Il cane è esploso in rabbia alla vista della donna incinta, ma ciò che ha rivelato ha lasciato senza parole perfino gli agenti di polizia.

0
65

Tutto ebbe inizio con un abbaio acuto e insistente, un grido disperato che si faceva spazio tra il rumore incessante dell’aeroporto.

Advertisements

La donna incinta trasalì, gli occhi pieni di paura, quando un grosso pastore tedesco si parò davanti a lei. Istintivamente fece un passo indietro, proteggendo il pancione con le mani.

«Per favore, allontanatelo!» implorò, guardandosi intorno con angoscia. Il cane, chiamato Bars, però rimase fermo, teso e con uno sguardo quasi umano, come se percepisse qualcosa che gli altri non vedevano.

L’agente Aleksej scambiò un rapido sguardo con i colleghi, preoccupato. Bars era addestrato a fiutare droghe, armi ed esplosivi, ma il suo comportamento in quel momento era diverso: non un semplice segnale, bensì un avvertimento urgente.

Con voce ferma, Aleksej si rivolse alla donna: «Venga con noi per un controllo.»

Lei, tremante, protestò: «Non ho fatto nulla di male!» Intorno, le persone osservavano con curiosità e apprensione.

L’agente esitò solo un attimo, poi ordinò: «Portatela subito per un controllo approfondito.»

La donna perdeva colore mentre due poliziotti la conducevano in una stanza separata, lei continuava a stringere il ventre, respirando affannosamente.

Aleksej seguì con Bars, il cane non distoglieva mai lo sguardo dalla donna, come a proteggerla. Mai aveva visto un comportamento simile.

Iniziò l’ispezione. Uno degli agenti tirò fuori uno scanner, mentre una collega chiese: «Ha un certificato medico?»

«Sono al settimo mese di gravidanza,» rispose lei, incredula.

Dietro la porta, Bars ansimava e grattava con la zampa, rompendo il silenzio. Aleksej si preoccupò: quel comportamento non era normale per un cane addestrato.

Improvvisamente la donna urlò: il suo corpo si contorse dal dolore, gli occhi spalancati dal terrore. «C’è qualcosa che non va…» ansimò.

Sudata e con il respiro irregolare, Aleksej chiamò immediatamente: «Prendete un’ambulanza!»

La donna si lasciò cadere sulla sedia, tremante, gli occhi colmi di panico per sé e per il bambino non ancora nato.

Bars smise di abbaiare, emettendo un lamento quasi umano, non più agitato ma sofferente, come quando aveva trovato un bambino ferito tempo fa. Aleksej ricordò quel giorno.

«Sta partorendo?» chiese uno dei poliziotti.

«No, è troppo presto… Non dovrebbe succedere…» rispose lei, ansimando.

I medici entrarono di corsa. «Resista, la portiamo subito in ospedale,» disse uno, controllando il polso irregolare della donna.

Bars si irrigidì, ringhiò profondo, come se avesse sentito un pericolo imminente. Aleksej avvertì un nodo allo stomaco.

Il medico, chinandosi, posò la mano sul ventre di lei e aggrottò le sopracciglia: «Aspettate… non sono contrazioni premature. C’è qualcos’altro.»

«Non capisco cosa mi succede…» mormorò la donna, con le lacrime sulle guance. «Salvate il mio bambino, vi prego.»

Il medico guardò Aleksej negli occhi: «Ha un’emorragia interna. Se non la portiamo in sala operatoria subito, moriranno entrambi.»

Il caos esplose. I medici spinsero la barella nel corridoio; la gente si fece da parte, alcuni filmavano, altri pregavano. Bars correva accanto, consapevole dell’importanza del momento.

«Resisti!» gridò un infermiere mentre la donna cominciava a perdere conoscenza.

Aleksej camminava vicino a lei, con Bars sempre un passo avanti, la coda ferma e lo sguardo fisso sull’unico obiettivo: salvare quella vita vacillante.

Quando le porte dell’ambulanza si chiusero, la donna si girò verso Bars e, con labbra tremanti, sussurrò: «Grazie…»

Il cane scosse appena la testa in risposta. Aleksej accarezzò il suo dorso: «Bravo ragazzo. Ce l’abbiamo fatta.»

Le sirene risuonavano nella notte mentre l’ambulanza spariva all’orizzonte. Ma nella mente di Aleksej restava una domanda: «Arriveranno in tempo?»

Ore interminabili passarono.

All’ospedale, Irina, così si chiamava la donna, spiegò ai medici di essersi sentita male poco prima di salire sull’aereo: un leggero capogiro e una strana pressione interna, attribuiti alla stanchezza. Ma Bars aveva fiutato la verità e aveva lanciato l’allarme.

Per lei tutto sembrava un sogno, ma non dimenticava lo sguardo ansioso del cane e la presenza sicura di Aleksej.

I medici diagnosticarono una lacerazione parziale dell’utero: solo l’intervento tempestivo aveva salvato lei e il bambino.

Il neonato, forte e sano, fu chiamato Aljoša, in onore dell’ufficiale. Piangeva vigoroso, già testardo come il cane che gli aveva donato la vita.

Un mese dopo, Irina tornò in aeroporto, non con paura ma con gratitudine. Con un mazzo di fiori in mano e un sorriso radioso, con lacrime di gioia negli occhi.

Ad attenderla c’erano Aleksej e Bars.

Il cane la riconobbe subito, le leccò la mano e, con rispetto quasi religioso, sfiorò con la lingua il piedino del piccolo che spuntava dalla coperta.

«Aljoša, questo è Bars,» sussurrò Irina al figlio. «Il tuo angelo custode.»

Aleksej rimase in silenzio, accanto a loro, sentendosi finalmente parte di qualcosa di più grande.

Bars li guardò entrambi, mosse lentamente la coda. Non conosceva le parole, ma sapeva una cosa essenziale: quel giorno aveva salvato una vita. E forse si meritava quel piccolo osso di zucchero che tanto amava.

Advertisements