Quando è nata nostra figlia, io e Victor ci sentivamo invincibili. Eravamo una squadra, la vita sembrava andare nella direzione giusta e la casa traboccava di sogni e piani per il futuro. Io avevo lasciato il lavoro appena vista la seconda linea sul test di gravidanza: volevo dedicare ogni briciolo di energia a diventare madre e a tenere insieme la nostra piccola famiglia. Victor non aveva fatto una piega, anzi: «Vedrai, a lungo andare sarà la scelta migliore per la bambina», ripeteva sicuro.
La gravidanza era filata liscia. Io stavo bene, mi sembrava di avere benzina infinita: andavo al mercato due volte a settimana, preparavo pranzi e cene quasi da ristorante, non c’era un batuffolo di polvere in giro. La fase di “nidificazione” mi aveva colpita in pieno: cassetti etichettati, body divisi per taglia e colore, elenco delle cose da comprare organizzato per priorità. Una sera, rientrando, Victor si fermò sulla soglia del salotto, lucido come una vetrina, e mi baciò sulla guancia: «La casa non è mai stata così perfetta. Grazie per tutto quello che fai per noi.» Quelle parole mi scaldarono il petto. Non era facile, ma sentirmi riconosciuta rendeva la fatica sopportabile.
Poi, a 39 settimane, è arrivata Lily e il mio universo si è ristretto fino a occupare lo spazio del suo corpicino tra le mie braccia. Credevo di sapere cosa fosse l’amore, in realtà ne avevo solo intravisto il contorno. All’improvviso tutto si è spostato su di me: poppate, notti in bianco, pannolini, coliche, ruttini. Il resto – casa, cucina, ordine – è passato in secondo piano. Il bucato ha cominciato ad accumularsi, in tavola comparivano gli stessi piatti per due o tre giorni di fila, e quella casa da catalogo è diventata una casa vera: vissuta, sparsa di tutine e biberon.
Victor si accorgeva di ogni cambiamento.
Una sera, mentre scaldava gli avanzi al microonde, arricciò il naso: «Perché la casa è ridotta così? E mangiamo le stesse cose da tre giorni». Cercai di sistemare Lily sul braccio in modo che non si svegliasse. «Non riesco a cucinare ogni giorno da zero. Ha le coliche, vuole stare solo in braccio. Se la metto nella culla, urla finché non la riprendo. A volte non ho nemmeno il tempo di farmi una doccia.»
Victor sospirò, infastidito: «Può stare un po’ nella culla, non le succede niente. In quel tempo potresti dare una sistemata. Non è che ci voglia chissà quanto.»
Sentii la pazienza spezzarsi come un elastico tirato troppo. «Perché non provi tu?» sbottai, con la voce impastata dalla stanchezza. «Tu lo sai cosa significa allattare ogni due ore, dormire a pezzi e poi continuare come se nulla fosse? Lo sai che vuol dire posarla piano e sentirla scoppiare a piangere appena le togli il contatto?»
Lui si irrigidì. «Io sono fuori tutto il giorno a lavorare. Torno a casa e trovo confusione e avanzi in frigo. È normale che mi dia fastidio. Smettila di usare la bambina come scusa e ammetti che sei… pigra.»
Quella parola mi colpì in pieno stomaco. Abbassai lo sguardo, non volevo che mi vedesse piangere. «Mi hai ferita», sussurrai soltanto, poi mi chiusi in camera con Lily addormentata sul petto.
Sì, Victor manteneva economicamente la famiglia, ma non aveva la minima idea di come fosse davvero una mia giornata: notti tagliate in blocchi da quaranta minuti, chilometri percorsi avanti e indietro in salotto con una neonata urlante, ore intere senza scambiare una parola con un adulto, con la testa che ronzava come dopo un turno di notte infinito.
Capì che spiegarlo non sarebbe bastato. Non era una questione di discorsi: doveva viverlo sulla propria pelle.
L’occasione arrivò un sabato pomeriggio. Lily si era addormentata sul suo petto, le mani aggrappate alla sua camicia. Io le baciai la fronte, poi scesi in cucina. Sul bancone lasciai un biglietto:
«Torno tra una settimana. Sono in vacanza. Il latte per Lily è in frigo.»
Spensi il telefono, presi la borsa che avevo preparato di nascosto nei giorni precedenti e uscii di casa. All’ultimo momento decisi per il mare: sabbia sotto i piedi, sonni lunghi che avevo dimenticato esistessero, libri letti a bordo piscina, pasti cucinati da altri. Nessun senso di colpa. Solo un enorme, disperato bisogno di respirare.
Posso solo immaginare lo shock di Victor quando si è svegliato e ha trovato il mio biglietto. Più tardi mi ha confessato che all’inizio era furioso, ma non aveva alternative: doveva occuparsi lui di Lily. Niente babysitter all’ultimo minuto, una tata era fuori budget. La prima notte lo ha quasi distrutto: pannolini da cambiare, biberon preparati al buio, ruttini, pigiami da sostituire, lavatrici messe su a orari insensati.
A metà della seconda notte, sfinito, ha gridato nel vuoto: «Ho capito! Torna, ti prego!»
Io non sono tornata. Non ancora.
Avevamo montato i baby monitor prima del parto, collegati a un’app sul tablet. Anche a chilometri di distanza potevo dare un’occhiata. La telecamera non aveva pietà: lavandino pieno di piatti, sacchetti del take-away abbandonati in giro, briciole sul tavolo. Victor non cucinava quasi mai. Alcune notti Lily piangeva a lungo e lo vedevo dall’app camminare per la stanza, dondolandola, sempre più lento. A metà settimana era uno zombie. Chiamò sua madre con la voce rotta: «Mamma, aiutami. Jamie se n’è andata, ha lasciato solo un biglietto. Non dormo da giorni. Non ce la faccio più.»
Dal monitor arrivò secca la voce di mia suocera: «Irresponsabile. Una moglie non abbandona mai marito e figlia. Il suo dovere è occuparsi di casa e bambini. Se non è in grado, non doveva sposarsi.»
Mi venne da ridere, amaramente. La stessa donna che, quando Victor era piccolo, aveva due ragazze alla pari a rotazione. Le notti in bianco, per lei, erano state solo una teoria.
Victor tirò avanti fino al weekend come poté. Arrivava al lavoro con la faccia di chi ha attraversato una guerra: occhiaie profonde, cravatta storta, camicia spiegazzata. Un giorno si diede malato solo per poter dormire tre ore di fila. Eppure Lily era sempre pulita, sfamata, stretta tra le sue braccia. Si vedeva che stava facendo del suo meglio, e in quel “meglio” stava finalmente toccando con mano cosa significasse quel lavoro invisibile che aveva liquidato come pigrizia.
Quando tornai, mi preparai a una lite furibonda. Invece mi venne incontro e mi strinse forte, il cuore che batteva all’impazzata contro il mio. «Mi dispiace, Jamie», disse con la voce roca. «Non avevo capito. Non so cosa mi passasse per la testa. Mi sbagliavo. Tu tieni insieme un intero universo ogni giorno e io facevo finta che fosse niente. Mi perdoni?»
Nei suoi occhi c’era una lucidità nuova, partorita dalla stanchezza. «Ti prometto che d’ora in poi sarò un compagno vero. Più presente, più partecipe. Tu e Lily meritate questo e molto di più.»
Volevo credergli. In parte, ci credevo. Ma nella testa mi rimbalzavano ancora le parole di sua madre: «È dovere della moglie». Dovere di chi, esattamente? Di una sola persona? O non è forse vero che la genitorialità e il matrimonio esistono solo se sono un’alleanza, una somma di mani che reggono lo stesso peso?
La risposta la conoscevo già. Fare il genitore non è un mestiere solitario. Non è “una cosa da donne” né “un compito da uomini”. È un patto. Le notti spezzate, i biberon alle tre, le urla e le ninne nanne: si condividono.
E, anche se Victor alla fine ha capito, continuo a chiedermi quante donne là fuori stiano ancora sorreggendo tutto in silenzio, con l’etichetta di “pigre” cucita addosso da chi non vede ciò che non si misura in stipendi né in orari.
Perché nella genitorialità la pigrizia non esiste. Esiste solo un lavoro immenso che resta invisibile – finché non tocca a te farlo.
