«Dopo il divorzio, lui ha tenuto l’appartamento, ma dodici mesi dopo mi sono ritrovata a essere la sua direttrice sul lavoro.»

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«Certo che sì, ho sempre sognato di avere una casa tutta mia,» mormorai con un sorriso appena accennato, fissando le chiavi strette tra le sue dita.
«E io, invece, una casa l’ho sempre avuta,» ribatté lui con quel sorriso che ormai riusciva solo a nausearmi.

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Era già passata da un pezzo l’ora di cena: le 21:30. Ricontrollai il telefono — ancora nessun messaggio da Sergey. La tavola apparecchiata mi guardava come una scenografia inutile: il cibo ormai freddo, le candele spente da tempo e il vino, stappato due ore prima, aveva perso ogni traccia di profumo. Proprio come il nostro rapporto: svuotato, senza vita.

All’improvviso, la porta sbatté con un fragore tale da far vibrare i vetri della credenza. Sergey entrò con passo sicuro, slacciandosi la cravatta con fare annoiato. Profumava di una fragranza costosa, di certo non quella che gli avevo regalato per il nostro anniversario.

«Perché arrivi a quest’ora?» domandai, cercando di mantenere un tono neutro.
«Adesso devo pure giustificarmi?» sbottò lui, lanciando la borsa sul divano. «Lavoro, lo sai. Qualcuno dovrà pur mantenerla questa casa.»

Mi morsi il labbro. Sei anni a sgobbare in un’azienda di primo piano, tre promozioni, e per lui restavo “quella donna con troppe ambizioni”.

«Ho preparato la cena. Volevo parlarti di una cosa importante…» iniziai a dire.
«Sai cosa, Anya?» mi interruppe con voce tagliente. «Sono stanco. Stanco delle tue lamentele, della tua eterna insoddisfazione, di queste sceneggiate romantiche a lume di candela. Vivi in un film d’amore, ma la realtà è un’altra.»

Le sue parole mi colpirono allo stomaco. Un nodo mi strinse la gola, ma rifiutai di cedere alle lacrime.

«Hai ragione,» risposi, con una calma che sorprese anche me. «Io vivo in un romanzo. Solo che non è una storia d’amore: è un thriller. E tu sei il cattivo.»

La sua risata ruppe il silenzio come una lama, lacerandomi dentro.

Il divorzio fu rapido, come se Sergey aspettasse solo il momento giusto. L’appartamento costruito insieme — in cui avevo investito soldi, tempo e brandelli di anima — rimase a lui. «È suo di diritto», dichiarò l’avvocato con la stessa freddezza con cui si discute di una proprietà qualsiasi.

Marina, la mia migliore amica, mi trovò un piccolo appartamento in affitto poco distante dal vecchio quartiere. Minuscolo, sì, ma pieno di calore. «È solo una fase di passaggio,» continuava a ripetere, e io cercavo di crederci.

«Sai qual è la cosa che fa più male?» le confidai una sera, versando un bicchiere di vino nella cucina nuova di zecca.
«Che io quell’uomo lo amavo davvero. Non per la casa, non per lo status, non per la vita che mi dava. Amavo lui.»

«E lui amava solo se stesso,» commentò Marina, porgendomi un tovagliolo.

Alzai lo sguardo e mi osservai nel riflesso della finestra: una donna esausta, con gli occhi spenti. Davvero ero io? Io, che all’università sognavo di conquistare il mondo?

«Hai ragione,» sussurrai, vuotando il bicchiere in un sorso. «È ora di ricominciare ad amarmi. E di imparare qualcos’altro.»

«Che cosa?» domandò Marina.

«A rimettere ordine nella mia vita,» risposi. E per la prima volta dopo tanto tempo, il sorriso che mi affiorò sulle labbra era vero.

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