A diciassette anni, scoprire di essere incinta le sembrò già abbastanza per mandare in frantumi il mondo. Non immaginava che, a completare l’opera, ci avrebbero pensato proprio coloro che chiamava “mamma” e “papà”.
«Fuori da questa casa.»
La voce di Lorna fendé l’aria come una frustata.
Sophie arretrò di un passo, le lacrime che le rigavano il viso bruciavano come sale sulla pelle.
«Sei una peccatrice. Una vergogna!» continuò la donna, stringendole le labbra in una linea dura. «Non permetterò che tu stia sotto lo stesso tetto dei tuoi fratelli e sorelle. Non contaminerai i miei figli con il tuo esempio.»
Sophie, tremante, cercò con lo sguardo Harold, il padre adottivo. Nei suoi occhi c’era una supplica muta: Per favore. Fermala. Difendimi almeno una volta.
Ma lui rimase immobile, seduto al tavolo, lo sguardo fisso a un punto indefinito sul pavimento. Le spalle incurvate, l’aria sconfitta di chi ha deciso da tempo di non opporsi più a niente.
Lorna afferrò Sophie per un braccio e la trascinò verso l’ingresso. «I peccati passano di madre in figlia,» sputò. «Avrei dovuto capirlo che avresti seguito le orme di quella donna che ti ha messo al mondo. Senza morale, senza pudore.»
Ogni parola era un colpo inferto a sangue freddo.
La porta si chiuse con uno schianto alle spalle di Sophie. Lei rimase sul marciapiede con il cuore in gola, il respiro corto, le dita che tremavano mentre stringevano l’orlo della maglietta. In pochi minuti aveva perso tutto ciò che conosceva come casa.
Dopo qualche istante, la porta si riaprì piano. Sulla soglia apparve Harold, con uno zaino logoro in mano.
«Tua sorella ci ha messo dentro un po’ di cose,» mormorò senza riuscire a sostenerne lo sguardo. Frugò poi nella tasca dei pantaloni ed estrasse un piccolo rotolo di banconote. «È il massimo che ho potuto prendere senza che Lorna se ne accorgesse. Mi dispiace, Sophie. Sai com’è tua madre…»
«Non è mia madre,» lo interruppe lei, sollevando il mento. «E tu non sei mio padre. Mi avevate promesso amore incondizionato. È quello che fanno i genitori veri.»
Harold arrossì leggermente, annuì appena e, incapace di ribattere, rientrò in casa richiudendo la porta, questa volta piano.
Sophie strinse lo zaino al petto. Era entrata in quella famiglia da bambina, convinta di aver trovato finalmente un porto sicuro. I Jordan le erano sembrati severi ma corretti; solo crescendo aveva capito che non si trattava di rigore, ma di fanatismo.
Niente feste di compleanno, perché “idolatria di sé”. Niente Natale, “tradizione pagana travestita da religione”. La vita era scandita solo da scuola, lavori in casa e lunghe funzioni in chiesa la domenica. Vietati cinema, feste, uscite con le amiche. Anche un filo di rossetto era motivo di discussione.
Da adolescente, quella gabbia si era fatta stretta. Il desiderio di una vita “normale” le bruciava dentro: ridere al cinema con le compagne, mettersi un vestito carino, sentire la mano di un ragazzo intrecciata alla sua. Piccoli sogni che nella sua casa erano considerati peccati.
Fu proprio quella sete di libertà a farle abbassare la guardia: il primo ragazzo che le sembrò gentile, un sorriso dolce e qualche parola carina, si rivelò un tipo irresponsabile, con una lunga scia di problemi alle spalle. In pochi mesi, il test di gravidanza segnò un “positivo” netto e senza appello.
A Lorna era bastato quello per cancellare anni di “morale insegnata”: fuori di casa, e subito.
Sophie si sedette sul muretto davanti al vialetto, cercando di rallentare il battito impazzito del cuore. Aprì lo zaino: due magliette, un paio di jeans, uno spazzolino da denti. Contò il denaro: 56 dollari e qualche moneta. Non abbastanza neppure per una stanza di motel per una settimana.
«Niente miracoli oggi, vero?» sussurrò con un sorriso amaro. «Nessun angelo custode in servizio.»
Le si strinse il petto. Da piccola aveva creduto davvero che là fuori ci fosse qualcuno che vegliava su di lei. Ogni anno, nel giorno del suo compleanno, misteriosi regalini comparivano nel suo armadietto a scuola. A Natale — che in casa Jordan era tabù — trovava bastoncini di zucchero appesi all’albero nel giardino pubblico o una calza piena di dolci nascosta dietro il garage.
Non aveva mai scoperto chi fosse quell’“angelo invisibile”, ma quelle attenzioni l’avevano aiutata a credere che, da qualche parte, qualcuno tenesse a lei.
Adesso, però, si sentiva completamente sola.
Si issò in piedi e cominciò a camminare senza una vera meta, finendo per raggiungere il parco mentre il cielo si colorava di arancio. Il rumore distante del traffico, le voci dei bambini che giocavano alle altalene, l’odore di erba e foglie bagnate: tutto sembrava lontanissimo, come se non le appartenesse più.
Si lasciò cadere su una panchina, stringendosi le braccia intorno al corpo per scacciare il freddo.
«Ehi, ragazza,» disse una voce calda alle sue spalle. «Cos’hai negli occhi di così pesante da sembrarti il mondo addosso? Forse Mama Rosa può fare qualcosa.»
Sophie si voltò. Davanti a lei, una donna alta, con un grembiule a fiori macchiato di terra e polline, un mazzo di rose in una mano e delle cesoie nell’altra. Capelli castani raccolti alla meglio, occhi attenti e un sorriso dolce, ma fermo.
«Sto… bene,» farfugliò Sophie, asciugandosi le guance con il dorso della mano.
«No, cara, non stai bene per niente,» rispose la donna sedendosi accanto a lei senza invadenza. «Se vuoi, raccontami. Non sono qui per giudicare.»
Quel tono morbido, privo di condanna, scardinò lentamente la diga che Sophie cercava di tenere alzata. Le parole uscirono a fiotti: la gravidanza, l’esplosione di Lorna, la porta chiusa in faccia, il panico di non avere un posto dove andare.
Rosa ascoltò in silenzio, annuendo ogni tanto.
Quando Sophie ebbe finito, la donna inspirò profondamente, come se avesse già preso una decisione.
«Bene. Io posso offrirti una cosa,» disse. «Un lavoro. E un piccolo appartamento. In cambio, tu ti prenderai cura del tuo bambino. Non posso fare la madre al posto tuo, ma posso darti l’occasione di farcela.»
Sophie la guardò incredula. «Un lavoro? Per davvero?»
«Certo,» rispose Rosa con semplicità. «Ho un chiosco di fiori da questa parte del parco e voglio aprirne un altro vicino al centro commerciale. Mi serve qualcuno di affidabile. Ti insegnerò a occuparti dei clienti, a preparare i bouquet, a tenere in ordine. Se ti impegni, ce la fai.»
Gli occhi di Sophie si riempirono di lacrime nuove, diverse, più leggere. «Ho sempre amato i fiori,» confessò sottovoce.
«Allora è destino,» sorrise Rosa alzandosi. «Vieni, ti faccio vedere l’appartamento.»
Era piccolo, ma profumava di pulito: un lettino singolo con lenzuola fresche, una cucinetta con qualche stoviglia ordinata sugli scaffali, un bagno in fondo al corridoio e una finestra da cui si vedevano le luci della città accendersi una dopo l’altra.
Per chiunque altro sarebbe stato un bilocale modesto. Per Sophie, era un castello.
Nei mesi successivi si buttò a capofitto nel lavoro al nuovo chiosco. Imparò alla svelta il nome dei fiori, le combinazioni di colori, le frasi da scrivere sui biglietti. I clienti tornavano chiedendo “la solita ragazza dagli occhi grandi” che sapeva sempre quale mazzo consigliare.
Rosa non lesinava complimenti quando parlava di lei.
L’accompagnò anche dal medico, quando Sophie raccolse il coraggio per il primo controllo serio. Il dottore le confermò che sia lei che il bambino stavano bene. Per la prima volta dopo tanto tempo, Sophie riuscì a tirare un respiro completo.
Cinque mesi dopo, con il supporto di Rosa, arrivò Daniel. Minuscole dita, un faccino serio, un vagito che le parve la più bella musica del mondo.
Rosa le diede alcuni mesi per adattarsi: «Prendi il tempo che ti serve per trovare il tuo ritmo,» le disse. Ma la maternità fu più dura di quanto Sophie avesse immaginato.
Notti spezzate da pianti continui, poppate ad orari impossibili, pannolini da cambiare a ripetizione. Il corpo dolorante, le occhiaie scavate, la testa annebbiata dalla stanchezza.
Una mattina, la luce filtrava tra le tende sottili e la casa era avvolta da un silenzio innaturale. Sophie spalancò gli occhi di colpo, colpita da un’ondata di panico.
Ho dormito tutta la notte?
«Daniel?» chiamò, la voce incrinata, correndo verso la cameretta.
Il bambino era nella culla, tranquillo, le manine raccolte sotto il mento, il respiro regolare. Il pannolino era asciutto, il biberon preparato a mezzanotte stava nel lavandino, sciacquato.
«È impossibile…» mormorò. «Non mi ricordo di essermi alzata.»
La stessa cosa successe la notte seguente. E quella dopo ancora. Ogni volta, Sophie crollava nel sonno esausta e, ogni volta, findava Daniel la mattina pulito e sazio.
Sto camminando nel sonno? cominciò a chiedersi. L’idea la inquietava.
Decise allora di restare sveglia. Si mise a letto ma non chiuse occhio, ascoltando il ticchettio dell’orologio e il rumore delle auto in lontananza. Verso le tre del mattino, un piagnucolio leggero ruppe il silenzio.
Sophie scivolò giù dal letto e si fermò sulla soglia della cameretta.
Una figura femminile, in penombra, era china sulla culla. Si muoveva con naturalezza, cambiando il pannolino a Daniel, parlandogli sottovoce con una dolcezza che riempiva la stanza. Le mani erano sicure, i gesti rapidi ma delicati.
Il sangue di Sophie gelò. Allungò la mano verso l’interruttore e accese la luce.
«Chi sei?! Allontànati da mio figlio!» gridò, il cuore in gola.
La donna si voltò di scatto. Aveva il viso pallido, segnato dalle rughe, ma lo sguardo luminoso. Stringeva Daniel al petto, cullandolo come se fosse il gesto più naturale del mondo.
«Ciao, Sophie,» disse piano. «Mi chiamo Margaret Lawson… e sono tua madre.»
Le gambe di Sophie cedettero. Si appoggiò allo stipite della porta per non scivolare a terra.
La donna continuò a parlare con voce bassa, tesa d’emozione. «Anch’io sono rimasta incinta da ragazzina. Ne avevo sedici. Mia madre pretendeva che abortissi. Io non ci sono riuscita. Mi ha cacciata via, senza un soldo e senza un posto dove andare. Quando ti ho messo al mondo… non potevo darti nulla. E allora mi hanno costretta a rinunciare a te.»
Deglutì a fatica. «È stata la ferita più grande della mia vita. Ma non ti ho mai dimenticata. Non ho mai smesso di cercarti.»
Sophie sentì un nodo in gola. «E… i regalini?» chiese a fatica. «I bastoncini di zucchero, le calze con le caramelle… erano…»
«Miei,» confermò Margaret, con un sorriso malinconico. «Ti ho sempre guardata da lontano. Non potevo avvicinarmi, ma volevo che, almeno una volta all’anno, sentissi che qualcuno pensava a te e ti voleva bene. Non sono stata un angelo custode perfetto… ma ho fatto quello che potevo.»
Gli occhi di Sophie si riempirono di lacrime. «E adesso? Rosa? Il lavoro? L’appartamento…?»
«Rosa lavora con me,» spiegò Margaret. «Possiedo una catena di negozi di fiori. Più di trenta punti vendita. Quando ho scoperto che i Jordan ti avevano buttata fuori, non riuscivo a restare a guardare. Ho pregato Rosa di avvicinarti, di offrirti un impiego e un posto dove stare. Questo appartamento era di mia madre. Adesso è tuo tanto quanto mio.»
Sophie la fissò, scossa. «Perché non sei venuta da me prima? Perché non mi hai detto chi eri?»
Margaret abbassò lo sguardo sul bambino che teneva tra le braccia. «Avevo paura che mi odiassi per averti lasciata andare. Volevo solo assicurarmi che tu e Daniel steste bene. E, nelle ultime notti… volevo che tu potessi dormire qualche ora di fila. Sapevo cosa significa essere una madre sola senza nessuno che ti aiuti.»
Sophie fece un passo avanti. Il viso le tremava, ma negli occhi c’era una luce nuova.
«Non potrei mai odiarti,» sussurrò. «Se non fosse stato per te e per Rosa, chissà… forse anch’io avrei dovuto rinunciare a Daniel. Tu mi hai dato una casa. Due volte.»
Lasciò che le lacrime scorressero, e le gettò le braccia al collo. Margaret la strinse forte, con una tenerezza trattenuta per anni.
Da quel momento, non si lasciarono più.
Margaret aprì a Sophie le porte della sua casa più grande, la introdusse al resto della famiglia che nel tempo si era costruita, le insegnò come mandare avanti un’attività e come difendere il proprio cuore senza indurirlo.
Sophie, per la prima volta, conobbe cosa significasse davvero un amore senza condizioni.
L’“angelo custode” in cui aveva creduto da bambina non era mai stato una fantasia: era sempre stato lì, in carne e ossa, nascosto tra le corsie dei negozi di fiori, dietro gli alberi del giardino della scuola, a pochi passi dalla vita che aspettava solo il momento giusto per ricominciare.
