«Lo lascia solo con cinque figli e sparisce. Dieci anni dopo ricompare… e resta senza parole davanti a ciò che lui è riuscito a costruire senza di lei.»

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Sua moglie lo aveva lasciato solo con cinque figli. Una decina d’anni dopo ricomparse all’improvviso — e quello che trovò la lasciò senza parole.

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La mattina in cui Laura se ne andò, in casa aleggiavano ancora l’odore di pane tostato bruciacchiato e di succo d’arancia appiccicato sul tavolo. I bambini discutevano animatamente su chi avesse il pezzo di pancake più grande. Io, con la testa immersa nei pranzi da preparare e nello zaino da sistemare, nemmeno vidi subito la valigia appoggiata accanto alla porta. Nessun addio. Solo un foglio lasciato di traverso sul bancone.

«Non ce la faccio più. Devo ricominciare a vivere per me. Ti prego, capiscimi.»

Non capii. Non quella mattina, quando mi ritrovai con un bimbo di due anni appeso a un fianco, una padella nell’altra mano e una lite da sedare per una manciata di pastelli colorati. Non negli anni seguenti, quando restavo in giardino, a notte fonda, a fissare il cielo buio chiedendomi se da qualche parte, in quel momento, lei pensasse ancora a noi.

Poi, il vuoto. Il silenzio totale.

I primi anni furono una scalata senza tregua. Di giorno spaccavo la schiena in cantiere, di notte servivo ai tavoli al bar. Il sonno diventò un lusso per pochi. I miei cinque, però, furono la mia zattera. Imparai a intrecciare trecce decenti, a rammendare ginocchia di jeans consumate, a tirare avanti con tre ore di sonno senza saltare una recita scolastica o una partita, per quanto fossi distrutto.

Vivevamo stretti in un bilocale. I grandi rinunciarono al loro spazio per lasciare un angolo ai più piccoli. Imparammo a fare i conti con poco: niente sprechi, niente capricci. Insegnai loro a preparare piatti semplici, ad aggiustare i giochi invece di buttarli, e soprattutto a non lasciarsi mai indietro l’un l’altro.

Al quinto anno la pendenza iniziò ad addolcirsi. Misi in piedi un piccolo servizio di giardinaggio con un tosaerba rattoppato e un pick-up che sembrava pronto a cedere da un momento all’altro. Dopo la scuola, i ragazzi venivano con me: tagliavano prati, piantavano fiori, rastrellavano foglie. Ai clienti piaceva vedere quella piccola “squadra di famiglia” all’opera, e il passaparola fece il resto.

Riuscimmo a trasferirci in una casetta modesta ma calda, con un giardino vero. Non era grande, ma era nostra. Nell’angolo piantammo un orto: pomodori, girasoli, fragole che i bambini correvano a controllare ogni mattina. Il sabato scavare nella terra, sporcarci le mani e ridere era diventato il nostro rito sacro.

I bambini crescevano, e con loro tutto il resto. Emma, la più grande, prese in mano le cose con una naturalezza disarmante, paziente come un’adulta. Max, il mediano taciturno, scoprì di avere un talento per i colori e i pennelli. Le gemelle, Lily e Rose, erano una cospirazione permanente: sguardi d’intesa, risatine e piani segreti. Il piccolo Sam — quello che avevo in braccio il giorno in cui lei se n’era andata — si rivelò una macchina di domande, curioso fino allo sfinimento.

Il frigorifero era diventato la nostra galleria d’arte: pagelle, disegni, biglietti delle partite, foto storte. Ogni piccolo risultato era una vittoria di tutti. Senza di lei, avevamo costruito qualcosa di vero. Qualcosa di solido.

Fu allora, quando la tempesta sembrava alle spalle, che tornò.

Quella domenica avevamo organizzato una giornata di trekking da settimane. Zaini pronti, panini avvolti nella carta, succhi infilati nelle tasche laterali. Il sole filtrava tra le fronde e accendeva di riflessi dorati il tappeto d’erba. Stavo sistemando le cinghie dello zainetto di Sam, piegato all’altezza delle sue spalle, quando la vidi.

Laura.

Se ne stava sul bordo del sentiero, immobile. Sembrava quasi la stessa di allora, solo con qualche ruga più marcata intorno agli occhi. Stringeva una borsa contro il petto come fosse uno scudo.

I ragazzi la notarono nello stesso istante. Il volto di Emma si irrigidì. Le gemelle si scambiarono un’occhiata carica di qualcosa che non era né gioia né sorpresa. Sam non la riconobbe nemmeno.

«Ciao», mormorò lei, facendo un passo verso di noi. Lo sguardo correva da un figlio all’altro. «Sono venuta a vedervi.»

Sentivo il cuore battermi forte, ma non era nostalgia: era allerta. Erano passati dieci anni. Noi eravamo caduti e ci eravamo rialzati. Ora lei era lì, come un fantasma di un’altra vita.

«Che cosa vuoi, Laura?» domandai.

Mandò giù a fatica. «Volevo vedere i bambini… e te. Non sapevo se…» La frase si spense mentre osservava la scena davanti a sé: cinque figli dritti, sani, sicuri di sé.

Capì in quell’istante che si era immaginata rovina, caos, amarezza a pezzi. Invece aveva davanti una famiglia che si era rimessa in piedi. Più forte, più unita. Ma non immaginava che, altrove, un’altra storia stava prendendo una piega molto diversa.

Il corridoio della scuola piombò nel silenzio. Gli armadietti alle pareti riflettevano luci fredde, e tutti fissavano Ryan mentre si piazzava tra me e la banda di bulli, mascella serrata, pugni chiusi lungo i fianchi.

«Lascialo stare», disse, senza alzare la voce. E proprio per questo suonò ancora più serio.

Il capobranco, Mason, abbozzò un sorriso storto. «Se no che fai, gli fai da mammina, matricola?»

Negli occhi di Ryan passò un lampo, qualcosa di duro e glaciale. Fece mezzo passo avanti. «Prova», sussurrò.

Non avevo mai visto Mason tentennare. Eppure, per un attimo, esitare fu esattamente ciò che fece. I suoi amici si scambiarono uno sguardo nervoso, borbottarono qualcosa e, uno dopo l’altro, si allontanarono.

Quando sparirono dietro l’angolo, Ryan si voltò verso di me. «Tutto a posto?» Annuii, ancora con le gambe molli. «Perché… perché l’hai fatto?»

Scrollò le spalle come se fosse niente. «Perché so com’è.»

Era la prima volta, dopo anni, che qualcuno si metteva fisicamente tra me e chi mi voleva umiliare. Da quel giorno il copione cambiò. Ryan iniziò a camminare accanto a me tra una lezione e l’altra, a sedersi al mio tavolo in mensa, ad aspettarmi all’uscita per tornare insieme.

I bulli non sparirono di colpo, ma d’improvviso sembravano più cauti. Stare vicino a Ryan era come avere accanto uno scudo che non pensavo di meritare.

Eppure, qualcosa in lui non tornava. Era troppo chiuso, troppo attento. Nessun ricordo della “vecchia scuola”, nessuna chiacchierata sulla famiglia. Un pomeriggio, dopo ginnastica, trovai il coraggio di chiedere: «Come mai ti sei trasferito qui?»

Per un istante si irrigidì. «È… complicato», rispose, troncando lì il discorso.

Lasciai cadere il tema, ma quella notte mi arrivò un messaggio da un numero sconosciuto:
«Stai lontano da Ryan.»

Mi si gelò lo stomaco. Il giorno dopo provai ad accennarglielo, ma lui rifece la solita spallata: «Scherzi idioti.»

I messaggi però continuarono.
«Non è chi credi.»
«Te ne pentirai.»

Cominciai a vedere altro. Una volta lo sorpresi a fissare Mason, ma non con semplice rabbia: era uno sguardo calcolatore, come se stesse facendo conti mentali. Un’altra volta rispose d’istinto a un nome diverso, non “Ryan”, quando un professore sbagliò a chiamarlo durante l’appello.

I pezzi non combaciavano. Finché, una sera, tutto crollò.

Era venerdì. Ryan insistette per prendere un giro più lungo sulla strada del ritorno. «È più tranquillo», disse. A metà di una via quasi deserta, una berlina nera si affiancò a noi rallentando. Due uomini scesero dall’auto.

«Ryan», disse il più grande con voce bassa e controllata. «È ora.»

Rimasi piantato sul posto. Lui, invece, non sembrava spaventato. Era furioso.

«Pensate davvero che io torni con voi?» ringhiò.

Il secondo fece un passo verso di noi. Prima che potessi reagire, Ryan mi spinse dietro un muretto. «Corri», sibilò.

Non corsi. Rimasi raggomitolato a guardare oltre il bordo del muro. Si muoveva con una precisione che non avevo mai visto: rapido, deciso, pericoloso. Nel giro di pochissimi secondi i due uomini erano a terra, ansimanti, piegati dal dolore.

Mi afferrò per il braccio. «Andiamo. Adesso.»

Corremmo finché i polmoni bruciarono. «Che sta succedendo?!» esplosi, quando finalmente ci fermammo.

Ryan mi guardò e, per la prima volta, lasciò cadere la maschera. «Il mio vero nome non è Ryan. Vengo da un ambiente… marcio. I miei — chiamarli genitori è un complimento — lavorano con gente di cui è meglio non pronunciare neanche il nome. Ho visto troppo. Sono scappato. Ho cambiato nome. Ho cercato di sparire.»

«E loro chi erano?» balbettai.

«Lavorano per la mia famiglia.»

Ci voltammo nello stesso istante. Mason era appoggiato a un lampione, mezzo nell’ombra, il telefono stretto in mano.

«Interessante», ghignò. «Sapevo che c’era qualcosa di strano in te, “Ryan”. Indovina chi si farà un bel gruzzoletto con una telefonata?»

La mascella di Ryan si tese. «Non hai idea di cosa stai facendo…»

Ma Mason non stava ad ascoltare. Schiacciò un tasto e mise la chiamata in viva voce. «Sì, l’ho trovato. E c’è anche l’altro con lui.»

Fu in quel momento che capii: non stava consegnando solo lui. Stava vendendo anche me.

Dall’altoparlante arrivò una voce fredda, distaccata:
«Portateceli entrambi.»

Un rumore di passi alle nostre spalle fece vibrare l’aria.

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