«Mia nonna ha assunto un ex detenuto pieno di tatuaggi per trasformare la casa in una fortezza e tenere lontani i parenti dalle mani troppo lunghe.»

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«Zia, tesoro, come va?»
La voce di Evgenij colò nella cornetta come sciroppo dimenticato al sole: densa, appiccicosa, insopportabilmente dolce. Ogni parola sembrava studiata, ogni intonazione provata allo specchio. Recitava la parte del parente premuroso, ma sotto quella patina di miele c’era solo una cosa: appetito. Freddo, calcolatore, paziente.

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Seduta sulla poltrona vicino alla finestra, mentre le tende impolverate si gonfiavano pigre alla brezza, Elizaveta Semënovna socchiuse gli occhi. Sul volto le apparve un mezzo sorriso storto, quasi feroce: l’espressione di chi vede la preda avanzare su un lago ghiacciato già crepato.
«Alla grande, Zhenëčka, alla grande», trillò con tono da vecchina consumata, stirando le parole. Nella voce infilò un filo di tremito e un’ombra di affanno, come se ogni respiro le costasse. «I dottori dicono che potrei vivere altri vent’anni. Quindi non ti agitare per le spese del funerale. E, caro, non affrettare le cose: la morte preferisce chi la manda avanti negli altri.»

Dall’altro capo, silenzio assoluto. Non semplice quiete, ma un vuoto gelido, cavernoso. Elizaveta quasi immaginò il telefono che scricchiolava nella stretta di Evgenij, la rabbia impotente che gli montava in faccia, la frase viscida che cercava di inventarsi. Non gli concesse il tempo. Riagganciò di netto, come una porta spalancata sbattuta sul muso a un avvoltoio.

Aveva settantotto anni, quasi ottanta. Non si sentiva vecchia: si sentiva reduce. Reduce da guerre combattute da sola, da scelte prese senza testimoni, quando nessuno ci avrebbe scommesso un rublo su di lei. Aveva camminato per anni su un filo che si era tesa da sola: mano d’acciaio, mente lucida, volontà inflessibile.
Così aveva costruito il suo piccolo impero: da una bottega di provincia a una catena di negozi eleganti, appartamenti in centro e un conto all’estero di cui nessuno sapeva. Il prezzo era stato alto. Il marito l’aveva piantata a quarant’anni, logorato dal ritmo, dalla tensione e dalla sua rigidità: «Non sei una donna, sei una macchina», le aveva sputato addosso scegliendo una che gli cucinava il borshch e non gli chiedeva di scalare il mondo. Figli non ne erano arrivati: destino o scelta, ormai era irrilevante. Le vecchie amiche si erano disperse come foglie al vento; la “buona Liza” era diventata “madame Semënovna”. La dicevano glaciale. Nessuno aveva visto le lacrime soffocate nel cuscino.

La villa in cui viveva ora era enorme e vuota; ogni passo produceva un’eco lunga, e dentro quel rimbombo lei riconosceva il proprio vuoto. Con lei, solo la governante Marina… e parenti-ombra che arrivavano con torte stantie e sorrisi che non sfioravano neppure gli occhi.

Due anni prima aveva perfino provato a fare la “nonna normale”: si era seduta in carrozzina al parco, tra le vecchiette che parlavano di pensioni, figli distratti, nipoti irriconoscenti. Le erano bastati pochi pomeriggi per bucare la messinscena.
«Tu, Petrovna, ti lamenti di tuo figlio? Io ricordo benissimo quando lo hai spedito in collegio per andare in vacanza con l’amante. E tu, Fëdorovna, non eri quella che si vantava di aver buttato fuori la nuora?»
Le chiacchiere erano diventate sibili velenosi. Elizaveta aveva fatto voltare la sedia ed era scivolata via: il suo posto non era fra tazze di tè tiepido e taralli smosci. Il suo mondo era la gabbia dorata che si era costruita da sola, dove aveva imparato a volare e, insieme, disimparato a cantare.

Ora sulla scena c’erano Evgenij e sua moglie Svetlana: zucchero filato al cioccolato, sorriso nauseante. Venivano spesso, lasciando dietro di sé scie di profumo economico e frasi dolciastre. Non si limitavano ad aspettare la sua morte: la pregustavano. Si vedevano già con il testamento in pugno, pronti a spartirsi case, conti, gioielli. Elizaveta notava come lo sguardo di Svetlana restasse sempre qualche secondo di troppo sulle pillole, sui blister, sulle ore a cui lei le assumeva.

Dopo l’ennesima visita, con l’aria ancora impregnata di quella dolcezza finta, Elizaveta sentì nel petto un gelo tagliente: non tristezza, non sconforto, ma allarme. Si lasciò cadere sulla sedia accanto alla finestra. Il giardino, un tempo curato, era ormai un groviglio di ortiche e rovi; le rose ridotte ad alberelli secchi. Le scivolarono giù due lacrime dure, rabbiose più che spaventate. Non era una vittima. Non aveva mai chiesto compassione. Voleva combattere. A modo suo.

L’idea arrivò come una scarica elettrica: non difendersi—colpire per prima. Se loro aspettavano tremori e demenza, lei avrebbe messo in scena un altro copione. Tirò fuori il vecchio quaderno degli appunti. Pagine ingiallite, inchiostro quasi scomparso. Un nome cerchiato tre volte: Iosif. Ex socio. Debitore.
Compose il numero. «Iosif, sono Elizaveta Semënovna. Mi devi un favore. Non mi serve un bodyguard: mi serve un simbolo. Una presenza che basti da sola a far indietreggiare chi mi vuole morta.»

Quando raccontò il suo piano a Marina, la donna quasi si sedette dalla paura.
«Un delinquente in casa? Ci sgozzerà nel sonno!»
«L’onestà non si misura dalla fedina penale», la gelò Elizaveta. «Quelli che vedi tu baciano la mano e portano fiori, ma negli occhi mi pesano: quanto vale la mia vita?»

Due giorni dopo, il campanello squillò. Alla porta c’era un uomo sui quarant’anni, capelli corti da caserma, giacca scura e pulita, sguardo spento ma attento. Non cercò di risultare simpatico. Rimase fermo, diritto.
«Avanti, Aleksej, ti stavo aspettando», disse Elizaveta. Lo osservò come si guarda una possibilità. «Marina, il tè. Poi ci lasci soli.»

Quando furono a porte chiuse, andò al punto:
«Iosif ti avrà spiegato. Io non cerco una badante. Mi serve la paura. Dormirai qui, controllerai il secondo piano, e quando quei due verranno li fisserai come se potessi spaccargli la testa. Chiaro?»

Aleksej annuì appena. «Sono appena uscito. Ho difeso mia moglie: ho spinto un uomo, è caduto ed è morto. Per il giudice ero colpevole. Mia moglie poi ha sposato lui. Non mi è rimasto niente da perdere.»
Nei suoi occhi Elizaveta non vide odio, né sete di vendetta: solo un dolore limpido, nudo. Ingiustizia allo stato puro.

«Assunto», decretò lei. «La camera è al piano di sopra. Lo stipendio è buono. Resta come sei: chiuso, poco loquace e, agli occhi degli altri, pericoloso. Sarà più che sufficiente.»

I primi giorni furono pieni di silenzi densi. Aleksej si muoveva leggero, quasi senza lasciare traccia. Marina, che inizialmente sobbalzava a ogni suo passo, pian piano passò dal terrore alla curiosità, poi a una sorta di premura materna. Gli metteva in tavola porzioni più abbondanti, gli scaldava il tè col miele, gli lasciava pane e marmellata pronta. Quella gentilezza quotidiana, cucchiaio dopo cucchiaio, cominciò a ricucire i pezzi di lui.

Una mattina, timido: «Fuori c’è caldo… che ne dice di una passeggiata in giardino?»
Elizaveta non varcava la soglia di casa da un anno. Nella sua voce non c’era ordine, solo un invito. Lei si alzò piano. Le gambe tremarono, poi tennero. Un passo. Poi un altro. In pochi metri fu di nuovo in piedi nel suo regno. Viva.

Il giardino era un disastro. Eppure nelle sue pupille si riaccese la vecchia imprenditrice.
«Aleksej! Quelle rose vanno potate. Prendi cesoie e guanti. Le peonie legale, o si spezzano.»
Lui eseguì senza discussioni. Tornare a comandare le restituiva respiro.

Dopo due settimane le mani non le tremavano più.
«Sto meglio, vero?» chiese a Marina.
«È Aleksej», sorrise la governante. «Mentre parlate di fiori, ti rimette in bocca la vita.»
Elizaveta comprese: quella presenza silenziosa la stava riportando nel mondo dei vivi.

Un giorno Aleksej esitò sulla soglia:
«Al vivaio ho conosciuto una ragazza… Ksenija. È molto brava coi fiori. Potrebbe venire ad aiutarci un paio di giorni.»
«Invitala», disse Elizaveta, intravedendo nei suoi occhi un bisogno di luce tutto nuovo.

Ksenija arrivò come una primavera. Tracciò aiuole, accostò colori, sistemò geometrie. Il giardino esplose in rossi, viola, oro. Elizaveta li guardava lavorare e, per la prima volta dopo anni, sentì una pace piena, rotonda. Ordinò ad Aleksej un guardaroba nuovo:
«Non sei più soltanto una guardia. Sei il responsabile di questa tenuta.»
In giacca e cravatta sembrava un gentiluomo d’altri tempi. Quella sera cenarono sulla veranda che odorava di gelsomino.
«Aleksej, accompagna Ksenija a casa. Si è fatto tardi.»
Non era un semplice consiglio: era un invito alla felicità.

Ksenija tornò spesso, anche senza un motivo preciso. Torte fatte in casa, risate, imbarazzi condivisi. Elizaveta diventò confidente, spettatrice e regista discreta insieme.

Tra un mese avrebbe compiuto ottant’anni. Decise che niente finta festa in grande stile le avrebbe reso giustizia: le serviva un ultimo atto teatrale. Chiamò Evgenij con la voce apposta spezzata:
«Vieni, sto molto male. Dobbiamo parlare del futuro.»
Loro si presentarono con facce contrite e occhi famelici.
«Oggi ce la portano via in bara o in barella?» sibilò lui.
«Spero solo che non abbia nascosto niente nel testamento», borbottò lei.
Ogni parola finì incisa su un registratore.

In salotto trovarono Aleksej e Ksenija.
«E questi chi sono, la servitù?» sputò Svetlana, acida.

Le porte si spalancarono. Non entrò una vecchia malandata, ma una sovrana: tailleur blu notte, filo di perle, capelli raccolti alla perfezione. Camminava senza aiuti, sfiorando appena il braccio di Aleksej, impeccabile nel suo completo.

Rimasero a bocca aperta.

«Cari, che gioia vedervi al mio compleanno», cinguettò Elizaveta. Poi, a mezza voce verso Aleksej: «È il momento.»
Lui si inginocchiò, aprì una scatolina: «Vuoi sposarmi?»
«Sì», rise e pianse insieme Ksenija.
«E da parte mia, ragazzi, il regalo di nozze: questa casa è vostra. Domani andiamo dal notaio.»

Il colpo li lasciò senza fiato.
«Dobbiamo sbarazzarcene subito, avvelenarla!» ringhiò Svetlana fuori controllo.
Aleksej si voltò lentamente, con una calma che faceva paura:
«In carcere ci sono già stato. Se sfiorate Elizaveta Semënovna, questa volta ci finirete voi. E non per caso.»

Se ne andarono con la coda fra le gambe. Per non tornare più.

Tre mesi dopo, tra fiori e musica, Aleksej e Ksenija si sposarono davvero. Al centro del banchetto, Elizaveta rideva, distribuiva consigli, alzava il bicchiere. Non era più l’uccello in gabbia, ma il cuore pulsante di una casa piena d’amore. Lavorava a maglia piccole scarpine di lana. E visse abbastanza da vedere nascere il loro bambino: lo prese tra le braccia, gli annusò la testolina calda. Per la prima volta capì che il vero impero non erano i negozi né i conti in banca: era un giardino curato, una veranda illuminata la sera, una famiglia che riempiva le stanze.

Quando la morte, alla fine, bussò alla porta, non trovò più una casa fredda. Trovò risate, tazze di tè lasciate a metà, passi leggeri sul parquet. E un testamento firmato con mano ferma: non un addio, ma un passaggio di testimone. Un lascito di vita.

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