Il ritorno di Katya: una felicità ritrovata tra le mura di casa e la svolta del destino

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Katia scese dall’autobus a due passi dal villaggio. Il motore brontolò, poi il mezzo si allontanò lungo l’asfalto, lasciandosi dietro una scia di polvere e un silenzio leggero. Lei si fermò un attimo, si sfilò i sandali e li ripose con cura nella borsa da viaggio, come se quel gesto fosse un rito. Poi appoggiò i piedi nudi sul sentiero sabbioso che conosceva da quando era bambina. Casa era lì, a neanche trecento metri.

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Nel giro di pochi passi il mondo cambiò voce. I galli si rispondevano da un cortile all’altro, dalla stalla arrivavano muggiti pigri, e tra i cespugli gli uccelli facevano a gara a chi cantava di più. L’erba ai bordi della strada brillava di rugiada e, per un istante, Katia ebbe la sensazione che quei riflessi fossero ricordi: schegge di infanzia rimaste ad aspettarla.

Il villaggio si stava destando lentamente, come una creatura che si stiracchia. Le vicine si affacciavano alle finestre, salutavano con un sorriso e un cenno della mano. Katia rispondeva con un sorriso appena accennato, un movimento del capo, e dentro di sé sentiva sciogliersi qualcosa che in città era sempre rimasto teso.

— Bentornata, Katjuša… finalmente. — La voce della madre la raggiunse dal cancelletto, impastata di emozione e di una severa dolcezza.

Katia accelerò il passo, e quando la vide lì, con il grembiule già sporco di lavoro e gli occhi lucidi, le si strinse il petto.

— Ma perché ti sei alzata così presto? — la rimproverò piano, come se fosse ancora una ragazzina. — Potevi dormire.

La madre fece una smorfia che voleva essere un sorriso.

— Le capre non aspettano nessuno. Lo sai anche tu quando comincia la mia giornata.

E la strinse forte, con quell’abbraccio che non chiedeva permesso e non lasciava scappare nulla: né la nostalgia né la paura.

Poi, con una finta leggerezza, la madre aggiunse:

— Credevo che stavolta mi portassi qualcuno da conoscere… Me l’avevi promesso.

Katia abbassò gli occhi. Sentì il peso delle settimane passate a costruire un “noi” che non aveva mai davvero il sapore di casa.

— Per ora non può venire. — Sospirò. — Forse ha paura… o forse sono io che non capisco se è amore o soltanto abitudine, tempo condiviso.

La madre la fissò, come se volesse leggere dietro le parole.

— Davvero? Ma eri tu la prima a rincorrerlo. — Scosse la testa. — Non per niente ti ho cucito due vestiti nuovi. E adesso mi dici che l’amore forse non c’è?

Katia si morse il labbro.

— Io credevo ci fosse. Poi quando ha iniziato a parlare sul serio di futuro… mi è venuta addosso una paura strana. Come se mi stessi allontanando da me stessa.

— E perché? È un uomo cattivo? Beve? Va dietro alle donne? — La voce della madre si fece più dura, protettiva.

— Non è così semplice, mamma… — Katia si passò una mano tra i capelli. — Lui vuole cambiarmi in tutto. Ho cambiato taglio, ho fatto la permanente. Mi vestivo come piaceva a lui, non come piaceva a me. Ho persino imparato a camminare “come una modella”. Tutto per essere la sua idea di donna. E lui… lo dava per scontato. Come se fosse un suo diritto.

La madre la guardò a lungo. Poi parlò più piano, ma con una fermezza che tagliava.

— E ti immagini una vita intera a recitare? Con un passo che non è tuo, con abiti che non ti appartengono, con desideri che non nascono da te… Attenta, figlia mia. C’è un confine sottile tra amare e diventare un giocattolo.

Quelle parole le rimasero addosso come un panno caldo.

Entrarono in casa. Katia si cambiò, indossò una vestaglia semplice, raccolse i capelli in uno chignon e lasciò uscire un respiro che non sapeva di stanchezza, ma di libertà.

— Adesso sì… sono a casa.

— E ci resti un po’, — disse la madre, già girata verso il lavoro. — Così parliamo con calma. Come si deve.

Quando la madre uscì per mungere, Katia infilò un paio di ciabatte di gomma e si diresse nell’orto. Le sembrò naturale, come se le mani non avessero dimenticato. Sarchiò un’aiuola prima di colazione, con la terra che le entrava sotto le unghie e le rimetteva i pensieri al loro posto.

Finito, si lavò al lavatoio in cortile. L’acqua era fredda, sveglia, vera. E proprio mentre si asciugava il viso, una voce maschile e allegra arrivò dal cancelletto:

— Ehi, Katjuša! Sei tornata a riposarti o a salvarti?

Katia si voltò e lo vide. Alto, una camicia consumata, le maniche rimboccate, il sorriso di chi non ha paura di mostrarsi per quello che è.

— Serëga! — esclamò, sorpresa autentica. — Non ci credo… da dove sbuchi?

— Ho saputo da tua madre che sei tornata. E ho pensato: o passo adesso o poi mi pento. — Fece un passo avanti. — Quanti anni sono?

— Quasi tre, — rispose lei. — E tu? Come va?

Lui alzò le spalle.

— Qui è sempre la solita storia: mucche, patate, fieno. Il lavoro non finisce mai. Ma almeno sai per cosa ti svegli la mattina. E tu? In città dev’essere un altro mondo.

Katia sorrise, ma con una luce più fragile.

— Un altro mondo sì. Non sempre più facile, però. Solo… più rumoroso. Più finto.

Si sedettero sulla panchina vicino al cancelletto. Serëga raccontò le notizie: chi si era sposato, chi era partito, chi aveva rifatto il tetto, chi aveva litigato per un confine di terreno. Storie piccole e sincere, capaci di scaldarle l’anima senza chiedere niente in cambio.

A un certo punto lui si fece serio, come se stesse scegliendo le parole con la stessa attenzione con cui si sceglie un sentiero nel bosco.

— Quando sei partita, qui mancava qualcosa. — Si grattò la nuca, un gesto impacciato. — Come se un pezzo della nostra infanzia fosse andato via con te.

Katia abbassò lo sguardo.

— Ma noi siamo amici, Serëga.

— Certo. — Lui annuì. Poi aggiunse, quasi in un soffio: — Però, a volte, l’amicizia cresce. Cambia forma. E non ti chiede il permesso.

Dentro di lei si aprì una stanza di ricordi: le estati al fiume, i funghi nei boschi, le biciclette sgangherate, le risate senza motivo. Allora tutto sembrava semplice, pulito. E forse lo era davvero.

Serëga le indicò la strada che portava al lago.

— Domani ci andiamo insieme? Ho ancora la barca. Ti manca, vero?

Katia sentì un sorriso nascere senza sforzo.

— Sì. Mi manca tanto. Va bene… domani.

Quella sera, mentre in cucina si mescolavano il profumo del latte fresco e dei pirožki caldi, Katia raccontò alla madre dell’incontro.

La madre ascoltò in silenzio, poi disse con una naturalezza disarmante:

— È un bravo ragazzo. Lavoratore. Uno che non fa promesse grandi, ma fa i fatti.

— Mamma… non cominciare. — Katia rise piano. — Siamo solo amici.

La madre la guardò con lo stesso sguardo di prima, quello che vede più lontano.

— Allora guardalo meglio. Con Igor ti sei piegata per piacere. Con Serëga, magari, torni dritta. Torni Katia.

Il giorno dopo il lago li accolse con il sole alto e l’acqua scintillante. C’erano bambini che urlavano felici, anziani con le canne da pesca, donne che chiacchieravano a riva. Serëga tirò fuori la barca, vecchia ma solida, e remò verso il centro con una calma che sembrava sicurezza.

Katia immerse la mano nell’acqua fresca. Sentì il cuore rallentare.

— In città è davvero così diverso? — chiese lui.

— Lì corrono tutti. Sempre. Come se inseguire qualcosa li rendesse vivi. — Katia guardò l’orizzonte. — È stancante.

Serëga annuì.

— Qui è più semplice. Lavoro, casa, terra. A volte sembra monotono… ma è onesto.

Katia si scoprì a pensare, con un’intensità quasi dolorosa: in città fingo. Qui respiro. E fu come una verità detta ad alta voce.

All’improvviso Serëga smise di remare per un istante.

— Resta, Katia. — La guardò senza fretta. — Qui puoi essere te stessa. Non la versione che piace a qualcuno.

Quelle parole le colpirono al punto giusto: non come una promessa romantica, ma come un appiglio.

I giorni passarono. Katia aiutava la madre nell’orto, andava al mercato, incontrava amiche che le stringevano le mani come se volessero trattenerla. Serëga compariva spesso: una volta con un sacchetto di mele, un’altra con una risata pronta, un’altra ancora solo per sedersi e parlare.

Eppure, dal telefono arrivavano i messaggi di Igor, l’uomo della città, e ogni volta Katia sentiva un nodo stringersi.

“Mi manchi.”
“Quando torni?”
“Sei mia.”

Quelle due parole — sei mia — le facevano venir voglia di buttare il cellulare nel pozzo.

Una sera Igor chiamò. La sua voce non chiedeva: pretendeva.

— Dove sei finita? Noi dobbiamo stare insieme, chiaro?

Katia si accorse che stava trattenendo il fiato.

— E se io non voglio? — uscì un sussurro, ma non era debolezza. Era una porta che si chiudeva.

— Devi! — ringhiò lui.

Quando riattaccò, Katia rimase seduta a lungo, con il telefono spento tra le dita. E capì che quella “relazione” assomigliava più a una gabbia che a una casa.

Il giorno dopo tornò al lago e pianse senza vergogna. Serëga la trovò lì, in silenzio, e si sedette accanto a lei senza fare domande inutili.

— Ho paura di sbagliare, — disse Katia, spezzata. — E se scelgo la persona sbagliata?

Lui guardò l’acqua, poi lei.

— Gli errori succedono. — La sua voce era semplice. — Ma se accanto a qualcuno puoi respirare e restare te stessa… allora non è la persona sbagliata. Il resto è solo rumore.

Katia lo guardò e, in quel momento, capì che la scelta era già dentro di lei. Doveva solo avere il coraggio di ascoltarla.

Una settimana dopo scrisse a Igor un messaggio breve, definitivo: Non cercarmi. Resto a casa.
Non arrivò nessuna risposta. Nessuna scusa. Nessun addio. E quella assenza, invece di ferirla, le tolse un peso.

Serëga diventò il suo compagno un passo alla volta: senza frasi teatrali, senza promesse da film. Insieme raccoglievano funghi, pescavano, aiutavano i vicini. La madre osservava tutto con una felicità discreta, come chi vede finalmente una figlia tornare intera.

Una sera di tramonto, davanti al cancelletto, Serëga si schiarì la gola, impacciato.

— Io non so parlare bene… — disse. — Ma posso lavorare, posso esserci. Posso fare di tutto per renderti felice.

Katia sentì una calma nuova attraversarle il petto.

— Io resto qui, — sussurrò. — Davvero.

Il villaggio, con i suoi rumori vivi — un cane che abbaiava, una mucca che muggiva, i bambini che ridevano — sembrò approvare, come se anche lui sapesse che quella era la sua strada.

Il loro matrimonio fu una festa semplice e piena: tavoli lunghi, piatti preparati dalle vicine, risate sincere, una fisarmonica che faceva ballare anche chi diceva di non saper ballare. Katia indossava un abito bianco cucito dalla madre, Serëga un vestito nuovo che gli stava un po’ rigido addosso, come tutte le cose belle a cui non si è ancora abituati.

Tra auguri, lacrime e brindisi, Katia pensò: Sono nel mio posto.

Dopo le nozze arrivò la vita vera: la fatica quotidiana, le preoccupazioni, le giornate lunghe. Katia imparò a tenere in piedi una casa, Serëga a non fuggire dai momenti difficili. E quando c’era un problema, lo affrontavano insieme, senza far finta che non esistesse.

Due anni dopo nacque un bambino, e il mondo di Katia cambiò centro: tutto girava attorno a quel respiro piccolo e potente.

E quando, più avanti, Serëga si ammalò sul serio, Katia non si mosse di un passo. Lo curò, lo incoraggiò, gli tenne la mano anche quando la paura le mordeva lo stomaco. E lui, lentamente, tornò in piedi. Quella guarigione non fu un miracolo: fu la prova che l’amore, quando è vero, non ti chiede di cambiare pelle. Ti chiede solo di restare.

Col tempo la famiglia divenne più forte. Il figlio crebbe e aiutava il padre, Katia ogni tanto tornava in città per qualche commissione e, ogni volta, appena vedeva i campi e le case basse del villaggio, sentiva il sollievo scenderle addosso come una coperta.

Una sera, riuniti attorno allo stesso tavolo, tra pane caldo e tè profumato, Katia capì finalmente che tra tutte le strade possibili aveva scelto quella che non la spezzava.

Aveva scelto la casa.
E, insieme alla casa, la felicità.

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