Ormai maggiorenne ma senza nessuno al suo fianco, fu costretta a sposare un uomo molto più anziano di lei pur di evitare il carcere; e quella che avrebbe dovuto essere la loro prima notte insieme non segnò l’inizio di una nuova vita, ma soltanto un lungo brivido di paura.

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Il giorno di gloria di Mitrofan Petrovič arrivò abbagliante, caldo e implacabile come un sole a picco: la sua nuova, sfarzosa “festa di vita”. Uomo di potere, di soldi e di agganci con la gente giusta, stava per presentarsi di nuovo davanti all’altare. Non era un matrimonio qualunque: quella firma gli avrebbe messo tra le mani il destino di una ragazza giovane, delicata, bellissima fino a togliere il respiro.

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La cerimonia sembrava l’incoronazione di un sovrano. Gigli bianchi e rose cremisi si arrampicavano ovunque, riempivano la sala di profumo; i calici tintinnavano seguendo il ritmo dell’orchestra, i tavoli traboccavano di piatti elaborati e cibi esotici. Gli invitati non si percepivano come semplici ospiti: ciascuno di loro era convinto di assistere a un avvenimento memorabile, degno di cronache e pettegolezzi. Tutto era progettato con un unico scopo: mostrare chi comandava, schiacciare, umiliare. Mitrofan non lesinò una moneta: voleva che ogni istante si imprimessse nelle menti come un monumento di splendore e di forza.

Ma dietro quella scenografia lucente si nascondeva una verità sgradita: non era il suo primo matrimonio. E, soprattutto, la sposa, Lena—bionda, gambe chilometriche, negli occhi una tristezza profonda—non aveva nulla da festeggiare. Il suo sorriso era un gesso tirato sul volto, i passi sul pavimento sembravano quelli di una marionetta guidata da fili invisibili. Nel suo sguardo non brillava l’attesa, ma una silenziosa resa: non stava entrando in una sala da ballo, bensì sul proprio patibolo.

Perché mai una ragazza così ammirata aveva accettato di sposare un uomo di quarantadue anni più vecchio? Tra i tavoli correvano voci come correnti d’aria:
«L’ha fatto per i soldi, è chiaro.»
«Vuole la scalata sociale.»

Ognuno tirava a indovinare, come se fosse un gioco. Nessuno immaginava la verità. Nessuno, tranne Lena. E Mitrofan. Fra loro non c’era amore, né attrazione, neppure un calcolo lucido: li teneva uniti un passato sporco, segnato da ferite e tradimenti.

Quando l’ultimo brindisi si spense e le risate si sciolsero in un brusio stanco, gli sposi si diressero verso la residenza. Non una semplice casa, ma un antico palazzo arroccato su una collina, degno di un romanzo gotico. Dentro, un trionfo di legno scuro e tessuti pesanti: mobili d’epoca, ritratti austeri che seguivano con lo sguardo, specchi dorati che moltiplicavano luci e ombre. La camera nuziale sembrava un palco: un letto a baldacchino smisurato, lenzuola di seta, candele tremolanti come occhi affamati.

Lena camminava dietro al marito come una detenuta scortata. Il velo, lungo come un torrente, strisciava sul marmo, raccogliendo vino, polvere e qualche traccia di fango lasciata dagli invitati. Lei non se ne accorgeva nemmeno: la paura le aveva svuotato la testa. Mitrofan procedeva rigido, col sorriso compiaciuto di chi si sente vincitore assoluto; negli occhi gli brillava una gioia feroce.

«Adesso non scappi più», ribolliva dentro di sé. «Ormai sei mia. E lo resterai.»

Una volta entrati in camera, si girò di scatto. Lo sguardo gli divenne subito tagliente.
«Guardati, sembri uscita da una pozzanghera», disse con disprezzo. «Ricorda bene: da oggi sei la signora Lavrent’ev. Pulita, composta, discreta. Questo è il tuo posto. Come quando eri… rispettabile.»

Lena non rispose. Le dita le tremavano mentre cercavano i bottoni del vestito. Lui la spedì in bagno a “purificarsi”, come se l’acqua potesse cancellare colpe, scelte e rimorsi.

Quando tornò, con l’accappatoio stretto al petto e i capelli ancora grondanti, il sangue le si raggelò.

Sul letto, bene in vista, c’erano due oggetti.
Il primo: una busta logora, agli angoli ingialliti.
Il secondo: una vecchia fotografia. Due sedicenni sulla riva di un fiume, immortalati in una risata condivisa. Sul retro, poche parole scritte in fretta: «Slavik e Lena. Per sempre».

«Tesoro», la voce di Mitrofan si fece mielata, quasi cantilenante, «non te lo aspettavi, vero? Ti avevo detto che tutto, prima o poi, torna indietro. Nessun conto rimane aperto per sempre.»

Lena impallidì all’istante. Le si rovesciò il mondo addosso; le gambe non la tennero e cadde a terra, svenuta.

Lui non si mosse per soccorrerla. La osservò da sopra, come un cacciatore che contempla la preda finalmente immobile. Nel suo sguardo non c’era ombra di pietà. Solo una vendetta lunga, studiata, ghiacciata.

Per capire perché, bisogna riportare indietro il tempo. Vent’anni prima.

Niente palazzi, niente cifre a sei zeri. Solo un fiume calmo che rifletteva la luna e due adolescenti seduti sulla riva, abbracciati contro la notte. Slavik e Lena: due ragazzi col cuore che batteva allo stesso ritmo.

Lui, figlio di un ingegnere rimasto vedovo; lei, cresciuta in istituto, negli occhi una fame di futuro.

«Mi è costato un casino scappare», rideva piano Lena. «La sorvegliante dorme poco. Ho messo un manichino nel letto e sono saltata dalla finestra.»

«Tu sei pazza», la guardava Slavik, innamorato, «ma sei la cosa più incredibile che mi sia mai capitata. Nessuno ci separerà, giusto?»

«Quando saremo maggiorenni ci sposiamo», gli prometteva, stringendolo forte. «E avremo una vita semplice ma nostra. Saremo felici, vedrai.»

Rimasero lì fino all’alba, a costruire castelli di sogni: una casetta, dei bambini, un tavolo apparecchiato, la routine dei giorni condivisi.

Poi il tempo, ostinato, riprese la sua corsa.

Gli anni scivolarono via. Slavik finì la scuola e iniziò a lavorare col padre in una piccola officina. Lena studiò per diventare contabile e per un po’ poté permettersi di non cercare subito lavoro: c’era Slavik che si faceva in quattro per loro due. Ma il sentimento fresco dell’adolescenza cominciò a scolorire.

Lena iniziò a desiderare altro: vestiti costosi, auto lucide, feste in ristoranti eleganti, locali dove contare qualcosa. Accanto a quelle immagini, Slavik le appariva sempre più “banale”, troppo normale, troppo semplice.

Il giorno fissato per le nozze, Lena svanì.

Al suo posto, solo un foglio:
«Perdonami. Amo un altro.»

Slavik corse a cercarla in casa del nuovo uomo: un imprenditore tronfio, più vecchio, quasi il doppio degli anni di Lena, con l’aria di chi pensa che tutto si possa comprare. Bussò, parlò, implorò… lo presero di peso e lo buttarono fuori.

Lena rise.

«Te ne pentirai!» gridò lui, distrutto, dalla strada. «E sarà troppo tardi!»

Passò più di un decennio. La piccola officina si trasformò pian piano in un impianto industriale: Slavik divenne un imprenditore stimato, rispettato, con alle spalle lavoro e disciplina.

E Lena? Il suo “principe” la scaricò presto, come un soprammobile fuori moda. Lei si rimise a fare la contabile, si fece spazio a fatica, cercò di rifarsi una vita. Ma la vergogna, sottile e tenace, continuava a graffiare sotto la pelle.

Fu allora che, durante un colloquio in una grande azienda, incontrò Mitrofan Petrovič. Direttore generale, freddo come marmo. Lei non capì che si trattava del padre di Slavik. Fu l’errore che le ribaltò l’esistenza.

Alcuni mesi dopo, l’occasione. Cinque minuti da sola in ufficio. Nessuno sguardo addosso.

La tentazione vinse.
Rubò. Tanto. Troppo.

Ma Mitrofan non era un ingenuo. Controllava, teneva d’occhio, accumulava prove. Quando ebbe in mano tutto, non la portò alla polizia. Le offrì un’altra strada.

«Non vado a denunciar­ti», disse, toccando con un dito la cartellina delle prove. «Ma mi sposerai. Qui, in casa mia, farai la serva silenziosa. Questi documenti restano con me. Così ti passa la voglia di scappare.»

Lena pianse, supplicò, cercò un appiglio. Non ne trovò. Alla fine, annuì. Era in trappola.

Ed eccoci di nuovo alla camera nuziale, ai due oggetti sul letto.

Quando Lena riaprì gli occhi, davanti a lei non c’era più il vecchio marito. C’era un uomo che si stava togliendo una parrucca, staccando la barba finta, cancellando con una salvietta le rughe disegnate sul viso.

Davanti a lei, d’improvviso, non c’era più Mitrofan. C’era Slavik. Il ragazzo del fiume, con gli stessi occhi di allora, solo più duri, rigati da anni di ferite.

«Possiamo parlare?» chiese, con la stessa voce di un tempo. «Come quella notte, sulla riva.»

Lena crollò in ginocchio.
«Perdonami», singhiozzò. «Sono stata fragile, avida, cieca. Non ho saputo scegliere. Ti prego, Slavik, perdonami.»

«No», rispose lui, senza bisogno di alzare il tono. «Il perdono non è tuo di diritto. Tu sarai l’esempio perfetto di ciò che succede quando si baratta l’amore per il denaro. Mio padre non voleva vendicarsi: voleva che tu vedessi chi sei diventata. A lui non servi. Ama ancora mia madre. E quei documenti… li ho messi al sicuro. Così tutti sapranno che hai sposato un vecchio per interesse. Sapranno del tradimento.»

Lena uscì dalla tenuta senza versare una lacrima: si erano già seccate tutte dentro di lei. Tornò al dormitorio e accettò l’unico impiego che le offrirono: addetta alle pulizie. Si aggrappò a quel lavoro modesto come a un relitto in mezzo alla corrente.

Ora, mentre sfrega i pavimenti e l’odore di detersivo le brucia le mani, vede riaffiorare nella mente il fiume, la luna riflessa, il primo sorriso. Capisce che certe scelte non si aggiustano, che alcune lacrime non evaporano mai davvero e che certi cuori, una volta spezzati, non riprendono più la forma di prima.

Sulla collina, nel grande salone illuminato dal fuoco, Mitrofan siede davanti al camino. Tiene tra le dita la vecchia fotografia e mormora piano:
«Figlio mio… ce l’hai fatta. Non l’hai distrutta: le hai solo mostrato la verità.»

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