza appello. Per lui il potere non era solo un’abitudine: era il suo modo di respirare.

«Mi serve solo un po’ di tempo per rimettere in ordine i pensieri», sussurrai, con una voce più fragile di quanto avessi previsto.

«Rimettere in ordine i pensieri?» ripeté con un ghigno. «In casa mia decide chi paga le bollette, Anastasia. Se vuoi restare, lavori. Dopo la morte di tua madre, tutto — e intendo tutto — è mio. Dal colmo del tetto all’ultima zolla.»

Alle sue spalle, il salotto portava ancora impronte di lei: tende ricamate, cornici di legno chiaro, la serra che aveva costruito con pazienza. Sembrava che mia madre fosse appena uscita dalla stanza.

«Se resti», continuò, gettando distrattamente la giacca firmata su una poltrona antica, «farai la cameriera. Cucina, pulizie, bucato. Come si addice a chi non ha diritti.»

Provai a ribattere, ma le parole mi si spezzarono in gola. L’unica domanda che rimbombava nella testa era: come siamo arrivati a questo?

Aprì il frigorifero e ne trasse una bottiglia di Château Margaux — il vino delle feste di famiglia. Quel gesto mi parve una profanazione.

«La tua stanza è come l’hai lasciata», aggiunse. «Sistemati. Domattina ti do l’elenco delle faccende.»

Salendo le scale, ogni gradino raccontava qualcosa: risate, conversazioni, l’odore della composta di ribes nelle estati luminose. Ora quel mondo pareva distante, coperto di polvere.

La stanza, davvero intatta: il letto con la trapunta patchwork, i libri allineati, la scrivania affacciata sul giardino. Mi sedetti. Le mie mani, rovinate e dure, dicevano più di me: avevo perso lavoro, casa, amore.

E poi, come un lampo, la frase di mia madre: «È tutto tuo, Nastja. Ho sistemato ogni cosa.» L’aveva detta un mese prima che il suo cuore cedesse. Allora non ci avevo badato. Ora suonava come un testamento lasciato a metà.

Eppure, alla sua morte, tutto era passato a Gennadij. In fretta. Troppo in fretta. Lui, che lei aveva sempre tenuto ai margini.

Un rumore nel vialetto mi strappò ai pensieri. Una Range Rover nera si fermò davanti al portico. Ne scesero due uomini: uno parlava con sicurezza, l’altro stringeva una cartella di pelle.

Li vidi entrare. Poco dopo, voci ovattate dallo studio. Scesi piano, schivando gli scricchiolii. Una tavola malferma tradì un colpo secco, ma nessuno parve sentirlo.

«…il terreno con la serra è mio, ormai», disse soddisfatto Gennadij. «Domani cominciano le trattative con i costruttori.»

«E i documenti di successione? È tutto a posto?» chiese l’altro.

«Ovviamente», rise il mio patrigno. «Chi vuoi che controlli? Sua figlia? Non sa neanche cosa ha firmato.»

Mi si gelò il sangue. Firmato? Io non avevo firmato nulla. O, se l’avevo fatto, ero fuori di me. All’improvviso, i tasselli iniziarono a combaciare.

Risalendo, chiusi la porta della mia stanza. Seduta sul letto, sentii accendersi una scintilla. Un piano prese forma — preciso, silenzioso, come un meccanismo a orologeria.

Non sarei diventata la domestica nella casa di mia madre.

Sarei diventata l’erede. La cacciatrice. E lui, la mia preda.

Se un testamento esisteva da qualche parte, l’avrei trovato.

Fuori il cielo si scuriva. Nell’aria vibra­va la tensione. E per la prima volta dopo mesi sapevo esattamente cosa fare.

La partita era cominciata. E stavolta, non avevo alcuna intenzione di perderla.

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