Alla nostra cerimonia, qualcuno ha rinchiuso mia figliastra in un armadio: siamo rimasti attoniti quando abbiamo scoperto chi l’aveva fatto e perché.

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Nel preciso istante in cui le note del matrimonio cominciarono a riempire la sala, la nostra gioia si mutò in sgomento: Amelia, la mia figliastra di nove anni, la nostra damigella, era scomparsa. La cerimonia si bloccò di colpo. Pochi minuti dopo la trovammo chiusa in uno stanzino, il viso rigato di lacrime e il cestino dei petali stretto sulle ginocchia. Le parole che mi sussurrò allora mi gelarono il sangue e incrinarono l’illusione di una giornata perfetta.

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La conoscevo da quando aveva sei anni: uno sguardo timido, un cuore ferito dalla perdita della mamma. Conquistarne la fiducia fu un cammino lento, fatto di favole della buonanotte, mani impastate di farina in cucina e gesti teneri come pettinarle i capelli. Così, passo dopo passo, quel legame diventò solido. Ricordo ancora la sua vocina: «Spero che tu resti per sempre con noi.»

Due anni più tardi, quando mi fidanzai con suo padre, Amelia era al settimo cielo. «Voglio essere io la damigella dei fiori!» dichiarò prima ancora che glielo chiedessimo. Disegnava abiti sul quaderno e mi accompagnava agli incontri con i fornitori, stringendomi la mano con la sicurezza di chi sa di avere un posto speciale. Non era solo accanto a me: era il mio piccolo cuore che mi seguiva ovunque.

La mattina delle nozze sembrava uscita da una fiaba. La luce dorata inondava la stanza, e Amelia girava su sé stessa nel suo vestitino, la fascia rosa che ondeggiava a ogni passo. Era raggiante, emozionata, pronta. «Guarda come cammino», mi disse orgogliosa, ripetendo i passetti provati mille volte.

Quando però la musica partì, all’imbocco della navata comparve mia nipote Emma, tre anni, smarrita, che faticava a spargere i petali. Un nodo mi serrò il petto. «Dov’è Amelia?» chiese David, agitato. Mi voltai verso la mia damigella d’onore: nessuno la vedeva da venti minuti.

La cerimonia si fermò. Mio padre e altri cominciarono a cercarla ovunque, mentre io, immobile nel mio abito, stringevo il bouquet sentendomi impotente. All’improvviso qualcuno gridò: «Sento bussare!» Seguimmo quel suono lungo un corridoio laterale fino a uno sgabuzzino chiuso a chiave. Il coordinatore trovò finalmente la chiave giusta e aprì.

Dentro, rannicchiata in un angolo, c’era Amelia. Le guance rigate, il corpo che tremava, gli occhi pieni di paura. Il trucco era colato e il labbro le tremava. Mi inginocchiai, la strinsi forte e le ripetei piano: «Adesso sei al sicuro.»

Tra i singhiozzi, mi domandò: «Perché mi hanno messa in castigo? Non ho fatto nulla.» Le chiesi chi le avesse detto una cosa simile. Con un dito incerto indicò… mia cognata, Melanie. In un istante tutto ebbe un senso.

«Ha detto che dovevo stare in punizione», mormorò Amelia. «Mi ha spinta dentro e ha chiuso la porta.»

Mi voltai verso Melanie, che se ne stava con le braccia conserte e un’aria di sfida. «Sei stata tu?» le chiesi, a fatica trattenendo la rabbia.

«Oh, per favore», sbuffò. «Stai facendo un dramma per niente.» Poi la frase che non scorderò mai: «Tanto non è nemmeno tua figlia. Era ora che Emma avesse un po’ d’attenzione.»

Quelle parole furono una frustata. «Davvero? E quando mai Emma non è stata al centro di tutto?» replicai. Melanie e suo marito avevano sempre trattato la loro bambina come il gioiello della famiglia, e ogni occasione sembrava costruita attorno a lei. Qualche mese prima avevo spiegato con tatto che Amelia sognava da sempre di essere la damigella. Credevo che Melanie l’avesse accettato. Invece aveva atteso il momento più crudele per vendicarsi. Gli ospiti ammutolirono, poi mia zia le si parò davanti e altri manifestarono la loro indignazione. Melanie fu accompagnata fuori, ancora intenta a giustificarsi. «Se ne dimenticherà!» urlò. «Sono stati solo pochi minuti!»

Ma il danno era fatto.

Rientrai tenendo Amelia per mano. Le sistemai una ciocca dietro l’orecchio e le sussurrai: «Se lo vuoi, questo è ancora il tuo momento.»

Lei respirò, si raddrizzò e annuì. La musica riprese. E mentre avanzava lungo la navata, successe qualcosa di incredibile: tutti gli ospiti si alzarono in piedi e cominciarono ad applaudire. Vidi luccicare più di un paio di occhi.

Sembrava piccola, eppure fortissima. Il mento alto, il passo fermo, spargeva i petali come fossero benedizioni. Arrivata davanti a David, esclamò raggiante: «Ce l’ho fatta!»

«Sì, piccola, ce l’hai fatta davvero», le disse lui baciandole la fronte. «Sei stata straordinaria.»

Quel giorno rimarrà nei nostri cuori non per l’intoppo, ma per la forza con cui siamo rimasti uniti. Abbiamo protetto la nostra famiglia, riportato la verità e mostrato a tutti che cos’è l’amore. Amelia tenne quel cestino sul comodino per mesi e ogni sera, indicando i petali rimasti, chiedeva: «Ti ricordi quando sono stata la damigella più coraggiosa di sempre?»

E io rispondevo sempre: «Lo ricordo benissimo. E non lo dimenticherò mai.»

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