«Kiril, caro, forse dovresti tenere a bada tua moglie», disse Tamara Igorevna con quella calma affilata di chi spezza un filo d’erba tra le dita. Non mi degnò di uno sguardo: intenta a lisciarsi i guanti, li studiava come se vi fosse nascosto l’enigma del mondo. «Qui non siamo nel vostro bar di quartiere. Siamo ospiti di persone perbene. Serve decoro.»
Raddrizzai la schiena, le mani intrecciate dietro per domare il lieve tremito. Ogni parola mi arrivava come un colpo a secco, senza rumore, ma che centrava il bersaglio. Accanto a me Kirill tossì, tirandosi su il colletto come se all’improvviso lo stringesse.
«Mamma, stai esagerando», provò a dire, ma la voce gli si incrinò. «Alina sa comportarsi.»
«Sa?» ribatté Tamara, e finalmente alzò su di me lo sguardo con cui si fissa una macchia su un tappeto. «Hai visto come è vestita? Quell’abito l’ho intravisto alla bancarella del mercato delle patate. Non credevo che qualcuno avesse il coraggio di indossarlo.»
Su un punto, però, aveva ragione: l’abito era semplice, l’avevo voluto così. Linea pulita, nessun fronzolo, niente che le offrisse appigli per le sue raffiche di sarcasmo.
Nell’atrio, inondato di luce, i passi facevano un’eco discreta sul marmo. Dalle vetrate entrava un profumo fresco, quasi di aria lavata dalla pioggia, con un accenno di fiori esotici.
«E il tuo capo accetta un abbigliamento del genere?» riprese, parlando a Kirill ma inchiodando me con gli occhi. «Tenere in azienda una donna conciata così è la morte della reputazione.»
Kirill inspirò per replicare. Io scossi appena la testa: non ora.
Feci un passo avanti. I tacchi ticchettarono piano, come a bussare.
«Andiamo in salotto?» chiesi neutra. «Ci staranno aspettando.»
Tamara serrò le labbra e mi seguì con l’aria di chi si degna di concedere un favore. Kirill dietro, a passettini da scolaretto colto in fallo.
Il salotto superava l’atrio per ostentazione: divano chiaro, poltrone dal taglio futuristico, tavolino in vetro con un vaso di gigli appena recisi, un profumo sottile ma invasivo come una nota tenuta a lungo. Una parete intera a vetrata mostrava il giardino pettinato: prato rasato, specchio d’acqua, vialetti di pietra.
«C’è chi sa arrangiarsi», commentò Tamara sfiorando lo schienale di una poltrona, come in cerca di polvere. «Non tutti vivono in un bilocale in affitto.»
L’occhiata a Kirill fu un dardo: “meriteresti di più”. E, sottinteso, la colpa ero io.
«Mamma, avevamo promesso un tono moderato», sospirò lui.
«Io constato e basta», alzò un sopracciglio. «C’è chi tira su palazzi così e chi non riesce a mantenere la famiglia.»
Mi squadrò, gli occhi freddi come acciaio: «A un uomo serve una donna che lo elevi, non una zavorra. E tu? Sei povera, dentro e fuori. Trascini giù mio figlio.»
Le parole uscirono lente e devastanti. Kirill impallidì e mosse un passo verso di me; lo fermai con un gesto minimo. La guardai soltanto. E per la prima volta provai solo una limpida estraneità: lei non aveva la minima idea di dove fosse. Quello era il mio asso.
«E i padroni di casa?» sbottò infine, lasciandosi cadere in poltrona. «Non si degnano di ricevere gli ospiti?»
«Siamo in anticipo», tentò Kirill. «Ci hanno dato appuntamento alle sette. Sono appena le sei.»
«Un po’ di cortesia non guasta.»
Mi avvicinai al pannello a filo parete e sfiorai il sensore.
«Che fai?» scattò lei. «Non toccare nulla: rompi tutto e poi chi paga?»
«Chiamo qualcuno per offrirci da bere», risposi pacata. «Non è elegante lasciare gli ospiti a bocca asciutta.»
Pochi istanti, e una donna in uniforme grigio perla entrò senza rumore, capelli raccolti, sguardo fermo.
«Buonasera», disse rivolgendosi a me. Solo a me.
Tamara si raddrizzò, pronta a comandare. «Cara, del cognac francese e qualcosa di fine. Niente patatine. Dei canapé al caviale andranno benissimo.»
La donna restò immobile, in attesa, gli occhi su di me.
«Elena», dissi, «il solito per me. Per Kirill, un whisky con ghiaccio. Per la signora… un bicchiere d’acqua naturale, ben fredda.»
Elena annuì ed uscì.
Il volto di Tamara virò al cremisi. «Cos’è questa sceneggiata? Ti credi di impartire ordini, piccola maleducata? Chi ti credi di essere?»
«Le ho chiesto acqua», replicai piano. «Mi è sembrata accaldata.»
«Kirill, hai sentito?» balzò in piedi. «Tua moglie mi manca di rispetto in casa mia!»
Lui guardava me e lei, spaesato. Il suo silenzio faceva più male delle sue parole.
«Alina, perché…?»
«Perché?» lo inchiodai. «Perché sei stato zitto mentre mi calpestava?»
Elena rientrò, posò i bicchieri e svanì. Tamara fissò l’acqua come fosse un insulto.
«Non berrò. Pretendo rispetto. Sono la madre di tuo marito.»
«E qui è un’ospite», dissi sorseggiando il mio drink: il ginepro mi pulì la voce. «E gli ospiti si comportano da ospiti. Altrimenti la serata finisce prima di iniziare.»
La mia calma la raggelò.
«Mi cacci? E chi saresti?»
«La padrona di casa.»
Il silenzio si fece spesso. Poi Tamara rise, aspra. «Lei? Padrona? Kirill, tua moglie straparla.»
Kirill mi guardò come se una stanza si fosse accesa all’improvviso. «Alina… è vero?»
Non risposi a lui. Risposi a lei. «Sì, Tamara Igorevna. Questa è casa mia. L’ho comprata con ciò che ho guadagnato lavorando. Mentre lei mi dipingeva come un peso, io costruivo un’azienda.»
«Quale, scusa? Manicure a domicilio?»
«Tecnologia. Una società IT, con sedi in tre Paesi. Il “capo” di Kirill, quello da cui vorrebbe essere stimato, è un mio dirigente.»
Abbassai lo sguardo su un punto qualunque del tavolino. Un sorriso senza allegria. «Credevo che una cena fosse il modo più gentile per dirvelo. Mi sbagliavo.»
Il volto di Tamara passò dal rosso al grigio. Solo allora parve vedere davvero il salotto, il marmo, la vetrata, il giardino. Non un capriccio. Non casa d’altri. La mia.
«Stai mentendo», mormorò. «Non può essere.»
«Perché dovrei?» alzai le spalle. «Kirill, ricordi le mie dichiarazioni dei redditi quando chiedemmo il mutuo? Non ce lo concessero. Tu pensasti a un errore della banca. E non chiedesti altro.»
Kirill chiuse gli occhi. Lo ricordava. Aveva scelto di non vedere: più comodo immaginarmi piccola, dipendente, riconoscente.
«Perché non me ne hai parlato?» sussurrò.
«Quando avrei dovuto?» La voce mi uscì ferma. «Tra un’umiliazione e l’altra? O mentre tu tacevi? Io volevo essere amata, non misurata. Difesa perché ero tua moglie, non perché avevo denaro. Non è accaduto.»
Tamara crollò sulla poltrona, le mani molli sulle ginocchia.
«Volevi un palazzo?» dissi piano. «Eccolo. Ma qui non comandi, e dopo stasera non sei neppure un’ospite gradita.»
Guardai Kirill. Dentro di lui qualcosa si spezzò, e non ero io.
«Avvierò il divorzio», dissi. Niente scenate: un fatto.
«Alina, ti prego!» annaspò. «Ho capito!»
«No. Non hai capito niente», risposi.
Sfiorai di nuovo il pannello. «Elena, accompagni i signori all’uscita.»
La donna comparve con due uomini in abito scuro. Nessun commento. Si posizionarono. Kirill guardò loro, sua madre, me. Poi si mosse verso la porta, lento, come se ogni passo fosse un addio a un’illusione.
Quando la porta si richiuse, restai sola. Il salotto respirava luce. Sollevai il bicchiere, mi avvicinai alla vetrata, lasciai che lo sguardo scorresse sul giardino vivo. Non ero “povera”. Ero libera.
Tre mesi dopo
Il divorzio fu rapido e silenzioso. Kirill sparì, trascinando con sé sua madre. Io mi immersi nel lavoro: contratti firmati, una filiale nuova, notti di idee e mattine di risultati. Il vuoto si riempì di rispetto per me stessa. Niente giustificazioni, nessuna scusa. Solo vita.
Ero nel mio ufficio al trentesimo piano, davanti a una pila di documenti. La città, oltre il vetro, pulsava possibilità.
Un colpo discreto alla porta. «Alina Viktorovna, c’è una persona senza appuntamento. Dice di essere… suo ex marito.»
«Non ricevo senza appuntamento.»
«Dice di essere suo ex marito.»
La penna si fermò. Inspirai. «Lo faccia entrare.»
Kirill comparve smagrito, l’abito economico, gli occhi spenti. «Ciao.»
«Che cosa vuoi?»
«Chiederti scusa.» Si avvicinò al tavolo, dove non c’era nessuna foto. Nessun “noi”. Solo lavoro. «Mamma sta male. Dopo quella sera… il cuore. Piange, dice che ha sbagliato.»
Attesi.
«Sono stato un codardo», disse piano. «Dovevo difenderti. Ti amo, Alina. Possiamo ricominciare?»
Allungò una mano; io la scostai. «Ricominciare cosa? Lo stesso copione? Io a proteggerti dalle sue parole, tu a nasconderti dietro di lei?»
«No, sarà diverso. Troverò un lavoro migliore, ti dimostrerò…»
«Non devi dimostrarmi niente», lo interruppi. «Non è mai stato un tema di soldi. È rispetto. Parità. Squadra. E noi non lo siamo mai stati.»
Mi alzai e andai alla finestra. La città scorreva sotto come un fiume di luce. «Sei venuto perché non hai più denaro e non reggi più tua madre», dissi senza voltarmi. «Non per me.»
Tacque. Quel silenzio fu una confessione.
«Vai, Kirill. La porta è lì. E questa volta è chiusa per sempre.»
Si voltò ed uscì. La serratura scattò. Rimasi a guardare il riflesso della città. Niente trionfo, nessuna vendetta. Solo pace.
Cinque anni dopo
Una terrazza affacciata sul verde della costiera amalfitana. Odore di mare e di limoni, ortensie gonfie di sole. Archie, il golden, con il muso sul mio grembo. Il portatile aperto sul tavolino, dimenticato.
«A cosa pensi?» chiese una voce alle mie spalle.
Sorrisi. Sasha si sedette accanto a me e porse un calice di bianco freddo. La sua mano mi sfiorò la spalla.
«A quanto sia cambiato tutto.»
«In meglio?» I suoi occhi, come sempre, attenti e gentili.
Ci eravamo conosciuti a un forum economico due anni prima. Architetto, curioso del mondo, rispettoso di me, delle mie idee, persino dei miei silenzi. Quando, dopo sei mesi, scoprii una sua fragilità di salute, non cambiò nulla: faceva parte della sua storia, e basta.
«In diverso», dissi. «Il passato non pesa più.»
Una vecchia collega, pochi giorni prima, mi aveva aggiornata: Kirill aveva lasciato la mia azienda non per volere mio ma per carenza di risultati; poi lavori brevi, approdi provvisori. Ora fa il commerciale in una piccola impresa e vive ancora con sua madre. Tamara si è spenta nel suo orgoglio, come una brace coperta di cenere.
«Non provo niente», aggiunsi, come a chiudere un conto. «Né rabbia né pietà. È come leggere una notizia vecchia.»
Sasha mi strinse. «Questa è la libertà: quando il passato non ti muove più.»
Appoggiai la testa sulla sua spalla. Il sole dorava il mare; Archie scalciò nel sonno. Non c’era più posto per umiliazioni o paure. Solo pace, lavoro pulito, un amore chiaro e l’azzurro davanti.
Tra poco saremo in tre, pensai accarezzandomi il ventre. E sono felice che il futuro porti il suo nome accanto al mio.